Dai “bigat” ai “cuchet” un allevamento che impegnava soprattutto donne e bambini
La storia dei bigàt (così chiamati in Piemonte) è affascinante e complessa. I tessuti di seta hanno sempre esercitato un fascino particolare fin dal loro apparire nella lontana Cina. Fu grazie ai bizantini e agli arabi che l’allevamento del baco da seta e il filato si diffusero nel bacino del Mediterraneo e risalì anche in Piemonte. A partire dalla seconda metà del Seicento furono impiantati a Borgo Dora, a Porta Susa e poi a Racconigi e a Chieri, e nel Cuneese filatoi idraulici integrati con il lavoro delle filande per la produzione di trame e organzini di seta. Crebbe anche l’allevamento dei bachi. Già nel 1476, Bianca del Monferrato, giovanissima, promosse la coltivazione dei gelsi e l’allevamento dei bachi. Una scelta che porta alla trasformazione del paesaggio agricolo.
Alla metà del 1600, nell’Astigiano, Nizza della Paglia era uno dei più fiorenti centri d’industria bacoserica. Da documentazioni storiche custodite nell’Archivio di Stato di Asti, risulta che a quell’epoca quasi la metà delle famiglie avesse attività legate all’allevamento dei bachi, alla produzione dei bozzoli.
Il gelso cresceva vigoroso in tutto il Piemonte, in lunghi filari, che spesso segnavano anche i confini delle proprietà contadine. Ancora oggi in tutto il territorio dell’Astigiano, scorgiamo parecchi vecchi gelsi; utile è anche il suo frutto: la mora di gelso bianca o nera, detta “mu”. A Moasca, si svolge un’originale manifestazione dedicata alla “turta d’mu” (la torta di more di gelso).
I bachi costituirono una nuova fonte di ricchezza per il territorio piemontese, accanto alla produzione del vino e dei cereali. Erano soprattutto le donne le dirette interessate nella cura dei bachi e nella lavorazione del filo alle filande da cui ricavavano un loro reddito.
La filiera del baco da seta era divisa tra l’acquisto del seme, l’incubazione, la schiusa delle uova, l’allevamento, la crescita del baco e la formazione del bozzolo di seta. Per l’acquisto del seme ci si rivolgeva ai “smenzè” che vendevano le uova in bustine di carta bucherellate per permettere l’aerazione e l’uscita dei bachi schiusi. L’unita’ di misura per pesare il seme era l’“oncia” che corrispondeva a circa 25/30 grammi netti. A metà dell’Ottocento le uova di bachi costavano intorno ai 48 centesimi il grammo: la giornata lavorativa di una donna era di una lira, la foglia del gelso costava 7 centesimi al chilo ed i bozzoli 4 lire al chilo. Nel 1887 il seme da bachi era diminuito a 33 centesimi il grammo, in un’oncia di seme c’erano 50.000 uova (resa prevista 90 kg di bozzoli).
All’inizio ci si autoproduceva le uova, lasciando completare il ciclo vitale ad alcune dozzine di bozzoli. Con il trascorrere degli anni, però, il seme così prodotto perdeva qualità; per questo si compravano da fuori e si praticava lo scambio di semi tra famiglie di zone diverse anche nel corso dei pellegrinaggi ai santuari. Molti scambi avvenivano a Crea, nel Monferrato. Nel 1856, l’astigiano Giuseppe Solaro aprì l’Istituto Bacologico Astese che fu il primo a praticare la “selezione microscopica” del seme. La fase successiva era la schiusa delle uova; necessitano di molto calore almeno 20 gradi. Le uova acquistate si avvolgevano in panni di lana deponendoli poi in un cestino che si appendeva alla trave in mezzo alla stalla. L’incubazione vera e propria durava 18 giorni e la si poteva favorire con vari metodi.
I sacchetti si aprivano una volta al giorno per aerare le uova, muoverle ed in seguito più volte al giorno per osservarne l’avvenuta schiusa… Si praticava anche la “schiusa in seno”, con le uova messe in un panno di lana tra i seni della donna di casa. La “cova” durava due o tre giorni. La tradizione popolare legava la buona riuscita dell’allevamento a San Marco protettore dei bachi e della bachicoltura: “Portavano il seme dei bachi a benedire in chiesa, di solito, il giorno di San Marco (il 25 aprile), così come si trovava nella scatoletta rotonda di cartone bucherellata, acquistata in Asti…” scrive Giacinto Grassi. Nel periodo precedente la schiusa, occorreva preparare la “bigattiera” trasformando granai, fienili, camere, soffitte. Si lavavano prima con acqua e soda, oppure con la lisciva di cenere, gli ingressi e le porte, le finestre, vetri, i pavimenti.
Le pareti dove già l’anno precedente si erano allevati bachi venivano imbiancate a calce. L’attrezzatura fissa della bigattiera era il canniccio da bachi, composta da diversi ripiani sui quali allargare i bachi e le foglie dei gelsi per l’allevamento.
I bacolini appena schiusi erano voraci. Si incominciava perciò verso la fine di aprile, quando i gelsi avevano le prime tenere foglioline . Alla nascita il baco è scuro e peloso, lungo circa 3 millimetri e pesa quanto il suo stesso uovo. I bacherozzoli appena nati si trasferivano su di un setaccio che li avrebbe ospitati nella loro prima settimana di vita. Il trasferimento si praticava usando delicatamente una foglia di gelso intera sulla quale i bachi salivano in breve. La temperatura per l’allevamento non doveva subire sbalzi. Ai piccoli bruchi i pasti venivano serviti ogni due ore, costituiti da tenera foglia di gelso, di volta in volta tagliuzzata finemente con le forbici o con il coltello sull’asse da tritare. I bruchi nati da un’oncia di uova (circa 50 mila) nei loro primi cinque giorni di vita consumavano tre chili di foglia tenera, ma nel corso dei loro 30 giorni di vita avrebbero richiesto almeno una tonnellata di foglie perché ogni bacolino sarebbe aumentato di circa 30 volte in lunghezza e di circa 8000 volte in peso.
Si tagliavano i rami dei gelsi e, stando attenti di togliere il germoglio in punta al rametto in quanto tossico per le larve, si riempivano le stagere e le larve iniziavano a mangiare, consumando una quantità enorme di foglie: le stagere dovevano essere riempite anche di notte in quanto le larve per quattro – cinque giorni non fermavano le mandibole.
Sono rimasti i gelsi a segnare il paesaggio
Muti testimoni di una storia svanita alle soglie degli Anni ’50
Nelle settimane crescono e cambiano re volte pelle durante fasi di riposo, le cosiddette “dormite”. Il baco assimilava le sostanze nutritive della foglia di gelso ed espelleva scorie sotto forma di finissimo granulato. Occorreva dunque cambiare loro la lettiera ogni due giorni. La “quinta età” dei bachi durava circa dieci giorni, arrivavano ad essere lunghi quasi una decina di centimetri e pesare poco meno di 4 grammi. Quando iniziavano a secernere dalla bocca una specie di schiuma, ci si accorgeva che erano pronti per tessere. A questo punto bisognava preparare “il bosco”. Si utilizzavano dei rametti (solitamente vimini, noccioli) che venivano posti dentro le stagere. I bachi salivano su questi rametti e iniziavano a formare il bozzolo. Era il momento più entusiasmante: il baco saliva sugli steli delle piante che trovava e cominciava a produrre da quattro aperture, situate due a due ai lati della bocca, una bava sottilissima che, a contatto con l’aria, si solidificava e che, guidata con movimenti ad otto della testa, si disponeva in strati formando un bozzolo di seta grezza, costituito da un singolo filo continuo di seta di lunghezza variabile fra i 300 e i 900 metri. Il baco impiegava tre o quattro giorni per preparare il bozzolo formato da circa 20-30 strati concentrici costituiti da un unico filo. Nel giro di pochi giorni il “bosco” era tutto colorato da bozzoli bianchi o gialli, a seconda della qualità; di solito si raccoglievano dopo otto giorni: si riconoscevano finiti, quando, agitandoli, si udiva la crisalide sbattere all’interno. Era allora arrivato il tempo di sbozzolarli. La raccolta avveniva di solito attorno a San Pietro (29 giugno). Quelli ottenuti per primi, da bachi più rigogliosi, si tenevano separati dagli altri e si donavano poi al prete in onore della Madonna. A questo punto madre natura avrebbe voluto che dal bozzolo nascesse una farfalla. L’uomo però deviava il corso della natura, per evitare che si schiudessero rovinando il filo di seta. I bozzoli venivano bolliti in grandi pentole, uccidendo così le crisalidi. Era un lavoro che si faceva nelle filande. I piccoli allevatori portavano i bozzoli ancora vivi al mercato dei “cocconi”, in dialetto “cuchèt”: Piazza Alfieri ad Asti si colmava di carri. Il calcolo dei commercianti era che da quattro chili di bozzoli si potesse ricavare un chilo di seta. Le donne discutevano sul prezzo, ma sapevano che avrebbero dovuto cedere. Il mestiere di allevatori di bachi non ha superato la diffusione delle fibre tessili artificiali. I bigat sono rimasti nelle memoria e nei gelsi testimoni di un’epoca. Negli Anni Cinquanta il mondo dei bigat è scomparso.
Per saperne di più
Una ricerca scolastica sui “bigat” si è svolta alla scuola media Carlo Gancia di Canelli coordinata dai prof. Liliana Gatti, Carlo Bergamasco e Adele Ferraris.
Le schede
Un filo di seta
Asti, Estate 1922: Anna Rey ed Umberto Curletti sono a tavola, nella piccola cucina dell’alloggio al primo piano che si affaccia su Piazza Astesano: è l’ ultimo giorno che trascorrono in quella casa. Vi sono entrati, da sposi, nel novembre del 1917, e l’ anno successivo, poco prima di Natale, è arrivata Piera… Man mano che il tempo è trascorso (Anna ha potuto contare sull’aiuto della sorella Vittoria e della balia Angiolina, per accudire la piccola, senza rinunciare al lavoro nel suo negozio di “modisteria” in via Brofferio), la casa è diventata troppo piccola. Per questo Umberto ha preso la decisione di trasferire la famiglia in un alloggio più grande, in via Solari, nel fabbricato di proprietà della “Fratellanza Militari in Congedo”, di cui è socio, come reduce della “Grande Guerra”, anche se per entrambi sarà di poco più lunga la strada per recarsi ogni giorno al lavoro, soprattutto per lui, tornitore specializzato della Way Assauto. Ma ne vale la pena, perché la casa è grande e ad Anna è subito piaciuta. Estate 1924: Piera tra poco passerà dall’ asilo delle suore Telline di via Brofferio alla scuola elementare della maestra Bizzarri, Umberto è sempre impegnato con il suo lavoro e si concede l’ unico svago delle bocce, Anna pensa ad una nuova attività, da svolgere in casa, senza più il negozio a cui badare. La grande camera indipendente verso la strada, più ombrosa e fresca delle altre, ben arieggiata, ospiterà un piccolo allevamento di bachi da seta, diventando una “bigattiera”.
Ci sono già le tavole a castello con i cannicci per appoggiare i rami affogliati di gelso, per nutrire i seme bachi, le larve che in poche settimane cominciano a filare il loro serico bozzolo color avorio, fino ad avvolgervisi completamente. A Piera fanno tenerezza quei minuscoli insetti destinati purtroppo a vivere una breve esistenza: quando da larve si sono trasformate in crisalidi, appena prima di crescere al punto di rompere il bozzolo maturo per uscirne come farfalle, devono essere fatte morire, lasciando intatto il prezioso involucro – culla e tomba per ognuna di esse – da cui ricavare, filandola, la seta. Agli occhi di una bambina quel processo rapido e naturale appare una specie di favola, con un finale per lei tragico: si è come affezionata ai bachi e sapere che li si deve uccidere la intristisce. Piera ne ha conservato a lungo il ricordo – e la memoria è sottile ma resistente, proprio come la seta – e l’ ha trasmesso a me , sua figlia.
Anna Maria Migliarini Bossone
Pubblicato su ‘L tò Almanach del 2008, ed. Primalpe, Cuneo