La festa è, con ogni probabilità, l’istituto folklorico cui è ricorso con più intensità l’individuo contemporaneo per ritornare a essere attore del teatro della vita. La partecipazione attiva al rito popolare gli permette di ancorarsi, di vivere e ri-vivere la comunità, nel tempo della tradizione risuonano echi di tamburi etnici, in cui l’oralità aggiorna quotidianamente frammenti attivi di memoria che costituiscono e mantengono in vita l’enciclopedia tribale generata dal gesto e dalla parola, dal canto e dalla danza, dalla condivisione del vino e del cibo. Allo stesso modo, attraverso la rinnovata pratica del mito rappresentato, rivissuto, l’individuo del tempo presente non solo recupera le buone pratiche di comunità, ma le re-introduce in un processo virtuoso contemporaneo di rivalorizzazione. In questi non sempre trasparenti e innocenti processi di “appaesamento”, di ritorno al luogo delle origini, alle radici, il cibo riveste una particolare e rilevante funzione. Mentre il calendario rituale della festa tendeva alla scomparsa e comunque a un più o meno lungo periodo di oblio, per quanto concerne le forme e le pratiche connesse all’alimentazione tradizionale, non c’è stata una vera interruzione Ancora oggi, nell’essere partecipe delle pratiche e dei saperi gastronomici, l’uomo malato di complessità, proprio a partire dalla condivisione del cibo, soprattutto quello simbolico, quello che scandisce il ritmo della festa popolare, ritrova il tratto costitutivo, il sostrato etnico più profondo per reinventarsi nella comunità, per costruirsi una nuova/antica appartenenza. Così come questo soggetto ridiventa attore della festa popolare per essere ricompreso nella memoria collettiva di un villaggio ritrovato, così scopre i fornelli della tradizione, recupera le ricette contadine, i prodotti della terra, il trascorrere delle stagioni, ritorna a ricostruire i frammenti sparsi dei ritmi alimentari di un mondo contadino ancora connesso alla natura. Anche la ripresa della cucina tradizionale rientra, di diritto e di fatto, nelle categorie interpretative che l’antropologia ha elaborato recentemente. Ma, certamente, non allo stesso modo. Il cibo, nelle forme e nelle pratiche della tradizione, conosce assai meno i complessi e funambolici processi d’invenzione, di reinvenzione, perché conserva ancora, almeno in parte, memoria attiva del suo trascorso, una tracciabilità materiale anche fortemente simbolica. Credo sia proprio questa memoria simbolica uno degli elementi distintivi che ritroviamo nell’annuale distribuzione di fagioli, il due gennaio a Castiglione, festa tradizionale la cui storia e le peculiari caratteristiche sono ben illustrate, in queste stesse pagine, da Luciano Nattino. Il dono alimentare voluto da Guglielmo Baldissero otto secoli fa, viene annualmente riproposto, dando vita a una storia lunga che forse poche altre feste piemontesi possono vantare. Siamo di fronte ad un rito, un momento dell’intervallo festivo delle colline astigiane che nel corso del tempo ha saputo rinnovarsi senza tradire i tratti caratterizzanti e fondativi.
Il plurisecolare successo della fagiolata, che si celebra annualmente sulla collina di Castiglione, credo sia legato al suo essere al contempo momento di festa e di quotidianità. Gianpaolo Gri, studiando analiticamente le distribuzioni rituali di minestre nelle campagne udinesi, ha messo in luce come tali offerte collettive non facessero tanto parte “dello straordinario e dell’eccezionale”, in quanto si trattava di momenti di condivisione che “si intrecciavano con il quotidiano e il necessario”. Si tratterebbe dunque di distribuzioni alimentari che servivano originariamente a garantire “ad alcuni la salvezza dell’anima, ad altri la salvezza del corpo, alla società nel suo insieme la riproduzione della struttura”. Le riflessioni dello studioso friulano ci possono aiutare a comprendere il senso profondo che ha originato la fagiolata di San Defendente, ma che ha anche decretato il successo della sua “lunga durata”. Guglielmo Baldissero con l’istituzione della fagiolata annuale, di questo dono rituale, rivolto inizialmente ai poveri della comunità, oggi a tutti i partecipanti alla fagiolata, ha saputo garantirsi non solo il suffragio per la propria anima da parte degli intervenuti alle sue messe anniversarie, ma anche e soprattutto il ‘ricordo’ da parte dei propri compaesani, contro-dono collettivo e prezioso con cui i castiglionesi e tutti i partecipanti alla festa, forse inconsapevolmente, rinnovano la memoria del loro antico predecessore e benefattore. Sicuramente Guglielmo, attraverso il proprio lascito, ha saputo con intelligenza e preveggenza “mettere radici”, farsi pavesianamente “terra e paese” fra le generazioni che dopo di lui hanno abitato la collina che guarda ad Asti. Sicuramente, dopo otto secoli, possiamo ben dire che la memoria di Guglielmo e la festa di Castiglione hanno saputo durare “qualcosa di più che un comune giro di stagione” (Pavese, 1950).
Le schede
Bibliografia. Per saperne di più
GAMBA Aldo, La fagiolata di Castiglione, in Il paesaggio culturale astigiano. La festa, a cura di G.L. Bravo, M. Devecchi, R. Grimaldi, Asti, Omnia, 2009.
GRI Gianpaolo, Poveri, morti e minestre, in Dare e ricambiare nel Friuli di età moderna, a cura di G. Colledani, Spilimbergo - Montereale Valcellina, Università della terza età dello Spilimberghese-Circolo culturale Menocchio, 2007, pp. 27-55.
GRIMALDI Piercarlo, Il calendario rituale contadino. Il tempo della festa e del lavoro fra tradizione e complessità sociale, Milano, Franco Angeli, 1993.
GRIMALDI Piercarlo, Cibo e rito. Il gesto e la parola nell’alimentazione tradizionale, Palermo, Sellerio, 2012.
GRIMALDI Piercarlo, NATTINO Luciano (a cura di), Il teatro della vita. Le feste tradizionali in Piemonte, Torino, Omega, 2009.
PAVESE Cesare, La luna e i falò, Torino, Einaudi, 1950