Il lavoro del contadino contiene un patto di estrema fiducia con la terra e la natura affinché i semi in pugno che nell’autunno affida al solco appena arato, si risveglino dopo il lungo sonno invernale.
Il calendario rituale della tradizione è definito da un profondo magismo che ritroviamo in
riti, simboli, segni, in forme e pratiche di religiosità popolare che costellano i grandi
momenti del trascorrere delle stagioni sino al tempo dei raccolti. Un calendario, quello delle campagne che è giunto sino a noi, sino alle ultime generazioni che ci hanno preceduti, che apparteneva a un progetto del sacro, della qualità, contrapposto sino a poco fa a quello profano, cronometrico, dell’industrializzazione, della modernità.
Oggi di questo tempo della tradizione riusciamo a malapena a riportare alla luce labili reliquie, memorie scompaginate, frammenti di oblio. Non a caso l’intelligenza del presente ha destinato alla memoria un complesso sapere orale e gestuale connesso ai temporali estivi, a quando improvvise e minacciose nubi dai colori che trascorrono dai più candidi
bianchi ai neri più neri, scompaginano una dolce giornata estiva e il senso della
tragedia muta improvvisamente sulle colline che riflettono gli incubi che il cielo porta con sé.
Oggi affrontiamo con meteorologico fatalismo e con qualche incerta risorsa scientifica l’evento, mentre in passato il cielo che si faceva plumbeo non apparteneva più a Dio, ma veniva posseduto dal diavolo “salito in carrozza”, e quando il tuono si faceva più forte
ancora “il diavolo picchiava la moglie”, “giocava a bocce”. Nel profondo della tempesta era il “diavolo dai piedi rivoltati” a scatenare il frastuono infernale degli elementi contro Dio.
Nel quadro più vasto del folclore europeo si aggiunge, al potere demoniaco, lo scatenarsi della collera di Dio e l’opera di streghe e stregoni e di “tempestaires”, spiriti o esseri umani che nel medioevo “attraverso procedimenti magici producevano i temporali o la grandine e li facevano cadere dove volevano” .
Nei brevi momenti che precedevano la temuta grandine che se asciutta, poco mista alla pioggia, distruggeva i frutti che volgevano alla maturazione e anche le piante, le vigne, sino a mettere in gioco non solo il raccolto dell’annata ma annunciando anni futuri di carestia
e di stroncata sopravvivenza, in cascina si mettevano in atto le risorse magico- religiose contro le forze demoniache.
Grande è la religiosità popolare che ispira e guida i terrorizzati comportamenti del contadino in questi tragici istanti. Il ramo d’ulivo benedetto della Ramuliva custodito sopra il quadro di devozione di famiglia che sovrasta la testiera del letto, veniva ritualmente bruciato nel cortile di casa e le donne recitavano le giaculatorie che allontanavano il temporale. Un oggetto di religiosità popolare che rafforzava la sua potenza contro la grandine se contestualmente si accendeva il cero della Candelora, benedetto dal sacerdote il 2 febbraio nel giorno dedicato alla Purificazione della Beata Vergine Maria.

Le preghiere delle rogazioni lungo i campi e nelle vigne
La Chiesa aveva predisposto una specifica liturgia, oggi facoltativa, che attraverso preghiere, processioni, intercede presso il Signore la grazia per le campagne e i raccolti che stanno giungendo a maturazione.
A fulgure et tempestate libera nos Domine, prega il sacerdote con i fedeli chiamati all’alba nei giorni che la Chiesa dedica alle Rogazioni, processioni campestri che sacralizzano il territorio, i confini della comunità. Enzo Bianchi nella grandine che improvvisamente pela la
campagna d’un anno vede una «tempesta di pietre che in un istante può far scorrere sangue nei solchi» e può compromettere la strategia non solo di un’annata ma generazionale: «il frutto di una pazienza ben più antica. La vigna, infatti, a differenza dei
cereali e anche di molte piante da frutto, non è una coltivazione immediatamente produttiva: piantare una vigna è come fare un matrimonio con la terra, è gesto di grande speranza, che non a caso la Bibbia pone come il primo gesto compiuto da Noè dopo
il diluvio» (Bianchi, 2008).
Alcuni santi folclorici erano venerati dai contadini perché particolarmente specializzati nel difenderli dalla tempesta e dal fulmine. A San Grato che protegge dai temporali, sono dedicate molte chiesette votive. Nell’iconografia popolare sacra solitamente il santo viene rappresentato mentre invia il fulmine e la grandine nel pozzo proteggendo uomini e raccolti. A Santa Barbara e a San Simone si rivolgono i contadini per allontanare il tuono e il fulmine.
Lo scongiuro che la gente ricorda ancora al presente è riportato da Giuseppe Ferraro che documenta le “superstizioni” del suo ottocentesco Monferrato: Santa Barbura e San Smun,
Dlibarène da u lamp e da u trun, Da u trun e da ra sayetta, Santa Barbara benadetta
(Ferraro, 1886)

Campane suonate a baudetta per allontanare il temporale
In questo quadro di religiosità popolare le campane avevano una funzione particolare. Quando le nubi si addensavano minacciose il sacrestano suonava a baudetta e i sacri bronzi ingaggiavano per l’aria una lotta senza quartiere con i tuoni del temporale.
A dare manforte al campanile della chiesa madre si aggiungevano i rintocchi a distesa delle piccole campane delle chiesette di collina. Un epico, eroico scontro tra il sacro e il profano, un confronto sonoro che non sempre vinceva le forze notturne che nell’improvviso buio del giorno minacciavano la sopravvivenza dei campi e della cascina.
Lo “sclinto” ordine sonoro delle campane si oppone ai frastornanti fracassi delle tenebre temporalesche.
Il rito con la catena del focolare e le falci esposte in cortile
Nello stesso tempo, la catena e gli attrezzi del focolare venivano portati sull’aia con falci e coltelli rivolti verso il nero cielo. La catena rappresenta il camino del focolare, l’apertura tra la casa e il cielo, il passaggio attraverso il quale i due mondi dialogano e convivono tra terra e cosmo.
La catena buttata sul cortile interrompe questo varco che diventa pericoloso per i fulmini e
ha l’effetto magico di indirizzare la folgore sull’aia. Le lame, le falci del lavoro rivolte verso la tempesta magicamente spezzano la grandine. È in questo momento che l’uomo di casa volge verso l’improvviso buio del mondo la sua arma più preziosa e potente: la pietra del fulmine o del tuono.
Nelle campagne della tradizione, ancora nella prima parte del Novecento, si riteneva che la folgore, quando colpiva, lasciasse come testimonianza concreta la punta. Una piccola pietra che, per chi la trovava, rappresentava un’importante risorsa per la cascina, un oggetto magico di natura celeste che permetteva di contrastare i pericolosi temporali estivi. Rivolta verso il cielo fermava i fulmini.

La forza magica delle preje du trun forgiate dai fulmini
Tali punte – alcune volte frutto del ritrovamento nei campi di asce e scalpelli di epoca preistorica – venivano conservate gelosamente come oggetti di natura divina che in generale contribuivano a proteggere e a guarire da malattie il fortunato possessore.
Sulle nostre colline, sino ad alcuni decenni or sono, si trovavano ancora pali di testa in pietra che sorreggevano antichi filari. Emma Ghignone, contadina di Cossano Belbo che da troppo tempo ci ha lasciati, si ricordava che i suoi vecchi dicevano: «La pietra difende la
vigna dal fulmine e dalla grandine».
Quest’ultima credenza è intimamente connessa, come ho appena detto, alla magia della vigna. Giuseppe Ferraro scrive, sul finire dell’Ottocento: «Credesi volgarmente che dopo la venuta dei temporali crescano in grossezza i tartufi (così credevano pure i romani, come
dice Plinio) e si formino quelle che a Carpeneto chiamano preje du trun (letteralmente pietre del tuono) e pedras de tronu in Sardegna, mentre sono lance preistoriche, abbondanti specialmente in alcune località di Val d’Orba» (Ferraro, 1886, p. 23).
Secondo Euclide Milano «le sfolgorine (asce dell’età preistorica) sono conservate e tenute in casa quale talismano preservativo dal fulmine. Dette appunto sfolgorine perché si credono
cadute col fulmine stesso e aventi virtù contro di esso (in ugual modo sono chiamati certi denti di pescecane, di forma triangolare) che si trovano nei tufi, prodotto di sedimenti marini formati dal lungo e tranquillo soggiorno del mare sulle nostre terre».
A contribuire a questo immaginario folclorico che si rende tangibile, si concretizza attraverso gli oggetti ritrovati intesi come punta del fulmine, vi è pure l’unghia dell’orso che, in un tempo ormai lontano, abitava i boschi di queste colline. Reliquie di un mondo intraducibile per il nostro contadino, ma che appunto per la loro inquietante forma non possono che accrescere il senso del mistero e del magico che l’oggetto ritrovato sussume.
Il complesso sistema magico-religioso che il contadino mette in campo per difendersi dall’ira del cielo che minaccia tempesta, come abbiamo visto, era particolarmente elaborato perché le sorti della cascina dipendevano dalla capacità di esorcizzare il temporale che stava per scagliare grandine e fulmini.
Oggi continuiamo ad avere paura della natura matrigna che ci aggredisce quando la campagna è più fragile e indifesa, ma è pur vero che sempre meno ricorriamo al profondo quadro “superstizioso” dei nostri progenitori.
Profanamente guardiamo il cielo e contiamo sulla meteorologia che non allontana il fulmine, ma ci dice con qualche approssimazione se siamo noi la ragione cieca della furiosa natura o il nostro vicino di casa. E intanto si spara al cielo con cannoni che sostituiscono le taciturne campane delegittimate dal nostro profano modo d’interpretare il mondo, nell’attesa che la scienza regoli anche questo fenomeno atmosferico, dimenticando che il nostro stolto atteggiamento contro la natura che ci ispira e ci guida oggi, ci sta attirando nuovi e più cruenti fulmini e nuove sempre più minacciose e devastanti grandinate che non solo evochiamo ma incoraggiamo per il nostro scarso e opportunistico amore verso la terra e il
cielo che ci sono genitori.
Per saperne di più
BIBLIOGRAFIA
Bianchi Enzo (2008), Il pane di ieri, Torino, Einaudi.
Ferraro Giuseppe (1886), Superstizioni, usi e proverbi monferrini, Palermo, Luigi Pedone Lauriel Editore.
Milano Euclide (2011), Proverbi, superstizioni e leggende della provincia di Cuneo, a cura di Borra Agostino, Cuneo, Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della Provincia di Cuneo, Tipolito Europa.
Sébillot Paul (1990), Riti precristiani nel folklore europeo, Milano, Xenia.



