Dedicato a chi, nei primi anni Cinquanta, era bambino. A chi abitava ad Asti, magari in una casa di ringhiera. Dedicato a chi aveva una mamma casalinga e un padre operaio, oppure artigiano, carpentiere, elettricista, muratore, usciere, impiegato, camionista… Fate voi. La cosa importante è socchiudere un uscio e sbirciare sulla tavola natalizia di questa famiglia astigiana, dopo che i bambini hanno aperto i pacchetti dei doni – un trenino, un semplice puzzle fatto di cubi di legno con cui dare vita agli animali della fattoria, un gattino con la molla che corre e si rotola per terra, un bambolotto di celluloide dagli occhi fissi e smerigliati. Mentre madri e zie si affaccendano in cucina. Il pranzo è atteso con una certa trepidazione, ora che ci si può concedere qualche sfizio dopo le magre festività del tempo di guerra. Un bel panetto di burro fresco e giallo, ad esempio, comprato in quella certa latteria che lo fa arrivare dalle Langhe. Le cuciniere ne ricavano riccioli invitanti che dispongono accanto agli affettati: salame cotto e crudo finalmente tagliati a mano belli spessi, e quella che i più anziani chiamano “galantina”. La si va a prendere in una bottega di Mongardino dove allevano, macellano e lavorano il maiale: è fatta con parti della testa, della lingua e della spalla, sezionate e compattate insieme, avvolte strette in una tela e cotte a bagnomaria in uno stampo rettangolare. I sapori grassi del maiale si rinfrescano con qualche sottaceto, brusco e croccante, tirato su dal barattolo di giardiniera preparato nell’estate. A seguire si può scommettere che ci sarà l’insalata russa, sulla cui esecuzione le donne di casa hanno probabilmente discusso, vagliando se tagliare verdure e cetriolini sottaceto fini con la mezzaluna, come si usa fare in certe case, oppure a dadini non troppo piccoli e poi, prima di amalgamare con la maionese, arricchire con tonno sott’olio sbriciolato e qualche cappero.
Nel presepe le montagne fatte con il maciafer
Intanto, mentre i piccoli giocano vicino al presepe – qualcuno ha fatto cadere la montagna di maciafer che il papà ha cavato dalla stufa a carbone, qualcun altro ha già staccato e mangiato i cri-cri e le dorate monete di cioccolato che penzolano dall’alberello di Natale –, nella sala si mescolano profumi di pino e di mandarini, di brodo aromatico e di crema. È una novità di quest’anno, la crema, che mamma ha preparato seguendo una ricetta di Lisa Biondi, un’esperta cuoca che firma le ricette della margarina Gradina. Ci sono andate tutte, le mamme, in pellegrinaggio presso il furgone che ha stazionato a lungo in piazza Roma e dove gentili signorine ammannivano fettine di pane spalmate di Gradina, regalavano libriccini quadrati con titoli promettenti (“Prendeteli per la gola… dolcemente con Gradina”), magnificando le virtù salutari della margarina. Non hanno mai voluto credere, le mamme, che Lisa Biondi non è mai esistita, una cuoca virtuale, un nome dietro al quale si nasconde una équipe di esperti. Una specie di Wu Ming della cucina. Ma si fidano, tant’è che quest’anno ci sarà la crema servita con il panettone Galup. È più caro del Munciairin, ma la sua glassa alle nocciole è una meraviglia. Del resto ai bambini il Munciairin lo comprano tutte le domeniche e a volte se lo portano a scuola il lunedì, riavvolgendolo in quella carta un po’ cellophane un po’ oleata a motivi colorati rossi e blu. Invidia dei compagni. Altro che pane e fruttino! E poi è nostrano, lo fa la dolciaria Mark di Montechiaro. Qualcuno vorrebbe subito attaccare il dolce, le noccioline americane e i biscöcc (quelle castagne che, prima bollite e poi seccate in forno, sono la quint’essenza della castagna), ma ci vuole pazienza. Prima c’è da sorbire almeno una mestolata di brodo in cui galleggiano, eteree e dorate, le palline di pasta reale, minuscoli bigné salati fatti di uova, burro e farina che, una volta formati con la sacca da pasticciere, si cuociono brevemente in forno. Erano molto di moda e venduti già pronti anche in confezioni di cellophane giallo. Venivano considerati un tocco di “eleganza” e leggerezza. A ben cercarla la pasta reale si trova ancora oggi. Torniamo al pranzo. Non si può neppure saltare il bollito misto, non trionfale ma assolutamente decoroso, con il muscolo, la scaramella, il brut e bon, la testina e un pezzo di cappone, visto che l’altra metà si mangerà il giorno successivo, Santo Stefano, in gelatina. Qualcuno ha portato la Mostarda di Cremona, la vendono sciolta i negozi di Bertana e di Rissone, in corso Alfieri, ed è un tripudio di forme e di colori, dal rosso vivo della ciliegia al giallo dell’albicocca, dal verde della pera all’arancio del mandarino: dolce e piccante, con quel forte aroma di senape che fa pizzicare il naso. E un assaggio di formaggio non ce lo vogliamo mettere? Non capita tutti i giorni di avere a disposizione una candida e cremosa Robiola di Cocconato che il cuginetto di Montiglio viene sollecitato a celebrare, in piedi sulla sedia: …
«L’è piasosa da merenda
/l’è n’arsorssa a colassion/
tant l’è bona ai pè ‘dna cioenda/
come ‘n taola da padron… Per je stomi ‘d pasta frola/
per le teste descentrà/
fè la cura d’la robiola/
d’la robiòla ‘d Coconà». L’ha imparata a scuola e forse non sa che sono versi di Nino Costa, il nostro poeta dialettale. Persino meglio della classica poesiola natalizia.