Una storia secolare da riscoprire Tutto cominciò da un antico convento
C’è un intero isolato, ad Asti, che da otto anni è un buco grigio nel cuore della città. Quello che fino al 2005 fu l’ospedale civile, una struttura sanitaria con due secoli di storia alle spalle, oggi è un complesso in abbandono, saccheggiato dai ladri di rame, o visitato da qualche senzatetto in cerca di rifugio notturno.
Una sorta di ritorno alle funzioni originarie, visto che proprio per dar rifugio sorsero i primissimi ospedali: gli “hospitia” erano infatti luoghi di accoglienza per pellegrini, malati e derelitti, e Asti ne era dotata fin dal IX secolo. Risale a quell’epoca l’Hospitale Dom Ecclesiae Astensis, edificato accanto alla Cattedrale. Tracce di una struttura ancora più antica sono rimaste negli scritti di Stefano Incisa, che nel suo “Giornale d’Asti” ricorda come nei primi secoli della Chiesa esistesse nel borgo San Quirico – l’attuale zona di via Cavour — l’Hospitale di San Giuliano.
Erano luoghi che offrivano agli ospiti un letto, un piatto di minestra e qualche soldo di elemosina. Chi entrava malato, doveva riporre le sue speranze su una medicina che non era ancora scienza.
E al di là di alcuni rimedi spesso empirici, il resto era affidato alla preghiera. Esisteva già una sorta di mutua che copriva le spese ai ricoverati inseriti in un apposito “elenco dei poveri”. Gli altri dovevano pagare, e le tariffe erano piuttosto elevate, tanto che in molti preferivano farsi curare a casa per dover sostenere soltanto l’onorario del medico.
A metà del Quattrocento, gli ospizi in città erano undici; a quattro di questi il vescovo Filippo Baudone Roero riconobbe l’autonomia, mentre i restanti sette vennero unificati nell’hospitale novum di Santa Marta. Situata nella Contrada Maestra, fu la principale struttura sanitaria di Asti fino alla fine del Settecento, quando aveva ormai assunto il nome di Ospedale dei Poveri Infermi. Oggi una lapide ricorda l’antica istituzione. È posta sopra il portone al civico 220 di corso Alfieri.
Fu nel Settecento che nacque il primo abbozzo di quello che divenne poi l’ospedale di Asti. Nel 1741 una casa attigua alla chiesa di Santa Maria Nuova venne adibita a ricovero per casi sospetti o conclamati di malattie contagiose, come la tubercolosi e la sifilide. Un passo in avanti notevole: non erano passati molti anni da quando i sifilitici venivano considerati dalla Chiesa malati colpevoli, cui imporre penitenze. Spesso però capitava che la sifilide e altre malattie veneree fossero trasmesse dalla soldataglia, colpevole di stupri e aggressioni in tante parti d’Europa.
Accanto all’ospedale di Santa Maria Nuova sorgeva, fin dal 1455, un antico monastero dei Canonici Lateranensi, usato come ospizio per i pellegrini, ma che all’inizio dell’Ottocento era inutilizzato. Nel 1805 il governo francese donò alla municipalità l’ex convento, che accolse l’Ospedale degli Infermi dal 1810.
A quel tempo Asti aveva ormai raggiunto i ventimila abitanti, e l’antico ospizio in Contrada Maestra, l’ospedale degli Esposti e quello della Carità — gli unici mantenuti in vita dai francesi — erano del tutto insufficienti alle necessità della popolazione.
La nuova struttura abbandonata da anni era in condizioni disastrose, ma poteva essere ripulita e ampliata.
L’ingresso del nuovo ospedale era in piazza Santa Maria Nuova; vi erano magazzini, cucine, dispense, un’infermeria e alloggi per il personale. I letti dei degenti erano ospitati in due corridoi, ma i più dovevano accontentarsi di pagliericci sistemati sui pavimenti. Una misura provvisoria, ma che venne mantenuta per molti anni. Al piano superiore trovavano spazio invece la degenza provvisoria, una sorta di pronto soccorso, e l’alloggio del rettore spirituale che era a capo di tutto l’ospedale. Uno tra i primi lavori di ristrutturazione fu l’apertura di una sala operatoria, che per lo più si occupava di intervenire sulle vittime di incidenti sul lavoro, quasi sempre contadini, e sui feriti in risse e aggressioni.
La Restaurazione cancellò ogni traccia napoleonica e non è dato sapere se nei cuori degli astigiani sopravvisse la gratitudine. Come tutte le altre effigi dell’imperatore, venne fatto sparire il quadro apposto nella sala consiliare del municipio che ritraeva Napoleone nell’atto di donare l’ex convento alla città. Erano tornati i Savoia, e con loro personaggi da Ancien Régime a guidare le istituzioni pubbliche.
Nel 1861 aveva duecento letti e 240 pagliericci sistemati sui pavimenti
Ma la medicina si era evoluta e non era possibile tornare indietro. Medici e chirurghi dovevano seguire precisi percorsi di studi, la preparazione era migliorata.
L’ospedale dal 1816 assunse la poco agevole denominazione di “Venerando Ospedale de’ Poveri Infermi Abbandonati eretto nella Città di Asti sotto il titolo di Santa Maria Scala Coeli”. Vennero avviati lavori che portarono a migliorie alle opere murarie, al sistema di riscaldamento, alla rete dell’acqua e delle fognature. Nella prima metà dell’Ottocento l’ospedale fu oggetto di continui ampliamenti, al piano superiore furono realizzati una sala operatoria, nuovi locali adibiti a servizi e infermeria, consentendo così la separazione tra pazienti donne e uomini.
Venne anche costruito un piccolo padiglione destinato ai malati di mente, battezzato con la schiettezza dell’epoca “de’ mentecatti”.
Nel 1861, la struttura poteva contare su 200 letti, ma c’erano ancora 240 pagliericci per i degenti sistemati sul pavimento. Un contributo fondamentale alla qualità dei servizi offerti dall’ospedale venne dalla convenzione firmata nel 1835 con la Casa della Piccola Provvidenza di Torino, che mise a disposizione della struttura astigiana alcune suore di carità, con il compito di badare ai pazienti. Dal 1840 le loro mansioni non si limitarono più all’assistenza di medici e chirurghi, ma iniziarono a occuparsi anche degli approvvigionamenti, della cucina, della somministrazione del vitto, della pulizia dei malati, e anche della disciplina degli infermieri e del personale. Medici, infermieri e pazienti le chiamavano soeur (sorella in francese) e furono una presenza instancabile e di riconosciuto ruolo tra le corsie fino al 1976, quando la convenzione con l’ordine religioso non venne più rinnovata, anche per la mancanza di giovani suore.
Durante la Grande Guerra arrivarono i soldati colpiti dai gas
Ma cosa ci si curava all’Ospedale degli Infermi? Fino a tutto il Settecento, la medicina rimase un’arte empirica, con praticoni che facevano quello che potevano, come bollire le foglie di salice per preparare i salicilici, analgesici antesignani dell’Aspirina; era l’epoca degli impiastri (i papìn), dei salassi e di altri rimedi tradizionali sopravvissuti in alcuni casi fino ai giorni nostri.
La chirurgia era avanzata soprattutto grazie alle esperienze di guerra. Il periodo di pace, dopo le battaglie napoleoniche, aveva cambiato la tipologia delle malattie presenti in Piemonte. La vaccinazione contro il vaiolo dava i suoi frutti, ma rimasero comunque endemiche forme febbrili come il tifo, di cui ancora negli anni Cinquanta del Novecento si segnalavano focolai, in particolare nei pozzi tra Asti e Portacomaro. Diffusissime anche le polmoniti, la tubercolosi, le gastroenteriti, la pellagra e le malattie da fame. Era un mondo dove la gente soffriva di più, spesso con rassegnazione.
Tra le principali cause di malattia, la scarsa igiene personale e degli ambienti in cui si viveva. Le città iniziarono a diventare più salubri verso la metà dell’Ottocento, con la rete fognaria, il che portò vantaggi alla salute degli astigiani. La mortalità iniziò a diminuire anche tra le classi meno abbienti, ma parallelamente all’industria crescevano anche gli infortuni sul lavoro.
Storici primari e quelle suore caposala
Il regolamento ospedaliero del 1884 introdusse alcuni principi fondamentali: in primo luogo, concedeva ai pazienti non cattolici, in particolare ebrei e valdesi, l’assistenza spirituale di un ministro del proprio culto. Un’altra norma stabiliva che l’ospedale dovesse fornire le cure a tutti i poveri, non più solamente ai “poveri infermi abbandonati”. I malati più abbienti sarebbero stati ricoverati solo se vi fossero stati letti disponibili, e comunque sarebbero stati tenuti al pagamento di una retta giornaliera. Notevole, dal punto di vista amministrativo, il fatto che i bilanci della struttura fossero in attivo: ciò era dovuto a una generosa schiera di benefattori e a un’oculata gestione dell’ente. L’ingresso dell’ospedale venne trasferito in via Botallo nel 1890, e tutto il primo decennio del Novecento fu un periodo di grandi innovazioni: telefoni per comunicare tra i reparti, nuovi macchinari, una sala operatoria realizzata con moderni criteri, un posto permanente di pronto soccorso.
Con la Grande Guerra Asti divenne una “città ospedaliera”, così come previsto da un piano sanitario che aveva tenuto in conto l’apertura di un fronte al confine francese; l’adesione dell’Italia alla Triplice Intesa spostò poi il conflitto sul fronte Est dal Veneto al Trentino, cionondimeno ad Asti vennero dislocati tre ospedali militari oltre a quello degli Infermi, che a sua volta era stato militarizzato. Si aprì anche un presidio oftalmico in via Brofferio, nei locali poi occupati dal maglificio Omedè, per curare agli occhi i soldati colpiti al fronte da gas e schegge.
Nel 1920, a guerra finita, l’ospedale aveva una divisione medica e una chirurgica, per un totale di circa 400 letti.
Il vasto cortile, circondato su tre lati da un porticato, era un giardino con abeti, cespugli di rose e una grande magnolia. Il piano terra continuava a ospitare i locali di servizio: cucine, lavanderia, magazzini e il refettorio delle Suore di carità. Un’intera ala era destinata al ricovero dei malati di tubercolosi. Vi era anche una farmacia, il cui ingresso esterno dava su piazza Santa Maria Nuova. Al primo piano, in cima a un elegante scalone di pietra, si trovavano le sale operatorie.
Il resto del piano era occupato da quattro grandi camerate, due per la medicina e due per la chirurgia; i pagliericci, ormai, erano solo un ricordo del passato, sostituiti da due lunghe file di letti in ferro.
In quegli ambienti le giornate erano scandite dal battere di una campana posta di fianco al portone di ingresso. Questa segnalava le emergenze, l’arrivo dei primari e chiamava il cappellano.
Il periodo tra le due guerre, fino agli Anni Cinquanta, fu caratterizzato dal passaggio di tre medici che con la loro competenza e le loro spiccate personalità diedero una forte impronta alla vita dell’ospedale. Il loro ricordo è ancora vivo grazie ai ritratti tratteggiati nei suoi libri da Aris d’Anelli, primario che a sua volta negli anni Settanta si distinse per aver portato a livelli di eccellenza il reparto di cardiologia, facendo dell’unità coronarica un esempio ammirato da équipe di tutta Europa.
Chiuso da otto anni senza che se ne trovi una destinazione
Mario Fasano venne nominato primario di chirurgia nel 1926, dopo essere stato allievo di Alfonso Tosi. Arrivava dalla direzione di uno degli ospedali militari astigiani, in un asilo presso l’attuale casa di riposo Città di Asti. Fu l’esperienza della chirurgia di guerra a forgiarne l’audacia e la perizia con cui eseguiva gli interventi all’addome, al volto e agli arti che gli valsero una notevole fama. Fu anche presidente della Croce Verde dopo la morte del suo fondatore, il dottor Piccinini. Fasano lasciò poi l’ospedale per raggiunti limiti di età nel 1947, ma anche successivamente continuò a operare nella casa di cura privata “Sbocchi a nord”, in seguito ribattezzata Clinica San Secondo.
Anche Ettore Debenedetti aveva prestato servizio in guerra, come maggiore medico, e vi apprese le tecniche innovative poi introdotte all’ospedale astigiano.
Qui fece aprire il laboratorio di analisi, aiutato dal Conte Cora, imprenditore vinicolo e munifico benefattore. Fu la svolta scientifica dell’ospedale, la cartella clinica iniziò a comprendere l’anamnesi del paziente e diventò un documento ufficiale. Era Debenedetti a curare la biblioteca ospedaliera, nella quale pretendeva ordine e pulizia. Vi erano custoditi anche preziosi tomi del Settecento. I libri finirono poi all’Asl di via Orfanotrofio, nell’ufficio del direttore, mentre oggi parte di quei volumi è all’Archivio di Stato. Di grande rilievo storico il suo diario personale, con vividi ricordi del periodo bellico. Il 1944 viene descritto come un anno di fame e miseria: «Ieri passando per corso Casale tra le tante scritte sui muri viva, abbasso, a morte… ho letto W il prosciutto». Già negli anni Cinquanta, Ettore Debenedetti sosteneva la necessità di una nuova struttura ospedaliera: il nuovo ospedale — suggeriva — dovrà avere una hall d’ingresso come quella degli alberghi e dovrà ospitare la banca, l’edicola, il bar e il negozio di fiori. Lasciò la direzione del reparto medico nel 1956, dopo trent’anni da primario.
A Carlo Currado si deve lo sviluppo della pediatria nell’Astigiano. Entrato in servizio all’ospedale nel 1926, aveva compreso le necessità peculiari dell’infanzia attraverso esperienze professionali all’estero. Fu grazie alla sua tenacia che nel 1948 venne aperto un reparto di pediatria, e prima ancora fu l’ispiratore della “Casa della madre e del fanciullo”, edificata nel 1940 in via Duca d’Aosta. Sul territorio provinciale fece aprire decine di consultori pediatrici, e ancora molti anni dopo il suo ritiro, nel 1971, amava conversare della medicina del futuro. Quello caratterizzato dalle figure di Fasano, Debenedetti e Currado fu un ciclo storico.
Da un tipo di gestione autonoma che per molti versi si potrebbe definire familiare, si passò all’epoca politico-manageriale e alla sua evoluzione attuale, con la direzione dell’ospedale da parte dell’Asl. La struttura fu interessata da numerosi interventi di ristrutturazione durante gli anni Sessanta e Settanta, non tutti con esito felice. Il bel porticato del cortile fu affiancato da strutture prefabbricate che tentavano di ovviare alla cronica carenza di spazi. Problemi che vennero in parte superati con il completamento del nuovo palazzo a sei piani su viale alla Vittoria, commissionato nel 1962, che comprendeva anche il pronto soccorso e la maggior parte dei reparti di degenza. L’Ospedale Civile chiuse i battenti negli ultimi mesi del 2005. Il nuovo Cardinal Massaia, costruito al Fontanino, dopo non poche polemiche e vicende anche giudiziarie, era ormai pronto a ricevere i pazienti, in una struttura che sembra ispirata alle profetiche parole del primario Ettore Debenedetti.
Per saperne di più
Il dottor Aris d’Anelli, già primario del reparto di cardiologia dell’Ospedale Civile di Asti ha scritto: Un ospedale, una città (1997) e Astinovecento (2006), entrambi editi come quaderni de Il Platano. Lo ringraziamo per la collaborazione.