Il campanile della chiesetta di Viatosto s’illumina al sole del tramonto. A pochi passi c’è una bella casa con torretta in mattoni e un panorama su uno dei pochi vigneti rimasti con vista su Asti. La città pare adagiata come una coperta tra le colline. Sul prato davanti a casa ci sono una cinquantina di metri quadri pavimentati in porfido. Pare la base per un ballo a palchetto, un posto per cene all’aperto.
«Lo abbiamo voluto Rosalba e io così può anche atterrare l’elicottero del mio amico russo».
Scusi, quel russo? Roustam Tariko il magnate della vodka che dal dicembre 2011 ha acquisito il controllo della “sua” Gancia?
«Sì proprio lui. Viene a trovarmi spesso. Parla benissimo l’italiano. Mi chiede consigli anche gestionali e di mercato. Discutiamo insieme. La Gancia ha un futuro grazie a lui che l’ha salvata da una gestione in perdita: i miei, dopo il mio… accantonamento nel 1996, hanno fatto tanti errori e non si sono neppure accorti che vendevano sottocosto».
Invece ai suoi tempi?
«Quando avevo in mano le redini dell’azienda ho sempre avuto bilanci ottimi, tanto che Cuccia, quello di Mediobanca, un giorno mi chiamò: voleva che prendessi io tutta la Gancia acquisendo le altre quote del resto della famiglia. Lui aveva i capitali pronti a sostenere l’operazione. Gli ho risposto di no, credevo nel valore dell’impresa famigliare. Mi sono sbagliato e per fortuna che ora c’è Tariko e la Gancia con lui, lo ripeto, ha di nuovo un futuro».
Parole pesanti per uno che in azienda ci ha passato una vita e ci era perfino entrato sotto falso nome.
«Mio padre Lamberto era della vecchia scuola. I figli maschi dovevano fare la gavetta. Mio fratello Camillo fu destinato a occuparsi delle attività in Argentina, io venni assunto il primo dicembre del 1957, dopo che mio padre minacciò di diseredarmi se avessi continuato a insistere nel voler fare il chirurgo. Ero uno dei Gancia e dovevo occuparmi della Gancia: allora eravamo una grande famiglia e undici tra cucini e cugine. Il mio primo posto all’ufficio estero. Avevo 25 anni e una laurea in scienze politiche, esami con Bobbio e Alessandro Galante Garrone. Misi da parte gli studi di storia, da Federico II alla Rivoluzione francese, e girai l’Europa e l’America per capire i mercati, studiare le mosse, vedere quello che facevano i concorrenti. Stringemmo accordi di reciproca distribuzione con grandi marchi, dai liquori allo Champagne. Dopo qualche anno passai ad occuparmi di vendite sul mercato italiano. Fu allora che mi cambiai il nome in Vittorio Bianchi, mica potevo chiamarmi Rossi, come il concorrente della Martini».
E che cosa combinò il dottor Vittorio Bianchi?
«Andai con i nostri rappresentanti nei bar e nei ristoranti per toccare con mano come lavoravano e che cosa chiedeva il mercato. Non mancarono le sorprese. Mi venne così l’idea di lanciare uno spumante monovitigno secco».
Gancia in quegli anni era tra i marchi più conosciuti dell’Asti spumante, dolce e aromatico.
«Era un prodotto popolare, mio padre ci credeva molto, lo avevamo praticamente inventato noi, con il bisnonno Carlo Gancia, il fondatore dell’azienda nel 1850. Io mi resi conto che poteva crescere un consumo di bollicine nei bar non più legato alle feste canoniche in famiglia. A metà degli Anni ’60 comperavamo già un po’ di uve pinot nell’Oltrepò pavese e decidemmo di lanciare lo spumante Pinot della Rocca e poi visto il successo, dopo qualche anno nacque il Pinot di Pinot che arrivò in poco tempo a vendere 7 milioni di bottiglie e creò una nuova categoria enologica, molto prima del boom del Prosecco. A Canelli qualcuno pensava che Pinot fosse il diminutivo di Giuseppe».
Lei è stato anche tra i primi industriali italiani a mettere la faccia in televisione per pubblicizzare i propri prodotti, ben prima di Giovanni Rana e di Francesco Amadori.
«Io e i miei due figli Lamberto e Max insieme nella cantine di famiglia: dicevo che avremmo continuato a fare vini e spumanti come già avevano fatto mio nonno e mio padre. Un richiamo alla tradizione piemontese. Mi presero anche in giro, ma quello spot funzionò bene e ci hanno anche copiati».
E nello stesso tempo strizzavate l’occhio ai giovani consumatori con slogan intriganti come “Emozioniamo?”.
«La pubblicità è scienza e arte. Occorrono idee, segno, colore, forma. Quando sono stato presidente della Camera di commercio ho fatto rinnovare il logo della Douja d’or al mio amico Giorgetto Giugiaro. Noi di Gancia nella pubblicità ci credevamo. Abbiamo fatto un museo aziendale a Canelli con manifesti e filmati d’epoca. Eravamo riusciti anche a ingaggiare Alberto Sordi per un Carosello. Diventammo amici. Lui cantava una della sue filastrocche ironiche e alla fine una voce fuori campo invitava a sorseggiare il nostro vermouth Gancia. Venne anche a Canelli un paio di volte».
È vero l’episodio della bottiglia rubata?
«Sordi era un mattacchione e durante una visita al nostro stabilimento si infilò per scherzo una bottiglia in una tasca del cappotto. Il magazziniere lo vide da lontano e mentre noi stavamo uscendo mi avvisò del presunto furto. Finì con una gran risata. E andammo a mangiare la bagna cauda da Camulin a Cossano».
In quegli anni era un frequentatore del bel mondo, anzi ne fu tra i protagonisti.
«Ho conosciuto tanta gente anche dello spettacolo, da Gassman a Walter Chiari. Accompagnai spesso Walter agli spettacoli.
E le attrici?
«So dove vuole andare a parare. Sono un gentiluomo e nomi non ne faccio. Mi ero sposato nel 1958 e avevamo avuto due figli, ma poi ci separammo e io ripresi la mia vita. Avevo molti amici, a Torino frequentavo anche casa Agnelli e la Juve: Umberto era il presidente e conobbi bene anche Boniperti. E poi a Milano, a Cortina, Roma e i porti dall’Elba all’Argentario».
Ha avuto una grande passione per i motori marini passata ai suoi figli con le gare off-shore?
«Avevo fatto progettare una barca straordinaria a 3 motori capace di sviluppare 70 nodi: volava sul pelo dell’acqua a 110 chilometri orari. La battezzai “Pinot di Pinot” tanto per non smettere di fare un po’ di pubblicità al marchio».
E non si fece mancare nulla anche in fatto di automobili
«Mi è sempre piaciuta la velocità. Il massimo fu con una Ferrari Daytona. Facevo da Canelli a Roma in tre ore e un quarto. Si può dire? Tanto ormai la multa non me la fanno più. Roba del secolo scorso».
Già, altri tempi. Una vita vissuta intensamente in un’Italia che cresceva con gli anni del boom e Gancia faceva brindare gli italiani.
«Sono nato nel 1932, ho vissuto da bambino gli anni del fascismo e della guerra. Mio padre fu il primo presidente della Provincia di Asti, nata nel 1935. Ricordo alla Liberazione il capo partigiano Rocca scaricare il mitra nel cielo di Canelli. Lo conoscevo bene, era un nostro dipendente. C’erano forti tensioni sociali e ideologiche, ma anche una gran voglia di ricominciare in tutti i settori. Noi abbiamo fatto la nostra parte, dando lavoro, creando reddito, dentro e fuori la Gancia».
Ha mai pensato di mettersi in politica?
«Ne ho conosciuti tanti di politici, con qualcuno ci ho anche bisticciato. È successo anche con Gianni Goria, con il quale avevo comunque un buon rapporto. Mi è piaciuta la concretezza di Giovanni Borello e ho lavorato bene con lui alla Camera di commercio quando lo sostituii alla presidenza».
C’erano voci di un suo avvicinamento alla Lega.
«Bossi all’inizio mi ha incuriosito. Nulla più, al centro dei pensieri c’è sempre stata l’azienda, non la politica. Sono stato anche presidente dell’ospedale di Canelli, ma non sono riuscito a convincere i politici della Valle Belbo a far nascere un solo moderno ospedale tra Nizza e Canelli, a Calamandrana. Troppi campanilismi. Ho conosciuto anche Grillo quando ancora faceva solo il comico, ma già pontificava e raccontava le sue verità: aveva una grana per una minacciata querela che si era preso dalla Barilla. Lo misi in contatto con Pietro Barilla e la cosa fu risolta».
Sono rimaste famose alcune sue arrabbiature con prese di posizione pubbliche?
«Ho un certo carattere, sono fatto così».
Fece rumore quella negli Anni ’80 contro i trentini, veneti e lombardi di Franciacorta e Oltrepo che tentarono di delimitare la zona di produzione dello spumante classico italiano, escludendo il Piemonte. Lei minacciò la secessione enologica.
«Come risposta misi insieme gli altri marchi d’eccellenza della spumantistica piemontese da Cinzano a Fontanafredda, da Martini a Riccadonna per creare il gruppo “Tradizione spumante” e con la ricerca scientifica del prof. Lorenzo Corino abbiamo dato vita al progetto “Alta Langa” per far produrre noi sulle nostre colline le uve adatte agli spumanti metodo classico. Un successo che constatiamo oggi».
Sono molti i progetti che portano la sua firma e anche gli azzardi. Sui giornali agli inizi degli Anni ’90 finì anche l’acquisto, per poco meno di un miliardo di allora, di due ettari e mezzo di vigne ai Cannubi per far nascere il Barolo Ca’ dei Gancia.
«Quella splendida vigna l’hanno poi rivenduta nel 1998 ai Poderi Einaudi e fu un peccato. Hanno ceduto anche il marchio Mirafiore a Farinetti. Ho creato la Locanda Gancia con il centro congressi a Santo Stefano Belbo. Avevo visto giusto investendo anche in Puglia con l’azienda Rivera e siglando un accordo strategico commerciale con la Rémy Martin. Acqua passata…»
Che cosa prova a pensare alla Gancia senza più un Gancia ai vertici.
«La storia dell’azienda fondata dal mio bisnonno non è finita. Ho nipoti, grandi e piccoli, sono la sesta generazione. C’è Vittorio, figlio di Lamberto, ha 24 anni e non solo perché porta il mio nome gli riconosco un certo piglio. Vedremo. È andato in Cina e sta imparando il cinese. Sono il futuro, noi siamo la memoria e dobbiamo ricordare loro anche gli errori».
Che cosa chiede alla vita, superata la soglia degli ottant’anni.
«Sono credente e spero che la Sacra Rota finalmente annulli il mio primo matrimonio per poter sposare anche in chiesa la signora Rosalba Borello. Ci siamo già sposati in municipio con Paolo Bagnadentro come officiante. Con Rosalba viviamo insieme dal 1996, ha condiviso una parte importante della mia esistenza e anche le più recenti ansie per la mia salute».
Lei che voleva fare il medico…
«A Torino da studente avevo molti amici laureandi in medicina e chirurgia, in particolare Mario Morino, che era della scuola del prof. Dogliotti. Mi faceva entrare in sala operatoria con lui alle Molinette. Ho assistito a migliaia di operazioni di tutti i tipi. Una volta diedi anche un consiglio, che si rilevò corretto, durante un’operazione alla cistifellea. Un bel ricordo.
Tempo fa ha dovuto tornare in sala operatoria, ma da paziente.
«Sì e mi ha operato il figlio del mio amico Mario e questa volta non ho potuto fargli da assistente. Ora le analisi dicono che il peggio è superato. Ho promesso al mio amico Romano Dogliotti che a primavera salgo da lui a Castiglione Tinella, tra le vigne, e ci facciamo una bella mangiata. E poi dobbiamo rinnovare le cariche della nostra associazione».
Quale associazione?
«Quella dei rompicoglioni. Lui è il presidente io il vice, ma ora credo che sia venuto il tempo di assumere la presidenza. Me la merito».
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