Valerio Miroglio, l’arte sorniona della provocazione
In mostra dal 5 maggio a Palazzo Mazzetti
Valerio Miroglio amava sperimentare dalla pittura alla scultura, dal teatro alla poesia, in tutte le arti e proprio per questo raccontarlo non è facile, anzi.
Valerio Miroglio è stata una personalità complessa del panorama artistico nazionale, ma ha vissuto con passione e ironia anche le vicende della sua città dove è sempre vissuto. Da astigiano ha animato giornali, scritto rubriche, partecipato alla vita politica e culturale. Il suo è sempre stato uno sguardo di lato, sorprendente e imprevedibile, in ogni caso mai banale. Miroglio amava sperimentare dalla pittura alla scultura, dal teatro alla poesia. Raccontare Miroglio non è facile. Astigiani lo fa in queste pagine ospitando testimonianze di chi ha avuto la fortuna di incrociare le sue passioni.
La nostra associazione, d’intesa con la Fondazione Palazzo Mazzetti, promuove una riscoperta artistica di Miroglio con una grande mostra che sarà ospitata a Palazzo Mazzetti dal 5 maggio al 9 luglio. “Valerio Miroglio, Il Giudizio Universale” vedrà esposte più di 60 opere, provenienti dalla famiglia e da collezioni private. L’allestimento, curato da Giacomo Goslino, nipote dell’artista e Alessandro Ferraro, ha l’obbiettivo di ripresentare al pubblico “Il Giudizio Universale”, l’operazione più ampia e complessa dell’artista astigiano, concepita negli anni Settanta. “Il Giudizio Universale” è una riflessione pittorica, plastica e fotografica dell’affresco michelangiolesco e vede concentrata in essa la poetica di Miroglio.
Io, la figlia di Valerio Dal mare di Bordighera alla mostra di Parigi
La famiglia di mio padre è originaria di Isola d’Asti, ma i suoi genitori, cioè i miei nonni, dovettero trasferirsi a Cassano Magnago con le rispettive famiglie per motivi di lavoro. Qui terminarono le scuole e si sposarono. Mio zio Pierluigi nacque nel 1927, mio padre nel ’28. Con i bambini, tornarono a Isola d’Asti, dove si trovavano quando scoppiò la guerra. Mio padre a 16 anni è stato un giovanissimo partigiano garibaldino con il nome di Enea, insieme al fratello Pierluigi. Hanno seguito il padre che era Commissario politico in contatto con i comandanti partigiani sulle Langhe.
Anche mia nonna Arcangela era staffetta e portava i messaggi, scritti su pezzi di carta che venivano arrotolati e infilati nella canna della bicicletta. Il nome di mio nonno era Giovanni, ma lo hanno sempre chiamato Cesare, che era il suo nome di battaglia. È morto nel 1944 in seguito a una malattia che non poté essere curata, perché sul Tanaro vi era un posto di blocco dei tedeschi e non fu possibile trasportarlo all’ospedale. Ci fu il funerale, mio padre e suo fratello scesero dalle colline. Nessuno a Isola fece la spia.
Nel tempo ho cercato di parlare con mio padre della guerra partigiana, ma non tornava volentieri sull’argomento. Mi disse che aveva un fucile che si inceppava e che ogni volta rischiava la ghirba. Una volta si trovò nella piazza di un paese, insieme al fratello Pierluigi. I tedeschi sparavano con le mitragliatrici, anche dai tetti delle case. Lui e il fratello salirono di corsa la scalinata della Chiesa per entrare e trovare un rifugio. Sul sagrato e sul portone di legno arrivavano colpi a raffica. Mi disse che fu un vero miracolo essere sopravvissuti, anche se nei miracoli non credeva. Mio padre incontrò mia madre che era molto giovane e si innamorò. Al primo appuntamento mia madre si presentò con un vestito azzurro e i capelli raccolti con un fermaglio. Sposò mia madre a 21 anni, in municipio ad Asti e dopo si permisero un brindisi con i testimoni al bar Ligure. A quel tempo mia madre faceva la sarta e mio padre le disegnò alcuni carta modelli. Chissà, avrebbe potuto diventare stilista.
Ricordi di quando ero piccola. Una volta mio padre venne a trovarmi a Bordighera dove ero in colonia. Avevo sei anni. Si presentò in giacca e cravatta. Andammo a passeggiare sul lungomare. Camminavamo l’una accanto all’altra finché ci sedemmo su una panchina. Si tolse la giacca, guardò il mare a lungo, a me parve molto a lungo e poi mi chiese come vedevo l’orizzonte e io risposi che vedevo una linea diritta. No, mi spiegò, la linea non era diritta, ma curva, perché la terra è rotonda. Quando salì in macchina per tornare ad Asti, abbassò il finestrino e gli sguardi si incrociarono e ho stampato quel momento nella mente. Chi se ne importa se non mi ha offerto il gelato.
Una volta, alla Certosa di Valmanera, la nostra casa, vi erano amici. Ero ancora una bambina e osservavo un manifesto che si trovava sul tavolo del suo studio. Vi campeggiava il nome Mirò che era in mostra a Parigi. Lessi male e dissi ad Adriano Spatola, il suo amico poeta: “Hai visto che mio papà ha esposto i suoi quadri a Parigi?”. Mio padre non intervenne e Adriano rispose: “Sì, sono stato all’inaugurazione”. Per vent’anni abbiamo abitato in alcuni locali dell’Antica Certosa di Valmanera. Non c’erano porte interne se non quella che portava nel suo studio. Era uno spazio con camere disposte su livelli diversi, scale e soppalchi. Fu un luogo di incontri, di atmosfere irripetibili. Mi piaceva entrare nello studio e stazionare per qualche tempo e osservare mio padre seduto davanti a una grande tela appoggiata al cavalletto e, a portata di mano, tubetti di colori acrilici e a olio e pennelli. Dovevo tacere e lo facevo senza farmelo dire. Mancava sempre il colore blu, tanto ne utilizzava.
Ma quale blu? Blu cobalto, blu di Prussia, blu oltremare, blu ciano…? Mi piaceva sentire l’odore che mio padre si portava dietro anche quando usciva. Era l’odore di acqua ragia, colori, tele e legni, insomma era profumo d’artista”.
Pittore, scultore, giornalista, poeta
Valerio Miroglio, pittore, scultore, giornalista, poeta nasce a Cassano Magnago (Varese) il 24 ottobre 1928 da una famiglia originaria di Isola d’Asti, dove tornerà a vivere prima della guerra. A sedici anni entra nelle file partigiane insieme al fratello Pierluigi, seguendo il padre e la madre anch’essi impegnati nella resistenza. A guerra finita nel 1949 sposa Rosa. Nel 1954 nasce Giulietta. A fine della guerra, in quegli anni che definirà “affamati”, frequenta la scuola di partito del Pci e si dedica all’attività giornalistica. Dirige prima il settimanale “Il Lavoro”, poi farà crescere “La voce dell’Astigiano” con il canellese Pierino Testore, Elio Archimede e altri giovani.
Nel 1961 con la fusione della testata con “La Nuova Provincia” passa al settimanale. Per contrasti politici lascia la federazione astigiana del Pci. Negli Anni ’70 frequenta gli ambienti culturali torinesi dirige riviste di cultura, arte, costume come“Plexus”, “Io e lui” di cui è direttore responsabile. Scrive articoli in difesa dei diritti civili che vengono presi di mira dalla censura. È accusato anche di diffusione di stampa “immorale” per aver pubblicato testi erotici di scrittori francesi tra i quali “Emmanuelle”. Collabora alla rivista “Il caffè” diretta da Giovanbattista Vicari. Dall’incontro con i poeti Adriano Spatola e Giulia Niccolai nasce la rivista underground “Tam Tam.”
Intensa anche l’attività artistica. Frequenta negli Anni Cinquanta il circolo culturale e poi la galleria La Giostra di Asti con Eugenio Guglielminetti, Amelia Platone, Carla Masseroni. Lontano dai dettami del cosiddetto realismo socialista, le opere di Miroglio accentuano la chiave ironico-grottesca e coincidono con le esperienze editoriali torinesi. Sperimenta quindi interventi che vanno al di là della semplice offerta visiva di quadri e sculture. Così è il Concerto per Piano Regolatore Generale del Pianeta Terra, happening in cui Miroglio propone una provocatoria “alternativa” al vecchio mondo a forma sferica, pensandolo quadrato. Nel 1975 con altri artisti ottiene il ricovero volontario nell’ospedale psichiatrico di Mombello, stimolando per 10 giorni i malati a dipingere su una tela gigantesca la loro espressività negata. Questo gesto anima dibattiti, sollecitando interventi contro la segregazione manicomiale. Esegue lavori di grandi dimensioni in Italia e all’estero, in cemento a vista, adottando la tecnica del getto di calcestruzzo in forma di polistirolo espanso.
A Velenje in Jugoslavia nel 1977 inaugura un grande monumento dedicato alla lotta partigiana. Ad Asti lo ritroviamo in un monumento dedicato alla studentessa nei giardini della scuola media in corso XXV Aprile, oppure nel grande arazzo che fa da sfondo alla sala conferenze della Cassa di Risparmio in piazza Libertà. Insieme a un gruppo di insegnanti, lavora nelle scuole con laboratori di disegno e pittura. Collabora con il gruppo teatrale del Magopovero. Conosce Corrado Cagli e Ugo Scassa e si avvicina al mondo dell’arazzo.
Intorno al 1980 assume la direzione artistica della Arazzeria Montalbano. Produce bozzetti in tecnica mista e tredici vengono realizzati in arazzo. In questi anni redige il Bollettino della Vittoria, un ironico foglio che spedisce ad amici e sottoscrittori. Per lo scrittore Sebastiano Vassalli è una delle più “interessanti riviste letterarie” di quegli anni. Continua a dedicarsi alla pittura e alla scultura sperimentando sempre nuovi modi espressivi. Il mare e il cosmo sono il leitmotiv delle opere degli ultimi anni che ha esposto in numerose mostre. Collabora anche alle attività editoriali della Morando, gestendo la rivista del gruppo guidato da Giuseppe Nosenzo.
Dal 1986 al 1991 è direttore responsabile e collaboratore del Palinsesto, periodico di informazione della Biblioteca Consorziale Astense, in collaborazione con gli enti culturali astigiani. Dal 1987 al 1991 tiene, sull’edizione astigiana de La Stampa, la rubrica “Parola d’artista” dove riaccende la sua verve polemica su temi che vanno dalla tutela dell’ambiente alle scelte amministrative e culturali. Collabora anche con la Rai con trasmissioni sperimentali radiofoniche nella rubrica Fonosfera e in Audiobox. Valerio Miroglio muore il 16 settembre 1991 a 63 anni.
La parola fine
La parola fine
stanca di stare
all’ultimo posto
decise di mentire
in fondo al romanzo
a pagina mille
annunciò felice
ch’era giunto l’inizio.
Il numero mille
Stanco di contare
Ebbe una crisi
e si suicidò.
Il numero uno
da molto lontano
offeso a morte
si cancellò.
Il numero due
nel vuoto dell’uno
quel giorno stesso
precipitò.
Il numero mille
venne sepolto
in fondo al romanzo.
Sulla sua tomba
qualcuno, mentendo,
ha scritto “principio”.
Valerio Miroglio
Poesia tratta dal volume “Svite di Artisti” edito da Priuli&Verlucca
Ho incontrato per la prima volta Valerio Miroglio a Vinchio. In agosto veniva a incontrare mio padre Davide per parlare con lui di giornalismo, di politica e di arte, le loro passioni. Valerio allora dirigeva con Pierino Testore “La voce dell’Astigiano”, un settimanale, ispirato dal Pci, aggressivo e polemico e insieme divertente e aperto alla cultura nazionale e internazionale.
I corsivi di Miroglio erano fulminanti nella loro carica ironica verso gli avversari o appassionati quando parlava delle lotte operaie e della fabbrica, di cui faceva parte sua moglie Rosetta e il cognato Lorenzo Tarabbio. Valerio e i suoi giovani collaboratori facevano inchieste clamorose, facevano diventare protagonisti gli operai, si occupavano delle campagne. Quei giovani chiamavano Miroglio “il maestro”, perché insegnava il mestiere di giornalista, ma anche il mestiere della cultura e della vita. Li portava con sé nelle osterie e, nel contempo, faceva leggere i libri sulla guerra d’Algeria, il teatro di Brecht e “Per chi suona la campana” di Hemingway sulla guerra di Spagna, che compravano alla Bancarella di Luciano Petruccelli, sotto i portici Pogliani di piazza Alfieri. Era il loro “capo” con cui discutevano e si divertivano.
È stato lui a pubblicare il mio primo articolo su un giornale. Io, cittadina milanese, avevo scritto del mio incanto di luce sulla facciata di San Secondo in un giorno di settembre. Lui aveva fatto il titolo “Avventura d’anima” o qualcosa del genere. Per me è stata un’emozione che ricordo ancora. Miroglio veniva periodicamente a Milano con una vecchia macchina scassata a prendere nell’archivio de “L’Unità” decine di cliché (allora si stampava con le pagine di piombo), che gli servivano per aprire finestre sul mondo nelle pagine del settimanale e, per risparmiare.
Si faceva invitare a pranzo da mia madre Rosetta. Ne apprezzava la cucina e l’accoglienza ed erano anche le situazioni in cui scambiava liberamente le sue idee da comunista “eretico” con mio padre sapendo di essere capito, a volte condiviso nelle sue opinioni. Ed è stato Valerio a farmi conoscere Elio Archimede, il suo giovane collaboratore più promettente, che è poi diventato per molti anni il compagno della mia vita. Valerio era un uomo affascinante e divertente, brusco e sensibile, con uno sguardo inconfondibile che accompagnava la piega ironica del suo labbro leporino.
Per Elio era un modello, anche perché Miroglio aveva fatto giovanissimo il partigiano come il fratello Pierluigi e il padre. Sua madre Arcangela era bellissima a ogni età e aveva il portamento di una regina, pur avendo dovuto affrontare grandi difficoltà con i due ragazzi da crescere dopo la morte del marito. Gigi era diventato geometra, ma Valerio era un irregolare creativo, che si vantava di aver fatto anche il sarto prima di fare politica attiva nel Pci e diventare giornalista. Quell’abilità delle mani l’aveva riversata nei quadri, nelle sculture, anche se non gli davano da vivere.
La sua espressività pittorica non era banale, ma molto influenzata dalle ultime correnti artistiche, che seguiva dalla periferia, ma con intelligenza e intuito. Quando Elio mi chiese di andare a vivere insieme, la mia famiglia pensava che ci saremmo stabiliti a Milano, invece lui mi convinse ad abitare ad Asti. Sapevo che mi sarei catapultata in una comunità di provincia da una città che allora era la capitale della cultura europea, dove andavo al Piccolo Teatro ad assistere agli spettacoli messi in scena da Giorgio Strehler e appassionarmi alla recitazione tragica di Vittorio Gassman, dove partecipavo ai dibattiti della Casa della cultura diretta da Rossana Rossanda, dove frequentavo la facoltà di filosofia con docenti eccellenti che indirizzavano il pensiero nazionale e internazionale. Ma mi sono detta: se ad Asti riesce a vivere un genialoide come Valerio vuol dire che posso trovare anch’io cose interessanti da fare.
I primi anni di vita ad Asti furono difficili per le reazioni di certi ambienti, ma molto ricchi di nuove esperienze per me: imparare a diventare insegnante, conoscere i compagni operai, inventare l’Istituto Nuovi Incontri, tenere le lezioni di marxismo ai giovani iscritti alla Fgci. Le discussioni politiche nella sezione Centro erano egemonizzate da Miroglio e dal suo modo fantasioso di intendere la politica. La sezione Centro all’interno della federazione astigiana del Pci era definita la sezione degli intellettuali, che venivano “tenuti sotto controllo” dal segretario, il compagno Alberto Gallo, antifascista condannato a suo tempo dal Tribunale speciale, chiamato da tutti con il nome da partigiano Spada. Era stalinista per formazione e convinzione. I dibattiti tra Spada da un lato e Miroglio dall’altro rappresentavano due modalità di intendere il partito, i movimenti internazionali, le questioni operaie. Io ero dalla parte di Miroglio e lo sostenevo con le mie argomentazioni filosofiche, che certo non convincevano Spada.
Ma il vecchio combattente era comunque curioso di quegli intellettuali, li rispettava anche se non condivideva il loro approccio alla politica, che per lui era solo o bianco o nero. Già prima che arrivassi ad Asti “La voce dell’Astigiano” si era fusa con “La nuova provincia” diretta da Primo Maioglio, ex partigiano socialista, con un accordo tra la federazione del Pci e il proprietario della testata, l’avvocato socialista Giuseppe Cirio. Miroglio e Archimede entrarono nella redazione. Io collaborai a fare delle pagine culturali su Pavese e su altri argomenti, ma non scrivevo da giornalista e Valerio mi dava consigli di scrittura.
Poi Valerio andò a lavorare fuori Asti e ci incontrammo di nuovo quando aveva casa-studio nella Certosa di Valmanera perché era diventato un pittore e uno scultore conosciuto. I suoi grandi quadri con visioni surrealistiche capaci di “sfondare” la tela, le sue statue con i nuovi materiali di vetroresina erano la proiezione della sua personalità grande eppure contratta dalle sue esperienze di vita. Ho di nuovo lavorato con lui alla redazione del “Palinsesto”, il giornale della biblioteca, anche in questo caso con una modalità innovativa di comporre una rivista culturale con l’apporto di tutti gli enti culturali della città.
Valerio era diventato più posato nei modi e nei pensieri, ma la sua verve ironica era immutata. Mi piaceva scambiare idee con lui e imparare ancora da lui. Quando il cancro lo ha colpito Miroglio ha saputo raccontare in modo asciutto, e quindi ancora più straziante, il suo declino fisico, non certo quello intellettuale. Ciao Maestro.
Nel primo numero del 1991 del Palinsesto Valerio Miroglio annuncia: «Dal prossimo numero del Palinsesto non ne sono più il direttore responsabile. È buona norma, in simili circostanze, salutare cordialmente i lettori che hanno seguito fin qui le nostre fatiche compresi quelli che, spero in minoranza, non vedevano l’ora che mi dedicassi al giardinaggio…». E la redazione scrive: «Valerio Miroglio lascia la direzione del Palinsesto. Ci mancherà la sua professionalità di giornalista, ma ci mancherà soprattutto il suo gusto per le cose belle e ben fatte, il suo gusto per la polemica tenace e ragionevole. Siamo stati molto letti anche per questo che è più che non semplice giornalismo, è passione partigiana per le cose e le idee in cui si crede. Lo ringraziamo per quello che abbiamo imparato lavorando insieme e lo ringraziamo per il lavoro che ha regalato alla Biblioteca e alla città». Valerio Miroglio è stato dal 1986 al 1991, fino a pochi mesi prima di morire, direttore responsabile del periodico Palinsesto pubblicato dalla Biblioteca Astense, la cui redazione era composta dai responsabili di tutti gli enti culturali astigiani (Anita Bogetti, Gemma Boschiero, Carla Forno, Donatella Gnetti, Giovanni Forno, Laurana Lajolo, Salvatore Leto, Carlo Lisa, Vittoria Villani). L’idea di dare vita a un periodico così era stata sua e pure la scelta del titolo. Un’iniziativa che apparve come unica, allora, e unica sarebbe ancora adesso.
Sono stati anni di grandi passioni culturali e umane in città. Ci si trovava tutti intorno a un grande tavolo, con Valerio che dirigeva l’orchestra, per preparare il numero. Affascinante e sornione, Valerio ascoltava, poi faceva il punto e interveniva con la sua capacità, sorniona anche quella, di raccogliere i fili. Ha scritto poco, il direttore, sul giornale, ma quello che ha scritto è ancora oggi, più che mai oggi, un forte appello al valore della cultura e insieme della solidarietà: «Sul sapere e sulla solidarietà che sono alimenti indispensabili della democrazia, prevale sempre più una concezione materiale, egoistica e chiusa della vita pubblica. Cause che riguardano un popolo, un continente, il mondo e cause che, arrivando da lontano, lasciano nelle piccole comunità di provincia segni profondi di degrado».
E poi si arrivava all’impaginazione: di nuovo intorno al grande tavolo, con larghi fogli e lunghe colonne di carta e lui decideva dove e come metterli. Se qualche articolo non ci stava, «Non importa, il tipografo ci penserà».
Una paginetta battuta a macchina, le correzioni a mano su margine, come si usava quando le tipografie erano ancora a piombo. Ecco «Parola d’artista», la rubrica che Valerio Miroglio condusse ogni settimana, dall’ ottobre 1987 al settembre ‘91, sull’edizione astigiana della «Stampa». Arrivava puntuale in redazione, portata a mano dall’autore. Si discuteva di eventuali tagli, del titolo e delle lettere che gli arrivavano: consensi ma soprattutto lamentele stizzite di chi si sentiva colpito dalla sua penna. Valerio metteva in quella rubrica idee e passioni, partendo da fatti concreti: denunciò la mancanza di spazi culturali ad Asti, lo scempio paesaggistico, la stupidità delle burocrazie, le prepotenze dei potenti, il grigiore di certa politica che diventa mercato. Era «Un appuntamento settimanale con l’ironia», scrissi nella presentazione del volume edito nel 1992, sette mesi dopo la sua scomparsa, da un gruppo di amici riunitosi in associazione a lui intitolata. L’ultima “dieci giorni prima della sua morte. Valerio raccontò di un dialogo colto nella sua camera d’ospedale, tra due vecchi ricoverati che parlavano del Tanaro. Accanto a «Parola d’artista» quel volume contiene anche la preziosa collezione del suo «Bollettino della Vittoria», definito da Sebastiano Vassalli, «tra le più interessanti riviste letterarie di quegli anni», nonostante fosse di sole quattro paginette «simile per formato e qualità della carta ai “pianeti della fortuna” dei girovaghi di un tempo». Miroglio giornalista, dissacratore, tagliente, amante del paradosso giocava in quegli anni sui piu tavoli: la rubrica sul quotidiano e la «sua rivista», inviata per lettera ai fedeli abbonati che avevano, volendolo, anche la possibilità di diventare sponsor unico di una tiratura. Aderirono in tanti da Paolo Conte a Felice Andreasi. Valerio era un giocoliere delle parole, giornalista vero, curioso e irriverente. La sua penna è mancata troppo presto alla città e ai suoi lettori.
Sergio Miravalle
L'AUTRICE DELL'ARTICOLO
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