Sua madre raccontava che era scappato di casa a 9 anni. Per andare dove non si sa, nessuno aveva mai avuto tempo di chiederglielo. Aveva lasciato alle spalle le case di Cimolais, il paese delle Dolomiti Friulane in cui era nato il 28 dicembre 1954, e si era incamminato in direzione di Cellino di Sopra. Istinto di sopravvivenza dei bambini, chissà?
Era la notte del 9 ottobre 1963 e alle 22,39 si scatenò il disastro del Vajont: morirono 1917 persone travolte dalla forza dell’acqua che aveva tracimato dall’invaso della grande diga, costruita con negligenza, sotto le pendici del franoso monte Toc. Titta scelse di non dirigersi verso Erto, il paese vicino che fu sconvolto dall’onda e dal fango, e scelse la vita. Spaventato dal trambusto, preferì tornare al più presto a casa, dove non ci fu neanche il tempo per le sgridate, si doveva provvedere ad accogliere e assistere chi aveva perso tutto, affetti e averi.
A Giovanni Battista Clerici, era rimasto il cuore generoso di chi ha spartito sempre ogni cosa con gli altri fin da piccolo e a volte aveva ancora l’ingenuità di quel bimbo di 9 anni. Quando lo scorso 12 dicembre gli amici increduli e addolorati sono passati per l’ultimo saluto, hanno fatto fatica a riconoscerlo. In breve tempo il Grande Male l’aveva consumato e portato via. Null’altro avrebbe potuto piegarlo. Ma Margherita, sua moglie, con amore aveva provveduto: i guanti da montagna, il cappello di lana, la camicia scozzese di flanella e fra le mani la corda per continuare a scalare… Vederlo così, ha bloccato molti di noi. Rimasti attoniti, poi pian piano i ricordi hanno iniziato ad affiorare nella commozione generale. Per noi era il Maestro. Quando lo chiamavamo così, era gongolante. Ma era davvero, a modo suo, un Maestro.
Raccontava di aver imparato a sciare nella sua Cimolais con gli alpini che caricavano i bambini del paese sul cassone del camion e via nel gelo, per tre anche quattro ore di scossoni, fino a Cortina, Sella Nevea, Tarvisio. L’aria gelida si infiltrava dappertutto e, per scaldarsi, l’unica era cantare a squarciagola le canzoni di montagna e quelle malinconiche della prima guerra mondiale. A 14 anni uno zio macellaio l’aveva preso con sé e gli aveva insegnato il mestiere, ma erano gli anni in cui tutti partivano da quelle montagne. Sua sorella Germana si era sposata con un piemontese, un amore nato sulle spiagge di Lignano Sabbiadoro. Abitava ad Asti, dove arrivò anche Titta. Aveva vent’anni. Era il 1974. Prima trasportava bibite in giro con un camion, ma nel giro di pochi mesi fu assunto nel reparto carni del supermercato SMA. Pur sradicato dalle sue montagne al primo inverno cedette al richiamo della neve e subito si fece conoscere per le doti di sciatore. Molti lo ricordano, lunghi capelli al vento e voce allegra e tonante, alla testa di interminabili file di ragazzini che lo seguivano sulle piste di Limone Piemonte.
In quegli anni diventò il teorico della “sciata a secco”, insegnata a una ristretta cerchia di amici astigiani sul suo tappeto di casa (alunna prediletta Gabriella, sua prima moglie), e i risultati furono sorprendenti anche grazie agli incitamenti a suon di racchettate sul sedere che, ridendo, elargiva a tutti. In seguito, insegnò ad alcuni amici i primi rudimenti dell’arrampicata, imbragandoli e agganciandoli ai moschettoni nella cella frigorifera della macelleria, dove a volte li “dimenticava”, mentre nel frattempo serviva i clienti. Nel maggio 1980, sotto la guida dell’amico d’infanzia Pierino Protti, esperto scalatore, si era avvicinato al mondo dell’arrampicata con una salita classica nel Massif des Cerces: il Tour de la Buffère, nella zona di Briançon. Nessuno lo aveva più fermato. In coppia con Tino Cerrato, Beppe Novarese o Gene Novara scalò la mitica Torre Germana e poi un susseguirsi delle più affascinanti e impegnative vie su Cervino, Monte Bianco, Monte Rosa, Massiccio del Gran Paradiso e, durante le ferie, finalmente, si dedicava alle vie Dolomitiche. Dall’arrampicata passò allo sci alpinismo e alle scalate di ghiaccio.
Sono gli anni in cui la scuola di arrampicata e sci alpinismo del CAI di Asti è diretta dalla guida alpina Rio Celso e Titta viene chiamato a collaborare. Sono tantissimi i giovani che in quel periodo si avvicinano alla montagna e tra questi un ragazzino, Severino Scassa, che da subito rivela doti incredibili di scalatore, tanto che gli amici, vedendoli arrampicare insieme, prendono in giro Titta: «L’allievo che fa da primo al maestro!». “Seve”, infatti, a 18 anni si classificherà 9° ai campionati italiani di arrampicata e attualmente è uno dei più forti climber internazionali. Nel frattempo Il Maestro si è messo in proprio e ha aperto una macelleria in
corso Savona. Titta è bravo nel suo mestiere, è in contatto con gli allevatori, va a scegliere personalmente le bestie e propone i tagli giusti. Ci sa fare con la gente. Verso sera, il negozio cambia clientela, diventa un punto di ritrovo per gli amici che vanno a programmare, a raccontare o anche solo ad ascoltare avventure. Sabato sera, chiuso il negozio, si riuniva ai montanari astigiani e insieme raggiungevano Torino. Qui il gruppo aumentava di numero e via, verso le montagne, un boccone e un buon vino rosso in un’osteria (le conoscevano tutte), ed erano pronti ad affrontare qualunque salita che si trattasse della Nord del Ciarforon nel gruppo del Gran Paradiso o del Mont Blanc du Tacul. Ormai al gruppo storico si sono aggiunti Super Gian, Icio, Scatoletta (al secolo Gianni Casavecchia, Maurizio Pregno, Sergio Nicoli) e tanti altri cari amici per cui una salita con Titta è sempre garanzia di divertimento, avventura ed entusiasmo.
Quando il crepaccio ghermì l’amico Germano
L’amore per la montagna ha solo un tentennamento quando, il 19 luglio del 1992, la crepaccia terminale della Tour Ronde nel Massiccio del Bianco intrappola per sempre Germano Schedovez. Titta e Germano avevano iniziato insieme e le foto un po’ sbiadite li mostrano belli (Titta assomiglia a Charles Bronson), giovani e padroni del mondo e così dovevano sentirsi in cima alle montagne. Il 19 luglio Germano andò a soccorrere due alpinisti di una cordata vicina, finiti in un profondo crepaccio. Si calò una prima volta salvando una ragazza, scese una seconda nell’istante in cui arrivò l’elicottero. Forse fu quello. Si staccò una slavina. Il crepaccio si chiuse per sempre. Anche allora gli amici rimasero attoniti. Il dolore fu palpabile. L’insensatezza di quella assenza creava rabbia. Eppure la montagna non si trasformò in nemica. E il gruppo dopo poco tempo rimise le pelli di foca agli sci e ricominciò a salire…
In macchina Titta rintronava gli amici con le canzoni del suo repertorio che andava da Roberto Carlos a Pierangelo Bertoli per passare ai canti degli alpini, tutti interpretati con pathos da tenore. Ma la sua grande specialità è dirigere l’orchestra, quando le cene di montagna inevitabilmente terminano con l’assegnazione, o meglio l’imposizione, dei ruoli e tutti si trovano a imitare chi il violino, chi il sassofono, chi la trombetta, con un Titta inflessibile direttore d’orchestra in un’atmosfera ad alto tasso alcolico. L’alluvione del novembre 1994 colpisce in pieno la macelleria e Titta decide di chiudere l’attività in proprio. Torna a lavorare nel reparto carni di un supermercato fra via Petrarca e via Brovardi. Negli ultimi tempi, con l’avanzare della malattia, aveva scoperto che in montagna emoziona anche semplicemente camminare, e poi al suo fianco, c’era sempre Margherita.