Chissà se nel negozietto di madama Beligambi, tra ceste di cavoli e patate, sedani e indivie, si vendevano in questa stagione sarsèt e pisacàn, lavertìn e barbacuc… Chi era la Beligambi? Una donnina sempre vestita di nero con una gran corona di riccioli bianchi, stando ai ricordi di Gianfranco Monaca che, nel suo volume San Secondo dei mercanti, suppone che il soprannome le derivasse da trascorse avvenenze.
Teneva bottega all’inizio di via Garetti, quasi di fronte al negozio che per decenni si chiamò Alle sette porte. In lei e nella sua mercanzia si materializzava la memoria del mercato delle erbe della vicina piazza Statuto, che cominciò a chiamarsi così a partire dalla delibera del Consiglio comunale del 1898.
Prima, come in molte città del nord Italia, era “Piazza delle erbe”: ampia e suddivisa in zone – ciascuna delle quali era adibita a un particolare tipo di merce – a fare quasi un tutt’uno con la piazza del Santo, anch’essa sede di mercato. Si deve fare uno sforzo di immaginazione e demolire con la mente il palazzone dell’Ina (edificato nel 1939 sul sedime del Canton del Santo, raso al suolo) per aprire la visuale sullo spazio articolato che per molto tempo comprese la Piazza delle erbe vera e propria, adibita al mercato delle ortaglie e del fieno, e a sud, verso via Cavour, un’altra piazza che via via prese denominazioni diverse: piazza dei porci, piazza delle uve e, nell’Ottocento, piazza del Moro, dall’albergo omonimo che vi si trovava.
Non occorre la fantasia, invece, per sgombrare la piazza da altri edifici: non esistono più sia l’isolotto di fabbricati sul lato ovest adibiti a botteghe sia il successivo mercato coperto in stile liberty edificato dal Comune nel 1904 e abbattuto agli inizi degli Anni Quaranta, forse anche per dare “ferro alla Patria” in vista della guerra.
Ma torniamo agli erbaggi, e restringiamo il campo alle erbe spontanee di primavera. Sono tantissime, tant’è vero che nelle nostre campagne si usava dire Tuta r’erba c’ausa a testa r’è bun-a per fé ra mnestra. Ma si sa, le nostre progenitrici cercavano di utilizzare proprio tutto (bellissimo un altro proverbio: Tut ven a taj, fin-a r’ungi da plé r’aj) e più che altro avevano l’esperienza per riconoscere le erbe migliori tra i filari delle vigne, nei campi a riposo, nei prati, persino sul bordo dei fossi.
E se oggi trascuriamo, per esempio, la piantaggine (lenga ’d can), la porcellana, la cicoria selvatica (quella che in stagione eleva dei bei fiori azzurri), la parietaria (s-ciapa pere) o la salvia dei prati (il busom, con le sue estive e vistose infiorescenze viola), tutte commestibili, acquistiamo volentieri i sarsèt (valerianella), i pisacàn (tarassaco), le rusèle (dette anche beledone, dünette, sùrcure: sono le giovani rosette basali del papavero comune) e, più avanti, le punte di ortica o un bel mazzo di germogli di luppolo, i prelibati lavertìn (lüvertìn, livertis, loartis, vertis…). Se li troviamo, ovviamente.
Vale la pena di fare un giro in piazza Catena, anche se meno ricca di banchi rispetto a qualche anno fa, per trovare qualche contadina che ancora li propone. Con alcune erbe – le prime due – faremo un’insalatina, magari mescolandovi qualche foglia di rucola selvatica, fettine di cipollotto novello e spicchi di uova sode, irrinunciabili; le altre erbe necessitano di cottura e sono speciali per una frittata, un risotto oppure, lessate e ripassate nel burro, per un semplice contorno.
L’alternativa, se non troviamo erbe selvatiche al mercato, è di andarle a cercare, magari in compagnia di una nonna che le conosce, prestando attenzione a certe specie meno conosciute ma altrettanto buone da aggiungere alla nostra insalata: la laciüva o laciüa (Lactuga serriola, dalle foglie lanceolate e leggermente dentellate), lo scarseu o lacèt (Sonchus arvensis, grespino: rosetta basale con foglie lievemente pungenti, comunissimo ovunque), il cujèt (detto anche s-ciupèt e sgrüzèt). Appartiene, quest’ultimo, alla famiglia delle Silene di cui spiccheremo l’apice, costituito da foglioline verde brillante; con una buona quantità, avremo un eccellente contorno stufando le cimette in poco olio e un goccio d’acqua.
Se il raccolto di erbe è stato buono e vario, diamo retta al suggerimento dell’avvocato Goria: prepariamo un risotto verde, bagnando il riso con uno spesso brodo ricavato dalla cottura degli erbaggi, tritati, ripassati al burro con porro, aglietto, sedano e qualche erba aromatica. E perché non provare i friciulin?