Primo presidente del Cln provinciale
La foto simbolo che da qualche tempo il Comune di Asti pubblica ogni anno sui manifesti commemorativi della Liberazione ritrae un drappello di uomini che sfilano davanti al Municipio e alla Collegiata di San Secondo il 6 maggio 1945 quando la città vide la parata delle formazioni partigiane.
In testa a loro, distinto e longilineo in abito scuro, c’è Gilberto Barbero, con tutti gli altri componenti del CLN (Comitato di liberazione nazionale) astigiano. Il medico partigiano era stato nominato nel CLN in rappresentanza del partito liberale; con lui ci sono le principali cariche istituzionali astigiane che proprio il CLN in quei giorni aveva designato. È una foto simbolo che in qualche edizione è stampata indicando con i numeri i sei principali personaggi rappresentati. (Vedi scheda).
Ma sarebbe riduttivo limitare il ricordo di Barbero a quella pur rilevante esperienza cui egli stesso, subito dopo la Liberazione, pose termine con le dimissioni. Il presidente del CLN rappresentava all’epoca l’autorità politica di maggior rilievo a livello provinciale, in quanto espressione unitaria di tutti i partiti antifascisti; ma Barbero sosteneva che una volta sconfitta la dittatura fascista non vi fosse più ragione di tenere in vita un organismo consociativo di quel tipo, ritenendo necessario che tra le forze politiche si sviluppasse la naturale dialettica democratica per giungere quanto prima a libere elezioni.
Diventa editore del rinato “Il cittadino” e pubblica le testimonianze della deportata Enrica Jona
La sua cultura liberale non concepiva che nella ritrovata democrazia la doverosa competizione tra i partiti fosse ingabbiata all’interno di un organismo che li comprendeva
tutti. Rinunciò dunque a quel prestigioso incarico per dedicarsi – oltre che alla sua professione di medico di famiglia e specialista delle malattie polmonari – alla ricostruzione in provincia di Asti del Partito liberale, di cui fu l’indiscusso leader per oltre un ventennio.
Nel frattempo aveva rilevato dalla famiglia dei tipografi Paglieri e Raspi la proprietà dello storico bisettimanale Il Cittadino, fondato a metà Ottocento da un gruppo di innovatori astigiani, cui non era estraneo Isacco Artom, stretto collaboratore di Cavour, diplomatico, segretario generale del Ministro degli Esteri, primo senatore ebreo del Regno d’Italia e anche amministratore comunale di Asti.
La figura di Artom – personaggio schivo e operoso – ha sempre destato grande interesse in Barbero, che in qualità di editore riportò “Il Cittadino” all’originaria ispirazione liberaldemocratica dopo il suo inevitabile allineamento al regime fascista; quest’ultimo ne aveva persino cambiato il nome, ribattezzandolo La provincia di Asti e facendolo diventare l’organo ufficiale della federazione del Fascio.
In quegli anni del Dopoguerra “Il Cittadino”, su impulso di Barbero, pubblicò le agghiaccianti testimonianze di Enrica Jona, unica sopravvissuta astigiana ai campi di sterminio nazisti; fu una delle prime testimonianze rese pubbliche in Italia sui lager hitleriani, in un periodo in cui i sopravvissuti cercavano di uscire dall’incubo dei ricordi e chi non era stato coinvolto, o non aveva saputo, bollava spesso quei primi resoconti come esagerazioni.
Ma chi era Gilberto Barbero?
Ai più giovani il suo nome risulterà pressoché sconosciuto, anche se Asti ha voluto tramandarne il ricordo dedicandogli, nel centenario della nascita, un’area verde adiacente a via al Fortino; a maggior ragione pare dunque opportuno ricordarne la figura a 25 anni dalla scomparsa, avvenuta a Torino il 18 novembre 1994.
Nato a Ventimiglia nel 1908 da genitori di San Damiano d’Asti, nel 1946 fu eletto consigliere comunale di Asti per il Partito liberale, ricoprendo successivamente la carica
di assessore nella giunta centrista del sindaco Giovanni Viale (1951-1956) e rimase in Consiglio, sempre rieletto, per ben trent’anni, salvo un periodo a cavallo tra gli Anni Cinquanta e Sessanta in cui fu amministratore della Cassa di Risparmio.

Per oltre trent’anni consigliere comunale per il Partito Liberale
La sua “mission”, come si direbbe oggi, fu quella di applicare all’amministrazione locale i princìpi del liberalismo classico, cavouriano ed einaudiano, secondo cui la pubblica amministrazione deve soprattutto garantire parità di diritti a tutti i cittadini e assicurare
che gli operatori economici rispettino le regole del libero mercato, senza creare monopoli o privilegi; non concepiva che l’ente pubblico potesse farsi, da controllore, a sua volta imprenditore, se non in casi eccezionali e necessariamente di breve durata.
Animato da questi principi, Gilberto Barbero fu uno strenuo oppositore della svolta di centrosinistra attuata nel 1965 dal sindaco democristiano Giovanni Giraudi, nella quale vedeva un pericoloso cedimento verso una spesa pubblica fuori controllo, e non esitò ad assumere in Consiglio comunale posizioni scomode, spesso solitarie.
Sferzanti le sue parole quando – nel 1974 – da solo si oppose alla delibera istitutiva dell’ASP, la municipalizzata dei trasporti e della raccolta rifiuti; Barbero vi scorgeva la volontà della politica non tanto di migliorare i servizi («se fosse quello l’obiettivo basterebbe indire un appalto migliore») ma di allungare le mani sull’economia cittadina e creare “un carrozzone clientelare”, con nessun beneficio per gli astigiani.
Si oppone alla nascita dell’Asp, vota controcorrente sul veto al convegno di Almirante del Msi
In un’altra occasione, sempre nei primi Anni Settanta, fu l’unico consigliere comunale ad esprimere dissenso su un ordine del giorno “antifascista” finalizzato a impedire al leader del Movimento Sociale, Giorgio Almirante, di tenere un convegno all’Hotel Salera.
Lui, di cui ben si poteva dire – come Arturo Carlo Jemolo scrisse di Luigi Einaudi – che «tutto l’offendeva del fascismo», non esitò a prendere la parola tra il rumoreggiare del pubblico per invitare i colleghi a «non fare di Almirante una vittima»; se il MSI è rappresentato in Parlamento – disse in sostanza – che senso ha impedire al suo leader di parlare in un albergo astigiano, per di più a porte chiuse? «Gli farete solo un favore – ammonì – e offrirete a un neofascista l’opportunità di ergersi a difensore della libertà di espressione».
Ad avvicinarlo ai principi liberali negli anni in cui l’Italia si affidava al fascismo, la Germania al nazismo e l’ex impero russo al comunismo, erano state le molte letture di politica e filosofia fatte negli anni del liceo Alfieri. Tra il dogmatismo delle ideologie autoritarie seminatrici di certezze e il metodo del dubbio proprio della scuola liberale scelse quest’ultimo perché – amava ripetere – «nelle imperfette democrazie liberali le teste si contano, nei perfettissimi sistemi dittatoriali, di destra o sinistra che siano, le teste si spaccano».
L’incontro con Luigi Einaudi, il futuro presidente della Repubblica, suo docente alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino, non poté che consolidare le sue convinzioni. Ma che c’entra la facoltà di giurisprudenza se Barbero era medico? C’entra, perché da ragazzo voleva fare il giornalista; in seguito, cancellata dal fascismo la libertà di stampa, si convinse a seguire le orme del fratello maggiore, Corrado, e si iscrisse anch’egli a giurisprudenza.
Ma uno scontro tra fascisti e antifascisti in cui rimase coinvolto ad Asti, e dove trovò la morte una giovane camicia nera, gli aprì, a soli 20 anni, le porte del carcere; vi rimase per un anno, in attesa di giudizio. In città le tensioni studentesche erano molto forti, perciò il regime decise di far tenere il processo a Pavia. Barbero ne uscì completamente scagionato ma con la convinzione di non poter proseguire negli studi giuridici, con quel precedente che gli valse pure il divieto di soggiornare ad Asti.
Si iscrisse allora a medicina, dove riuscì a laurearsi in soli 4 anni (anziché in 6), con 110 e lode e dignità di stampa; a discutere la tesi si presentò in camicia bianca, anziché con quella nera richiesta dal regime.

Da giovane medico trovava clienti tra le “signorine” della case chiuse
Il professor Ceconi, docente universitario e primario di anatomia patologica all’ospedale Molinette di Torino, ne fece il suo delfino. Ma il suo rifiuto di prendere la tessera fascista
lo costringerà presto a lasciare l’ospedale e a riporre nel cassetto le speranze di una carriera universitaria.
Iniziare da zero la libera professione era difficile. Barbero trovò però un’inaspettata sponda in un ambiente particolare: divenne il medico di fiducia di una “prestigiosa” casa di tolleranza torinese. Doveva visitare periodicamente le “signorine” nel quadro della lotta alla prevenzione delle malattie veneree.
Durante la guerra fu ufficiale medico in Africa. Al ritorno cadde finalmente il divieto di risiedere ad Asti, dove tornò quindi a vivere con la madre Anna. Lo legava a lei, oltre al naturale affetto, una gratitudine profonda; Anna Gatto Barbero infatti, rimasta vedova giovanissima di un professore di liceo, per poter mantenere i figli agli studi non esitò a gestire un banco di frutta e verdura in piazza delle Erbe, l’attuale piazza Statuto.
Il giovane Barbero entrò quindi nella Resistenza, aderendo alle formazioni partigiane
autonome con il nome di battaglia di “Benedetto” (in omaggio a Croce), in stretta collaborazione con il colonnello Giovanni Toselli (“Otello”), l’eroe dell’assedio di Cisterna. Tra la fine del 1944 e i primi mesi del 1945, con un ristretto gruppo di amici tra i quali Giovanni «Jean» Adorni ed Enzo Florio, diede vita a “L’Alfiere”, foglio clandestino di ispirazione liberale.
Tornata la democrazia, dopo la già citata parentesi del CLN, durante il referendum monarchia/repubblica del 1946 Barbero si schierò per la monarchia. A spingerlo, più che
la fedeltà a Casa Savoia, fu la convinzione che mantenere un trono di natura laica contrapposto a quello papale fosse garanzia di autonomia dello Stato dalla Chiesa.
Le vicende della Resistenza nel frattempo gli avevano portato un dono prezioso. Un giorno una bella ragazza bruna, Marisa Morando, di una quindicina d’anni più giovane di lui,
accompagnò un’amica che si era ferita aiutando i partigiani.
Gilberto curò l’amica, ma non staccò mai gli occhi da Marisa, felicemente incredulo di rivedere la fanciulla che tempo addietro aveva incontrato su un tram a Torino. Anche Marisa
non rimase insensibile e volle accompagnare l’amica pure ai successivi controlli. L’amica guarì perfettamente, Gilberto e Marisa si sposarono due anni dopo; la loro storia d’amore, allietata dalla nascita di due figli – Corrado, divenuto medico dentista, e Paola, attuale responsabile scuola dell’Unione Industriale di Torino – è durata quanto le loro vite.
Lei amava ricordare di essersi innamorata così intensamente di lui da perdonargli la stravagante abitudine di starsene spesso in disparte alle feste, con un libro tra le mani; lui parlava poco dei sentimenti per lei ma per descriverli ha scritto versi struggenti. Quando lei
se ne è andata, nel 1992, pure lui ha incominciato a spegnersi.
Chi lo ha conosciuto bene ricorda Gilberto Barbero come un uomo intelligente e autoironico, di sconfinata cultura umanistica e scientifica, onesto sotto ogni profilo e generoso al punto
da non chiedere nulla ai pazienti che sapeva in difficoltà economiche.
La sorte gli ha risparmiato l’umiliazione della decadenza senile, pur regalandogli una vita lunga; quella mattina di novembre di 25 anni fa quando i familiari, aprendo la porta del suo studio di Torino, l’hanno trovato riverso a terra privo di respiro, aveva da poco terminato
l’ultima visita a un paziente. Se n’era andato come avrebbe desiderato: attivo sino all’ultimo.
Da allora riposa nel cimitero di San Damiano, accanto






