A chi ha meno di trent’anni sembrerà impossibile, ma ci fu un tempo felice in cui gli uomini, anziché rimbambirsi davanti al televisore, trascorrevano il tempo libero al bar o al circolo aziendale: si chiacchierava di politica, di sport, di donne, ma soprattutto si giocava a carte, a boccette, a dama, a biliardo, a bocce. Al termine della partita bisognava paghè i fré, ossia pagare il grillo, come si dice in italiano, quella sorta di “affitto” dovuto al gestore del locale per l’uso del biliardo o del mazzo di carte. Solitamente, visto che il gioco aveva quasi sempre una posta, l’onere del pagamento toccava al vincitore. E l’espressione era talmente radicata e consueta che quando una comitiva di amici indugiava a prendere una decisione su come passare la serata c’era sempre il più saggio della compagnia che ammoniva:«Forsa fieuj, che i frè curu!» (forza ragazzi, che le spese corrono!), la stessa frase che si sentiva dire quando qualche giocatore perdeva tempo e veniva richiamato, visto che si era “sulle spese”. Mi ha sempre incuriosito questo modo di dire profondamente astigiano e non sono mai riuscito a spiegarmelo, visto che nel nostro dialetto frè equivale a fabbro e quindi paghè i frè significherebbe alla lettera pagare i fabbri. Che cosa c’entra? Ho indagato e dedotto che il termine frè è stato acquisito dal francese frais, che si legge appunto frè. Deriva con ogni probabilità dal verbo latino frango, frangis, fregi, fractum, frangere (rompere); rottura, quindi danno e quindi una conseguente spesa. I francesi hanno conservato l’ultima interpretazione trasmettendola agli astigiani che per secoli l’hanno mantenuta. Il vocabolo, o meglio il modo di dire adattato, è stato acquisito probabilmente nel periodo di dominazione degli Orleans o forse risale all’arrivo dei Savoia (di lingua francese) o ancora venne in uso durante la successiva occupazione napoleonica. Un mistero storico che i nostri “fabbri” non si preoccupano di risolvere.

Quando all’osteria dopo il gioco si pagavano “i fabbri”
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