Asti e il cinema. Un legame intenso cresciuto fin dagli albori della settima arte con figure come quella di Giovanni Pastrone che fu tra i pionieri della cinematografia italiana. A cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento era Torino la capitale della cinematografia italiana, in diretto collegamento con Parigi. Studi di ripresa e società di produzione sorsero in pochi anni sotto la Mole. Il primo kolossal del cinema italiano fu Cabiria nel 1914, firmato da Pastrone come regista, con sceneggiatura e didascalie – allora il cinema era ancora muto – scritte da Gabriele d’Annunzio.
Ma mentre la figura di Giovanni Pastrone (Asti, 13 settembre 1883-Torino, 27 giugno 1959) ha attirato l’interesse di studiosi e biografi, ci sono altri astigiani legati al mondo del cinema del Novecento che paiono più in ombra e meritano una riscoperta. Parliamo dei fratelli Luigi e Nino Pavese, attori e doppiatori, la cui storia professionale vale la pena di essere raccontata. Luigi Pavese è nato ad Asti il 25 ottobre 1897 in una casa di via San Pietro in Consavia, proprio dietro il Battistero. L’atto di nascita, ancora custodito nell’archivio storico comunale, indica i genitori nel ragionier Paolo, alle dipendenze del Comune di Asti, e in Pavese Enrichetta Gabriella, lontana cugina del marito. Il fratello Giovanni, detto Nino, nascerà sette anni dopo, il 10 aprile 1904. Sono una famiglia piccolo borghese e la passione del padre per il teatro e il mondo dello spettacolo segnerà anche il destino dei figli. Vedremo come. Luigi è un volto e, soprattutto, una voce inconfondibile, visto e sentito in numerosissime pellicole (170 film), che vanno dalla fine degli anni Trenta alla metà degli Anni Sessanta. È stato un grande caratterista e la spalla di attori famosi come Totò che lo volle in decine di film accanto a lui nel ruolo di “cattivo”.
Come accade al figlio di un impiegato comunale di Asti di diventare attore e dopo di lui anche al fratello? Il piccolo Luigi, fin da bambino, è affascinato dal mondo del teatro che aveva avuto modo di conoscere grazie alla passione del padre. L’intera famiglia andava alle rappresentazioni al Teatro Alfieri: opere, drammi, soprattutto commedie. Cresce e sogna il palcoscenico. Legge riviste, va a salutare gli attori e le attrici nei camerini. È, come si diceva allora, un “giovane di belle speranze”. È ormai giovanotto quando durante una rappresentazione della Compagnia del capocomico Pederzini si presenta e viene ingaggiato come “attor giovine”. Ha 24 anni. Inizia una lunga gavetta sui palcoscenici di tutta Italia. Dal 1922 al 1924 è con altre compagnie minori, poi nel 1925 arriva al Teatro Odaleschi di Roma, allora diretto dallo scrittore Luigi Pirandello. Nel 1926 è con la compagnia di giro Sabbatini-Fontana e l’anno dopo con la Almirante-Manzini; dal 1928 al 1936 lavora con ben sei gruppi teatrali, tra i quali la compagnia di Elsa Merlini.
Luigi Pavese è grande amico di Giuditta Rissone, prima moglie di Vittorio De Sica, che la sposò ad Asti nel 1937, con la quale condivide i natali astigiani. Accoglie l’offerta di aggregarsi alla sua compagnia, la De Sica-Tofano-Rissone, che nel biennio 1935-1936 raccoglie successi in tutta Italia. È una spalla ideale del prim’attore, ha il dono naturale di rispettare i tempi delle battute. Nella stagione 1937-1938 diventa prim’attore egli stesso con la compagnia Borboni-Cimara, con cui compie una lunga tournée anche all’estero e nelle colonie. Tra le sue partecipazioni ricordiamo I padri etruschi (1942) di Pinelli e Casa di bambola (1942) di Ibsen. Durante tutta la seconda guerra mondiale calca la scena in varie riviste musicali come Ritorna Za-Bum (1943) e Cantachiaro (1944). Un momento particolare lo vive a Roma, il giorno dell’attentato di via Rasella, che portò alla strage delle Fosse Ardeatine: è proprio Luigi Pavese durante lo spettacolo Sai che ti dico? a uscire sul proscenio e, rivolgendosi al pubblico in sala, ad avvertirlo del pericolo di rastrellamento da parte dei tedeschi, esortando a mantenere la calma e facendolo uscire dalla porticina secondaria del Teatro Quattro Fontane.
Passata la guerra è accanto a Rascel nella commedia musicale Tobia la candida spia (1954). Ma la popolarità la ottiene come caratterista nel cinema. Sul grande schermo era già apparso fin dai tempi del muto, in due film diretti da Roberto Roberti, La peccatrice e La vampa, ma l’attività vera e propria da attore cinematografico comincia nel 1935. Attore duttile, trasformista ed eclettico, impersona spesso una serie di divertenti figure autoritarie di militari, avvocati, notai, medici, commendatori, capufficio, ma anche di mariti traditi e gabbati, in una impressionante quantità di film brillanti accanto a comici come Totò, con cui recitò in una ventina delle 97 pellicole girate dal grande comico, Walter Chiari, Carlo Dapporto, Aldo Fabrizi, Rascel e Alberto Sordi.
Il burbero Pavese si lascia conquistare da Totò al femminile
Assolutamente da ricordare e da rivedere il duetto con il grande Totò nel film Totò truffa: la scena memorabile e famosissima dove Pavese, interpretando il padrone di casa che vuole riscuotere la pigione arretrata, subisce il “fascino” di Totò en travestì. La sceneggiatura prevede che il comico napoletano, per evitare di pagare l’affitto, cerchi di sedurre il padrone di casa vestendosi da donna in una gag folgorante: «…perché mi guarda così…ha uno sguardo lei…mi spoglia con questo sguardo…spogliatoio». Sul ruolo delle “spalle” di Totò si è detto molto. Occorreva essere vigili, attenti, per impedire che il protagonista rubasse il “tempo”, lo spazio di battuta e confinasse il ruolo di spalla a poco più che a una presenza. Lavorare con Totò diventava, per un attore, un’occasione esaltante, un momento di confronto, quasi una competizione con se stessi per restare al livello del grande comico napoletano. Sarà forse questa la ragione per cui, in decine di film girati da Totò, si sono misurati nel ruolo di spalla cinque tra i migliori interpreti dello spettacolo italiano, da Peppino De Filippo ad Aldo Fabrizi, da Nino Taranto a Vittorio De Sica a Macario, e poi grandi caratteristi come Mario Castellani e Luigi Pavese. Ciascuno di loro ha opposto alla comicità aggressiva di Totò la propria personalità di attore, con risultati diversissimi e doppiamente esilaranti.
Forse ispirata da Pavese la famosa battuta dell’uomo di mondo «Ho fatto tre anni di militare a Cuneo»
Lo stesso Totò racconta il tipo di rapporto che instaurava con le “malcapitate” spalle: «Molte volte il mio partner non ne può più di avermi accanto, non vede l’ora che la scena finisca per andarsi a riposare. Ma io continuo a non dargli pace: gli sto addosso, lo circondo da ogni lato, lo tocco e lo ritocco». Un particolare curioso. Forse si deve all’origine piemontese di Pavese l’ispirazione per la famosa battuta di Totò «Sono un uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a Cuneo». Può darsi che sia stato Pavese, che conosceva Cuneo e la fama dei suoi abitanti, a ispirare l’ironia di chi vuol darsi arie portando un esempio risibile.
Ma Luigi Pavese dimostrò di essere anche un eccellente attore in film seri dove presta la sua maschera duttile ed espressiva a personaggi come Antonio Meucci (1940) e al Sandokan dei film salgariani dei primi anni Quaranta, o in ruoli detestabili come l’untuoso capufficio ne Le miserie del signor Travet di Mario Soldati, insieme a un bravissimo Carlo Campanini, in una delle sue più riuscite caratterizzazioni.
Di temperamento poliedrico, dotato di una voce cavernosa e unica, la userà spesso doppiando caratteristi stranieri di grande fama come Anthony Quinn in Viva Zapata!, Fredrich March in Ore disperate, Frank Morgan, Walter Houston, Akim Tamiroff, Burl Ives ne La gatta sul tetto che scotta. Entra nel mondo televisivo. Appare in sceneggiati come Cime tempestose (1956) e Il romanzo di un maestro (1959), entrambi diretti da Mario Landi, la fiaba Cenerentola (1960) di Sandro De Stefani, La cittadella (1964) di Majano che lo ha già diretto in Jane Eyre (1957), quindi ne Il conte di Montecristo (1966) diretto da Edmo Fenoglio, Il caso Blaireau (1967) di Italo Alfaro. Ha parti e particine in decine di altri sceneggiati televisivi fino a pochi mesi dalla malattia che lo porterà alla morte. L’ultima apparizione in Un cappello pieno di pioggia nel 1969, diretto da Giuseppe Fina. Morirà a Roma il 13 dicembre 1969 a 72 anni.
La carriera parallela di Nino il fratello nato nel 1904
Il fratello di Luigi, Giovanni detto Nino, più giovane di sette anni (è nato ad Asti il 10 aprile del 1904), dopo aver fatto molti e diversi lavori accoglie l’invito del fratello a trasferirsi a Roma e viene ingaggiato come lavorante da una compagnia teatrale. Anche lui dimostra una spiccata vocazione per la recitazione e in pochi anni arriva a calcare le scene, prima con il grande Ermete Zacconi poi, nel 1934, con la compagnia Cimara-Aldani-Melnati, successivamente con la Merlini-Cialente.
Dopo una lunga gavetta arriva l’esordio nel cinema nel 1936, nel film drammatico I due sergenti di Enrico Guazzoni. Viene notato per la presenza fisica e il volto beffardo, che lo resero adatto a interpretare film di genere avventuroso e drammatico, quasi sempre nel ruolo di cattivo. Nino Pavese impersona questi personaggi, spesso sgradevoli, con intensa aderenza al ruolo, come il bieco seduttore in Nozze di sangue (1941) o l’aspro e ignorante villico de L’edera (1950) e ancora il vigliacco “Maltese” ne Il brigante Musolino (1950). Un ruolo di rilievo lo conquista ne Il tiranno di Padova, un film di ambientazione medioevale del 1946, accanto alla bellissima Clara Calamai. Poi ci sono decine di parti minori, comparsate e camei in altri film e sceneggiati. Merita una citazione il ruolo nel film di Walter Ratti Dieci italiani per un tedesco del 1962, che racconta il dramma di via Rasella e delle Fosse Ardeatine, vissuto in prima persona, come si è visto, dal fratello maggiore Luigi. Come il fratello anche Nino lavora in radio e nel doppiaggio, dove presta la sua voce pastosa ad attori come James Cagney ne La furia umana, Steve Cochran ne La banda dei tre stati, Charles Bronson in Vera Cruz, Ralph Richardson ne Il dottor Zivago. Doppia anche Vittorio De Sica ne L’uomo venuto dal Kremlino. Fin dagli albori della televisione è spesso impiegato in opere per il piccolo schermo. Di gran rilievo è la sua presenza in sceneggiati come Papà Grandet (1963) diretto da Brissoni, La donna di cuori (1969) per la regia di Cortese, La paga del sabato (1977) e Disonora il padre (1978), entrambi di Sandro Bolchi, e infine Morte di un seduttore di paese (1978) per la regia di Nanni Fabbri. Appare anche in vari episodi di serie tv. Tra i più famosi, diretto da Landi, Ritorna il tenente Sheridan e L’affare Picpus (1965) per le inchieste del commissario Maigret, con protagonista Gino Cervi.
Numerose anche le opere teatrali trasposte in televisione che Nino Pavese interpreta. È doveroso citare almeno La damigella di Bard, per la regia di Fino, e Dieci poveri negretti per quella di Brissoni, entrambe del 1955, quindi Baci perduti (1956) diretta da Blasi, Fedra (1957) diretta da Corrado Pavolini, Madame Sans-Gêne (1958) di Vaccari, in cui impersona Napoleone, L’innocente (1961) e Il tenente Fritz (1965), dirette entrambe da Enrico Colosimo. Una carriera intensa e duttile che si spegne a Roma il 21 dicembre 1979. Nino muore a 75 anni, a dieci anni dal fratello Luigi.Entrambi andrebbero degnamente ricordati nella loro città natale.