Il fatidico set – carta, penna e calamaio – accompagnò la scrittura degli astigiani (e di tutti) fino alla fine degli anni Cinquanta del Novecento. Era questione piuttosto elaborata, lo scrivere, per gli scolari e non solo (anche i documenti ufficiali e gli atti notarili erano ancora redatti tutti a mano).
I bambini delle prime classi dovevano imparare il gesto dell’attingere inchiostro dalla boccetta di vetro, seguito dal colpetto di pugno per scaricarne l’eccesso e il passaggio del pennino sulla carta assorbente. Si insegnava ai più grandi la bella calligrafia. Nei banchi di scuola, fino a pochissimi anni fa, era ancora evidente questo passato scolastico: un foro nella parte destra in alto dei banchi verdi foderati di fòrmica testimoniava la scomparsa presenza del calamaio: la boccetta in vetro trasparente che racchiudeva con un tappo a vite l’inchiostro di colore nero o blu che ogni mattina il bidello, facendo il giro delle aule, controllava e ricolmava.
La penna era solitamente di legno di colore nero, in pendant con il grembiule per i maschi (quello delle bambine era bianco, con fiocconi blu o rosa e colletto rigido bianco). C’erano però anche penne di altri colori, striate o a tinta unita.
Su tutte si inseriva il pennino. Nelle cartolerie si potevano acquistare le penne e gli altri articoli di cancelleria. C’erano appositi astucci che consentivano di schierare tutto l’occorrente. In pochi giorni di scuola perdevano però il loro ordine originale, perdendo pezzi e coprendosi di macchie. In grandi cassetti si poteva scegliere tra le tante varietà di pennini in metallo, dorati o bruniti. Il pennino, di forme e spessori diversi, aveva una punta incisa in verticale a coda di rondine unita: così le punte di fatto diventavano due e, a seconda della pressione esercitata, potevano comporre tratti diversi.
Con l’usura o l’eccessiva e maldestra pressione, i pennini si potevano accavallare o spuntare e dovevano essere sostituiti. Il loro acquisto era frequente, con cinque lire se ne potevano avere quattro o cinque. La carta assorbente bianca o colorata: serviva per asciugare sia il pennino che le pagine appena impregnate di inchiostro, dando la possibilità al foglio di asciugarsi e quindi di voltar pagina.
La prima fase di cambiamento nello strumento di scrittura anche scolastico si ebbe con il passaggio dal pennino alla penna stilografica che aveva in pancia un serbatoio di inchiostro.
Le penne stilografiche potevano essere alimentate da cartucce di inchiostro oppure tramite uno stantuffo a siringa incorporato, con il quale si attingeva dal calamaio. La più popolare era la Pelikan, piccola e bombata, di colore verde e nero.
A dare una svolta decisiva fu la Bic, introdotta dal barone italo-francese Bich ma precedentemente inventata e brevettata alla fine della guerra in Argentina dall’ungherese László József Bíró (da cui il nome). La penna a biro fu una rivoluzione di praticità all’inizio osteggiata da molti maestri.
Non doveva più essere immersa nell’inchiostro, non macchiava la carta, non sporcava gli indumenti, le mani e neppure i vicini di banco. Ma la sua cannuccia di plastica trasparente, mangiucchiata in punta, divenne subito un’ideale cerbottana per le palline di carta e stimolò vibranti battaglie di classe. Ma questa è un’altra storia.