Il Piacentino
Pubblichiamo ampi stralci di due racconti scritti dal veterinario astigiano Gian Paolo Squassino e pubblicati nel volume “Racconti a sei mani” edito da Spettattore.
Di Gian Paolo Squassino
Ero all’inizio della professione di medico degli animali. Avevo aperto l’ambulatorio da circa sei mesi e, per mia fortuna, potevo già vantare una discreta clientela. A quei tempi (fine Anni ’70) la caccia rappresentava, per noi veterinari, la maggior fonte di guadagni, anche perché la nostra provincia, sia per la conformazione del territorio che per l’abbondanza di selvaggina, era una delle più ambite. Nella stagione venatoria c’era un vero e proprio flusso di cacciatori provenienti da province e regioni vicine che si distribuivano su gran parte del nostro territorio […].
Quel giorno nella sala d’attesa dell’ambulatorio, già di prima mattina, si potevano contare diversi cani da caccia. Venne il turno di un bel bracco tedesco accompagnato da un signore che, senza dubbio, sia per l’aspetto gioviale che per la parlata, doveva essere inconfondibilmente di origine emiliana. Il grosso bracco entrò malvolentieri in sala visita e mi guardò di traverso, proprio come fanno i cani quando non condividono le scelte del proprietario. Con la sua simpatica cadenza quel signore, rigorosamente vestito da cacciatore, mi spiattellò una breve anamnesi dei sintomi di cui soffriva il suo cane, dopodiché lo sollevò di peso e lo sistemò sul tavolo da visita. Durante questa manovra il cane emise un brontolio non proprio rassicurante che, però, passò del tutto inosservato al loquace proprietario il quale, intanto, si era infilato in un monologo sulla politica della caccia in Italia a cui rispondevo a monosillabi. Poi, dopo aver auscultato il cuore e i polmoni del bracco, rivolto al proprietario dissi: «Devo fare un prelievo di sangue – e continuai, alzando leggermente il tono di voce - è buono questo cane?». «Glielo garantisco - esordì allegramente l’uomo - è buonissimo!». Confortato da questa frase, ma non completamente tranquillizzato, preparai la siringa e, con molta circospezione, applicai il laccio emostatico al di sopra del gomito dell’animale. Il grado di attenzione necessario non mi abbandona mai, specialmente quando, per qualche motivo, gli animali che ho di fronte manifestano qualche segno di disagio.
Quella volta la diffidenza che mi aveva consigliato di mantenere ben desta l’attenzione fu provvidenziale: infatti, nel momento in cui afferrai l’arto anteriore del bracco, questo si voltò di scatto e, con mossa fulminea, puntò dritto alla mia mano. Mollai la zampa e retrassi il braccio appena in tempo, evitando la presa delle forti mandibole del grosso cane, che si chiusero con un rumore secco a non più di un centimetro dalle dita della mia mano. Mi voltai verso l’uomo con espressione interrogativa e balbettai: «...mi aveva detto che è buono, accidenti! A momenti mi stacca una mano!».
L’uomo, risentito, mi rispose in dialetto piacentino: «L’gho dit che l`è bon, mica che l’è brav!» (Ho detto che è buono, mica che è bravo!). Lo guardai di stucco, senza capire subito il senso di quella risposta. Subito dopo, però, mi resi conto che per lui il termine “buono” indicava un buon cane da caccia, ottimo sulla pista e nella ferma: che poi fosse anche mordace, non gliene importava proprio nulla!
Salvezza
Di Gian Paolo Squassino
Era una mattina di ottobre […].
La nebbia riempiva la valle sottostante […]. In cima al colle qualche timido raggio di sole riusciva a fatica a farsi strada nella coltre lattiginosa […]. Anche quella mattina i miei cani, ancora assonnati, si avvicinarono lentamente con passo apparentemente affaticato ma, appena pronunciate le fatidiche parole: «Forza, una bella corsetta!», schizzarono galoppando nell’ampio prato antistante. Li osservo sempre con piacere, vedendoli così felici di vivere! Il vecchio, massiccio muraglione del castello […] era lì, come ogni mattina, a racchiudere nei suoi anfratti ricordi di chissà quante avventure passate di dame, cavalieri, nobili e povera gente.
Come al solito anche quella mattina, dopo la consueta corsa, li salutai chiamandoli per nome e come sempre risposero agitando la coda e drizzando le orecchie. La prima tappa, appena uscito dal viale di casa mia, è diventata ormai una consuetudine alla quale non riesco più a rinunciare. Ogni giorno, infatti, prima di intraprendere qualsiasi attività lavorativa, faccio una capatina nel piccolo cimitero del paese […]. Quella mattina tutto si svolgeva come al solito e, risalendo la breve salita della Rimembranza, osservavo le piccole lapidi appoggiate al terreno, memoria perenne di giovani caduti per la Patria nella Grande Guerra. Era giorno di caccia, segnalato dalle voci ululanti dei segugi che giungevano dalla valle sicuramente intenti a inseguire, nella spessa coltre di nebbia, le prede spaventate […]. Non riuscirei più a iniziare una giornata di lavoro senza quei pochi attimi di meditazione nella tomba di famiglia per riassumere, alla presenza di mio padre che lì riposa, il giorno appena trascorso e quello che sta per iniziare. Non avevo mai pensato e creduto che una cappella funeraria, con i suoi abitanti ormai immobili nel tempo, riuscisse a infondere nell’animo di un vivo una tale intensità di sentimenti da renderlo forte e capace di superare le difficoltà quotidiane con serenità e disinvoltura […]. Anche quella mattina stavo raggiungendo la cappella di famiglia sempre accompagnato, in lontananza, dagli ululati e, ogni tanto, dagli spari delle doppiette. Nobile e antica arte la caccia, ormai ridotta a penosa e bistrattata attività sportiva. Ma sarà poi giusto uccidere un altro essere vivente solo per praticare quella che viene oggi definita un’attività sportiva? Quella mattina mi ponevo questa domanda mentre, come sempre, sospingevo un’anta della porta d’ingresso della tomba. Perché uccidere e, soprattutto, perché uccidere per sport? Ripetevo la domanda a me stesso ma anche, inconsciamente, agli abitanti della tomba che mi guardavano immobili dalle fotoceramiche ovali […]. Improvvisamente due occhi mi fissarono con intensità, accompagnati da un ritmico sbattere di palpebre. Avevo le traveggole? Mi tolsi gli occhiali e mi fregai gli occhi per un attimo, non credendo a ciò che avevo appena visto. Guardai nuovamente verso la grossa ciotola che troneggiava al centro del pavimento della tomba, guarnita da grandi foglie e ciclamini rossi e bianchi. Rividi quegli occhi neri, distanti fra loro e al di sopra, semicoperto da un cespo di fiori di ciclamino, un lungo orecchio dritto che si muoveva a intermittenza, ruotando il padiglione in varie direzioni […]. La bella lepre mi fissava e, in quel momento, l’impressione che mi dava non era di paura, ma di rassegnazione. Forse i miei morti, in quel modo, mi avevano risposto offrendo alla povera lepre una via di salvezza all’interno della loro casa silenziosa. Nessuno avrebbe osato entrare e imbracciare il fucile in quel luogo sacro! Intanto, in lontananza, i latrati dei segugi si stavano perdendo fino a scomparire. Guardai ancora la lepre che pareva avere capito tutto e sembrava godere di quell’insperata tregua all’interno del sicuro riparo nel piccolo cimitero di campagna […]. Continuò a fissarmi ruotando i padiglioni verso di me, poi abbassò un orecchio sollevando le zampe anteriori.
lnterpretai quei gesti come un segnale di saluto, richiusi delicatamente l’anta della cappella lasciando un piccolo spiraglio aperto e mi allontanai alla chetichella. Prima di girare l’angolo mi voltai ancora una volta verso l’ingresso della tomba: tutto era immobile, nessuno sapeva della presenza della lepre in quel luogo, solo io e le anime dei defunti.
Una vita salvata!