Felice Appiano, classe 1924, è al suo esordio come narratore. Racconta la gioia e il dolore (Furaha e Muramivu in swahili), dell’Africa dove andò per la prima volta a 60 anni, malato di un mal d’Africa mai guarito. Scrive Domenico Quirico nella bella prefazione: «Ho amato questo libro perché io, al pari del suo autore, in fondo, non amo l’Africa, amo gli africani».
Viaggiatore senza frontiere nell’Africa nera il veterinario astigiano per anni ha servito la causa umanitaria, venendo a contatto con mille personaggi, con tanto dolore e atrocità davanti ai quali ha pianto, e i neri che erano con lui hanno sussurrato stupiti: “Il pleure”. I neri non piangono.
Sono soprattutto i bambini abbandonati che lo sconvolgono, scampati alle guerre e alle stragi, spesso orfani di genitori, accolti dalle comunità delle suore, la più alta misura di dedizione paziente e amorevole, anche alla fine di una giornata lunghissima. «Non ci sono più diavoli all’inferno, sono tutti in Rwanda».
Alla immane tragedia del Rwanda Appiano dedica molte pagine, interessantissime da un punto di vista di conoscenza delle vere dinamiche in atto fra le etnie, degli interessi geopolitici che entrano nelle guerre, e dal punto di vista umano: colonne di profughi che scappano, mostruose stragi, e ancora per il dramma personale: i tanti amici bianchi e neri che hanno trovato in quegli anni fuori controllo la morte in modo violento. Commenta ancora Quirico: «È un mondo in cui l’esistenza è una membrana così sottile da correre, in ogni istante, il rischio di essere spazzata via da guerra fame malattie violenza; e da cui, per questo, bisogna trarre, chi ci è nato e chi vi si avvicina, il maggior numero di memorie». Questo Appiano ha fatto: ha tratto le memorie.