Si dice che Natale è la festa più bella dell’anno. Non per niente fè Natàl e San Stèu, fare Natale e Santo Stefano, si dice quando si è ottenuto più di quello che ci si aspettava. È nen sempi Natàl, non è sempre Natale, spiega tutta l’eccezionalità di questo giorno. L’espressione da Natàl a San Stèu, da Natale a Santo Stefano, indica invece qualcosa che ha avuto scarsa durata. Santo Stefano era detto a festa dij sèni, la festa dei generi. In campagna, quando una ragazza si sposava solitamente andava a vivere nella casa del marito e il Natale lo trascorreva in famiglia, e comunque la tradizione le imponeva di passarlo con i suoceri; il giorno successivo era consuetudine invece andare a pranzo dai suoi genitori, che quindi ospitavano il sèni, il genero. Secondo l’esperienza contadina, se ’s va a messa ’d mesaneucc au s-ciandur d’la lün-a, chi l’ha du vachi na venda ün-a, se si va a messa di mezzanotte (a Natale) al chiaro di luna, chi ha due mucche ne venda una.
Ossia, se a fine dicembre è sereno e non nevica, la prossima sarà un’annata siccitosa che non darà abbastanza foraggio per il bestiame. Natale significa un sacco di cose, ma per i bambini è soprattutto l’occasione di ricevere regali, el Bambìn, ossia quello che ha portato Gesù Bambino. Più si va indietro nel tempo e meno questa consuetudine era diffusa: in molte famiglie fu la generazione degli Anni Cinquanta, che “atterrò” morbida sul boom economico, la prima a fruire di tutte queste attenzioni. Nelle epoche precedenti, soprattutto in campagna, la mattina del 25 dicembre poteva portare due o tre purtigàl arance, uno scartòcc ad berli ’d ràt, un pacchetto di pastiglie di liquirizia (piccole e nere come gli escrementi del topo), o in alternativa di bumbòn, confetti di zucchero, una manciata di bischeucc, castagne arrostite, o di fichi secchi. Il purtigàl, un lusso sulle mense piemontesi fino a sessant’anni fa, deve il suo nome al fatto che questo frutto fu importato dalla Cina nel XIV secolo da marinai portoghesi: in arabo l’arancia si chiama burtuqal, in rumeno portocala e in greco portokali. Però in alcuni testi romani del primo secolo, si parla già dell’arancia, coltivata in Sicilia. Non c’era molta varietà. In compenso il pranzo era un po’ più ricco degli altri giorni e poteva concludersi con una tirà, torta fatta in casa, o con la mela cotta nel pane. Il presepe della mia infanzia era molto più artigianale di quelli attuali, che però non hanno la mùf-a, il muschio autentico, preso nei boschi, e il maciafèr, ossia i pezzi residui del carbone combusto che si andavano a raccogliere nei cortili dove avevano appena pulito una caldaia oppure lungo la ferrovia: serviva per fare le montagne e la grotta in cui, la notte di Natale, si sistemava el Bambìn ant a pàja, il Bambino nella paglia, mentre i tre Re Magi dovevano aspettare per entrare in scena l’Epifania, il 6 gennaio.