Non ho mai conosciuto Giovanni Gotta da Viarigi, ben poco sapevo dell’incrociatore da battaglia della Regia Marina “Giovanni dalle Bande Nere” e ho fatto scena muta quando qualche anno fa Domenico Amerio, un mio paziente, mi chiese se sapevo come mai ad Asti si contassero parecchi arruolati in Marina durante la seconda guerra mondiale. Allora lui si sfilò i tubicini dell’ossigeno, si assestò la cravatta che indossava ogni volta che il suo medico andava a visitarlo a casa e, mentre la moglie alzava gli occhi al cielo scrollando la testa, salì in mansarda e mi portò un fascicolo fatto a ciclostile e mi diede la spiegazione: «Ad Asti ci sono stati tanti marinai nella seconda guerra mondiale perché facevamo tutti i meccanici di precisione da Maina e alla Waya! Serviva gente che sapesse mettere mano agli ingranaggi e alle apparecchiature di una nave o di un sommergibile». Quel fascicoletto di una trentina di pagine formato A4 che Domenico Amerio, una vita passata a vendere e costruire macchine agricole, mi aveva prestato (anzi «imprestato») qualche settimana prima di dargliela vinta a quella insufficienza respiratoria che lo tormentava da vent’anni, quel fascicoletto, dicevo, mi aveva colpito prima nella forma e poi nel contenuto. È un documento intenso che racchiude la vita di un uomo e che vale come una straordinaria eredità. Un ciclostilato sobrio dove Giovanni Gotta, nato a Viarigi il 6 ottobre 1921, emigrato in Argentina, a Buenos Aires, rientrato in Italia il 10 settembre 1931, racconta la sua vita ad Asti, la sua guerra da marinaio sul “Giovanni dalle Bande Nere”, l’affondamento, il ritorno a casa. Sempre con precisi riferimenti, specie nelle note belliche, agli astigiani incontrati, alle loro vicende. In una sorta di premonizione all’arrivo a Genova nel 1931 a bordo del “Conte Verde” Giovanni (“Juancito” in argentino) racconta di aver visto ancorato in porto l’incrociatore “Giovanni dalle Bande Nere”, dove Gotta farà in tempo a essere imbarcato il 14 agosto 1941. In mezzo, tra il 1931 e il 1941, leggiamo della morte del padre già nell’inverno del 1931, della mamma che con una grossa valigia sulle spalle va a fare i mercati in provincia a vendere cotone, lana, foulard e fazzoletti, troviamo la sorella da svegliare-preparare-portare a scuola, gli studi in prima commerciale, le preghiere al tempio degli Evangelisti e, a quattordici anni, i 59 centesimi all’ora che era la paga di “apprendista meccanico” alle Officine Fratelli Maina. Sotto i capannoni della fabbrica Gotta conosce Domenico Amerio. Anche lui finirà arruolato nella Regia Marina, tra i sommergibilisti, con gli inseparabili amici Walter Fontana, meccanico di precisione sull’incrociatore “Trento”, e Giovanni Viarengo, figlio del purtuné di Caret, imbarcato anche lui sul “Giovanni dalle Bande Nere”. Il diario si sviluppa con precisione cronologica. La guerra procede e nel Mediterraneo per la Regia Marina come si dice “marca male”. Già i tre incrociatori gemelli del “Bande Nere” erano stati affondati dagli inglesi (il “Bartolomeo Colleoni” a Capo Spada, l’“Alberico da Barbiano” e l’“Alberto da Giussano” distrutti assieme il 12 dicembre 1941 sempre sulla direttrice Palermo-Tripoli, mentre il “Giovanni dalle Bande Nere” si salva invertendo la rotta). Il 21 marzo 1942 la nave esce in formazione per affrontare un convoglio britannico nella Seconda Battaglia della Sirte, c’è il contatto con il nemico ma il mare grosso impedisce il protrarsi dello scontro e proprio le onde altissime spezzano in due il “Lanciere”, uno dei cacciatorpedinieri di scorta su cui era imbarcato un astigiano: Leandro Barbieri, el fiò del pustin ad Tani. Sarà Gotta a dover descrivere le ultime ore del “Lanciere” al padre postino che lo va a cercare quando ritorna a casa.
Mercoledì 1° aprile 1942, caricata nafta e acqua dolce, il “Bande Nere” esce dal porto di Messina diretto a La Spezia, Giovanni Gotta è nella stiva come fuochista, Giovanni Viarengo è invece in plancia: poche ore di navigazione e due siluri lanciati da un sommergibile inglese spezzano in due l’incrociatore che rapidamente si inabissa. I ruolini della Regia Marina attribuiscono al “Bande Nere” 507 uomini di equipaggio, tra cui 19 ufficiali e 381 dispersi nel naufragio: tra questi c’è purtroppo Giovanni Viarengo, mentre il protagonista della nostra storia nuotando a dorso riesce ad allontanarsi dal risucchio e poi, aggrappato a un remo, («sembrava una nuda strega africana», pare di leggere una strofa di Paolo Conte…) viene tratto in salvo dalla torpediniera “Libra”. Su quella nave si continua a parlare anche astigiano grazie al sotto-capo fuochista Mario Morra da Asti e al marinaio Enrico Rabbione da Vaglierano Stazione e al rientro in porto a Messina c’è un altro astigiano che, sulla torre girevole dei cannoni di prua dell’incrociatore “Trento”, aspetta notizie…Walter Fontana, anche lui meccanico alle Officine Maina, è legatissimo a Giovanni Viarengo e, come racconta Gotta, «il suo compito sul “Trento” era quello imparato in fabbrica: riparare e ricostruire piccole parti di organi meccanici; la sua brandina, il suo tornio, la fresa, la mola a smeriglio e altre piccole attrezzature formavano un tutt’uno tenuto assieme da Walter con ordine e buon gusto». Uno sguardo al “Libra”, un gesto della mano di Gotta e Fontana capisce di avere un grande amico in meno; meno di tre mesi dopo il “Trento” sarà affondato nello Jonio dal sottomarino “Umbra” della Royal Navy. La cronaca di guerra vera e propria finisce così. Gotta racconta il rientro in città, il mesto pellegrinaggio dei parenti dei caduti, il contarsi e ritrovarsi sempre di meno, lo scrivere per ricordare e per non dimenticare. Lasciò copia del suo diario all’amico Amerio che tre anni fa, prima di lasciarci, me lo passò come un testimone di memorie che non dobbiamo lasciare svanire.
Le Schede