Alla fine dell’Ottocento, riflettendo sulla varietà di tradizioni nelle varie aree della penisola, Pellegrino Artusi, il grande gastronomo autore de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, propone una geografia dei grassi alimentari, da cui è assente, ormai, ogni riferimento al calendario liturgico, calendario che aveva dettato precise norme per i giorni di magro e i giorni di grasso: «Ogni popolo – scrive – usa per friggere quell’unto che si produce migliore nel proprio paese. In Toscana si dà la preferenza all’olio, in Lombardia e in Piemonte al burro, nell’Emilia al lardo, in Campania si ama lo strutto».
Parliamo dunque del friggere e, più in generale, dei condimenti del nostro territorio, con l’occhio rivolto, come sempre, alla memoria. Memoria che può ritornare al tempo dell’ultima guerra, quando, a causa del razionamento e del mercato nero, i prezzi conobbero un’impennata, tanto che si arrivò a pagare nel 1943 il pane 8,50 lire al chilo rispetto alle 1,80 lire del 1938; la pasta, che costava 3 lire al chilogrammo, nel 1943 salì a 9 lire. Se prima della guerra un alloggio per 4 persone si poteva acquistare con 70 mila lire, ora un fiasco d’olio ne costava 2 mila.
E il burro e il lardo? Alla borsa nera il primo costava 160 lire al chilo anziché 27, mentre per il lardo si sborsavano 100 lire al chilo contro le 17 del prezzo ufficiale (Dati dell’Unione fascista dei lavoratori all’industria di Vercelli). Chi stava in campagna, dove presso le cascine più ricche si allevava il maiale, riusciva a procurarsi quache pezzo di lardo per condire la polenta o per insaporire una zuppa di ortaggi.
E c’erano famiglie in cui si produceva un poco di burro in casa sbattendo a lungo in una bottiglia – in assenza dell’apposita zangola – la crema di latte affiorata. I fogli stampati dedicati alle massaie del regime in autarchia consigliavano inventiva e surrogati, come la ripresa dell’olio di noci e di nocciole, o come il “trucco” per ottenere un “burro” da grasso di vitello sciolto sul fuoco, addizionato di cipolla, carota, erbe aromatiche e crosta di pane sminuzzati e passati ripetutamente al setaccio.
In quegli anni cadevano nel vuoto, anche per la media borghesia, le dichiarazioni di Chapusot, capo cuoco a Torino nel periodo risorgimentale, che nel volume La vera cucina casalinga, sana, economica e delicata del 1851, dedicava al burro un apposito capitolo scrivendo: “Il burro è talmente importante nella cucina che, in suo difetto, il cuoco non saprebbe dove si dar del capo”.
Di dolci fritti non se ne parlava, neppure a Carnevale. Per far contenti i bambini bastava confezionare, con qualche ritaglio di pasta da pane, il galiciu e la buvata, aggiungendo a mo’ di occhi due chicchi di uva “posata”, quella tenuta in serbo per l’inverno. Se si aveva olio oppure burro, molte erano le pietanze fritte: il merluzzo, le cipolle con il sanguinaccio, le frittate con qualche erbetta di stagione, i friciulin di patate, i batsoà (piedini di maiale impanati), il fritto di alborelle del Tanaro, per chi aveva un pescatore in famiglia. Fino ad arrivare al trionfo del fritto misto, la fricia come dicono in Monferrato, piatto sontuoso che, dicono diversi studiosi, ha una storia diversa rispetto alla rustica frittura contadina che celebrava il giorno dell’uccisione del maiale, se non la condivisione di qualche ingrediente.
«Il Fritto Misto – osserva Gianluigi Bera in Codice della cucina autentica di Asti – è un piatto sontuoso e costoso, di origini piuttosto recenti, che il mondo rurale mutua dalla gastronomia nobile e borghese, adattandolo alle proprie esigenze, ai propri gusti e alla propria territorialità». Deriva di certo dal ricco “servizio di fritture” documentato in testi ottocenteschi, che completava i “servizi” di credenza e di cucina, declinati in lessi, arrosti e, appunto, fritti. Il fritto misto canonico conta una dozzina di varietà di ingredienti e ha, com’è noto, le sue regole: i pezzi vanno fritti separatamente e i grassi di frittura continuamente rinnovati; va servito caldissimo e possibilmente con l’assaggio contemporaneo di tutti pezzi, in modo che non si perda il contrappunto dei sapori.
Con gli anni di magra alimentare ormai alle spalle, frittelle salate e dolci si praticavano con grande soddisfazione. Fra le prime, va ricordata la friciula, ancora oggi protagonista di feste paesane, fra le seconde le castagnole o i friceu. Diversi erano i periodi dell’anno in cui l’odore del fritto – mitigato dal profumo dello zucchero, delle mele o della scorza di limone – si sprigionava su per le scale e nella strada: a maggio con le frittelle di gaggìa, a Carnevale con le bugie e i friceu d’Carlevé.
I Friceu, tipici di Carnevale, sono ovviamente buoni tutto l’anno. Prepariamoli anche per la festa di San Giuseppe, ricorrenza che in altri territori si festeggiata con dolci fritti: pensiamo alle frittelle di riso o Sommommoli di Firenze, alle Zeppole napoletane, agli Sfinci siciliani o ancora, senza andare troppo lontano, ai Farciò della tradizione alessandrina.
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