sabato 27 Luglio, 2024
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Se ci penso

Quell’anno finalmente non avevamo più il fiocco dei piccoli

Memorie di uno scolaro del maestro Ciprotti nel 1969
Quando ci incontriamo tra vecchi compagni finiamo sempre per parlare di lui, per ricordare le sue battute preferite, “fatti i fatti tuoi che campi cent’anni” a chi faceva la spia, “non far ridere i polli” a chi sparava stupidaggini durante le interrogazioni.

Eravamo piccoli ma ci sentivamo grandi, noi della terza B della scuola elementare “Francesco Baracca”, il primo ottobre del 1969. Trenta, tutti maschi, felici di essere finalmente liberi da quegli stupidi grembiuli neri con il colletto bianco inamidato e il fiocco azzurro. E poi avremmo avuto un maestro, un uomo, al posto della maestra della prima e della seconda: brava e dolce, una seconda mamma, ma come potevamo identificarci in lei? Ci serviva un modello, una guida; e quando il maestro Ciprotti entrò in classe, capimmo subito che l’avevamo trovato. 

Adesso che sono passati quasi cinquant’anni e abbiamo l’età che aveva lui quando lo conoscemmo, sembra incredibile quanto sia ancora forte l’impressione che quest’uomo ci ha lasciato restando con noi per un solo anno scolastico: perché si ammalò e riuscì soltanto a iniziare la quarta, poi venne una supplente alla quale non perdonammo mai il fatto di essere lì al posto del maestro. Fummo la sua ultima classe. Quando ci incontriamo tra vecchi compagni finiamo sempre per parlare di lui, per ricordare le sue battute preferite, “fatti i fatti tuoi che campi cent’anni” a chi faceva la spia, “non far ridere i polli” a chi sparava stupidaggini durante le interrogazioni. E a scuola, nel mio lavoro quotidiano di insegnante, continuo a cercare di seguire il suo esempio. Era di statura media ma a noi sembrava un gigante. Aveva un carisma straordinario, e credo che derivasse soprattutto dal suo entusiasmo: si capiva che era felice di essere lì con noi, che non avrebbe voluto essere da nessun’altra parte, che ci considerava importanti e importante era tutto ciò che facevamo insieme.

E poi ci trattava tutti allo stesso modo, Sandro Carcione il primo della classe, tutto perfettino nel banco davanti ad alzare sempre la mano, e Gigi Granini l’indomabile a cui ogni tanto, esasperato, ammollava una sberla (e il padre diceva: il maestro ha ragione). Mica sempre bene però. Era severo. Quando eravamo troppo distratti, ci prendeva il diario e ci metteva la nota, sempre uguale. Condotta: sei. A chi si metteva a piangere recitava: “Chi è causa del suo mal, pianga se stesso”. Ed era esigente. Su un tema che conservo, sotto un bel “5”, c’è scritto: “Puoi fare molto ma molto di più, pelandrone”. Ci esaltavamo a sentire i suoi racconti di guerra, soprattutto di quella volta in cui aveva respinto gli inglesi azionando il lanciafiamme. Li abbiamo arrostiti, diceva, e noi giù a ridere. In realtà non amava affatto la guerra: però amava l’ordine e la disciplina. Per questo ci faceva marciare incolonnati in corridoio e uscire, al suono della campanella, tutti in fila fino al portone. Ed era molto patriottico: l’ultimo tema che ci assegnò, datato 29 ottobre 1970, porta il titolo “Italia, patria mia!” Ci faceva cantare tutti i giorni: Fratelli d’Italia, naturalmente, poi Va pensiero, la Marsigliese e, in meravigliosa contraddizione, Faccetta nera e Bella ciao, forse a suggerire che era ora che gli italiani si decidessero a diventare finalmente un popolo unito.

Poi qualcosa dello Zecchino d’oro, 44 gatti e Il valzer del moscerino, e canzoni di musica leggera come Azzurro e Rose rosse. La mia preferita era Barbera e champagne, di Giorgio Gaber: parlava di un ricco e di un povero che si trovano all’osteria perché sono stati tutti e due piantati dalla fidanzata, e fanno amicizia e bevono insieme, il povero barbera e il ricco champagne. Si capiva però che i ricchi non gli stavano simpatici. Ci aveva letto la storia di Mazzarò, uno che passava la vita pensando solo ad accumulare la “roba” e alla fine diventava pazzo. Una volta, dopo una lezione sulla preistoria, ci aveva assegnato il compito di costruire una palafitta. Io avevo utilizzato una scatola da scarpe, ed era venuta fuori una schifezza tutta storta. Alcuni miei compagni avevano portato delle vere meraviglie, di compensato con tutti i chiodini piantati giusti; però si capiva che non le avevano fatte loro. Lui non aveva detto niente. Vabbè.

La settimana dopo c’è una riunione dei genitori. Mamma va e quando torna a casa sorride e mi dice: sai, c’erano tutte le palafitte in fila e il maestro ha preso la tua, l’ha fatta vedere a tutti e ha detto “questa è quella che mi piace di più”. Perché a lui interessava il protagonismo del bambino, la sua creatività da sviluppare in ogni modo. Era avanti, anticipava la didattica della ricerca-azione, e soprattutto era divertente. Per insegnarci il sistema metrico decimale ci dava per casa il compito di misurare il naso di papà e la lingua della mamma. In scienze ci portava a raccogliere le foglie secche dei diversi alberi per realizzare dei piccoli quaderni di botanica e ci faceva mettere i fagioli nel cotone perché li vedessimo germogliare. Ci faceva disegnare molto e appendeva in fondo alla classe i disegni più belli. 

Benedetto Ciprotti con la moglie e la figlia Saveria

 

E poi c’erano i piccoli vigili, ovvero l’educazione stradale qualche decennio prima che a qualcuno venisse in mente di inserirla tra le attività didattiche: tutti i bambini vestiti con divise improvvisate e muniti di paletta, a imparare come si dirige il traffico. Lunghi mesi di prove in cortile e poi il saggio in via Calosso, davanti all’ingresso della scuola, alla presenza dei genitori. Che erano invitati anche a Natale per la grande festa-spettacolo, una specie di varietà del sabato sera con presentatori, sketch comici e canzoni. Era avanti anche nelle scelte letterarie. Privilegiava testi che contenessero insegnamenti di vita, soprattutto quelli che parlavano del rapporto tra genitori e figli. Classici come Cuore, i racconti mensili dello scrivano fiorentino e del bambino che andava in Sudamerica a cercare la mamma, e la rondine di Pascoli uccisa mentre portava la cena ai suoi rondinini. Ma anche Edgar Lee Masters e l’Antologia di Spoon River (e adesso mi accorgo che l’anno successivo sarebbe uscito Non al denaro, non all’amore né al cielo di Fabrizio De André): le storie di Johnnie Sayre, il bambino che marina la scuola per salire di nascosto sui treni, poi viene travolto dalla locomotiva e soffre soprattutto per il rimorso di aver disobbedito al padre, e quando lui lo perdona muore felice; e di Lois Spears, la madre cieca che aveva “gli occhi sulle punte delle dita”.

E poi Trilussa, che lui “romano de Roma” amava moltissimo: ci leggeva e traduceva ridendo “La statistica”, nella quale il poeta romano diceva al povero: “…da li conti che se fanno / secondo le statistiche d’adesso / risurta che te tocca un pollo all’anno / e se nun entra nelle spese tue / t’entra nella statistica lo stesso / perché c’è un antro che ne magna due”. Ma soprattutto ci insegnava a essere curiosi. Appena poteva ci faceva uscire da scuola e ci portava da qualche parte. Diceva sempre: se vinco alla SISAL compro un pulmino e andiamo tutti i giorni in giro a vedere qualcosa di interessante. Aveva una FIAT 1100 bicolore, azzurra con il tetto bianco: la chiamava Celestina e ne parlava come se fosse una persona. Ci raccontava che tutte le estati andava in Calabria dai suoceri e si fermava ogni volta che vedeva qualcosa che incuriosisse i suoi figli, laghetti, castelli, ruderi. Sosteneva che tutto il mondo è bello e va conosciuto, ma prima di tutto bisogna conoscere l’Italia. Amava profondamente il suo paese.

Il maestro Ciprotti alla esercitazione di educazione stradale con gli alunni “mini vigili” all’uscita della scuola elementare Baracca in corso Pietro Chiesa

 

Vado a trovare Saveria Ciprotti in piazza Catena, dove dirige l’Ufficio Istruzione del Comune di Asti. Mi dice che continuamente, nelle circostanze più impensate, incontra ex alunni di suo padre che le raccontano storie straordinarie e commoventi. Recentemente, dice, all’inaugurazione del cippo dedicato alle Brusaje nel cimitero di Asti, scopro che la nonna della studentessa autrice del bozzetto era stata alunna di papà a Montemarzo. Era una bambina dotata ma il padre, un contadino povero, non aveva i mezzi per farle proseguire gli studi. Allora papà si è offerto di pagare libri e spese: quella bambina ha studiato, è stata in seguito assunta alle Poste e ha cambiato il suo status sociale. Ma la storia più straordinaria è quella di Paolo Fresu, noto pittore astigiano, e di Nino Ghiazza, che vive negli USA e lavora nel cinema disegnando i bozzetti preparatori delle sceneggiature dei film. A scuola, due fenomeni del disegno. Si trovano nella stessa classe e Ciprotti decide di farli partecipare, con un disegno di tema risorgimentale, al concorso nazionale indetto in occasione dei festeggiamenti di Italia ’61.

Da Roma il disegno viene rispedito indietro: la Commissione, con parole aspre, afferma che è impossibile che quel disegno sia opera di bambini. Il maestro si indigna, soprattutto perché viene messa in dubbio la sua onestà: prende i due, li porta a Roma e gli fa rifare il disegno davanti agli occhi sbalorditi dei commissari. Rientrano ad Asti con tutti gli onori e la notizia viene pubblicata da molti giornali. Alla fine Saveria mi rivela che dalla morte di suo padre lei e i suoi familiari hanno sempre trovato fiori sulla tomba senza capire chi fosse a deporli. A un certo punto, ride, mamma si era quasi convinta che papà avesse avuto un’amante. Poi abbiamo scoperto che c’erano gruppi di alunni che ogni tanto si ritrovavano e portavano fiori al loro maestro. Lo fanno ancora oggi.  

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