mercoledì 23 Aprile, 2025
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Viaggi della vita

Quella missione in Somalia per dare acqua ai Bajuni

Una trasferta avventurosa per conto dell’UNICEF

Paolo Crivelli, astigiano, medico ospedaliero, specializzato in malattie infettive e tropicali, volontario in Africa in alternativa al servizio militare dal 1980 all’83 e poi impegnato in varie
missioni per l’UNICEF dal 1985 al 1992, racconta ad “Astigiani” l’avventuroso viaggio nel Sud della Somalia compiuto nel 1987.

 

Con L’UNICEF mi toccava viaggiare molto sia per il mio progetto, sia perché venivo coinvolto in valutazioni di progetti in corso anche in altri Paesi dell’Africa.

Quel viaggio tra i Bajuni è stato avventuroso e straordinario. Era ormai da circa un anno che vivevo al Sud della Somalia nella cittadina di Kismayo in un compound gestito dall’organizzazione tedesca GTZ. Non c’era elettricità se non per un paio d’ore alla sera e al mattino. L’acqua dal rubinetto usciva marrone satura di terriccio e sabbia.

Gli americani anni prima avevano realizzato la distribuzione dell’acqua del Juba, il più grande fiume della Somalia, ma l’impianto senza manutenzione si era deteriorato. Purtroppo in Africa è così: poco si mantiene in funzione regolarmente e in Somalia le cose sono ancora più disastrose.

Il pomeriggio le temperature diventavano proibitive, e solo al mattino presto e verso sera quando giungeva la brezza del mare si poteva respirare e lavorare. La giornata cominciava perciò molto presto verso le sei del mattino e anche prima se si doveva raggiungere la capitale Mogadiscio.

Il mio progetto coinvolgeva quattro regioni del Sud della Somalia tutte abitate da somali, con una minoranza di origine Bantu, i Bajuni: poche migliaia di persone che vivono sulla zona costiera e su isolette poco distanti. Le tartarughe marine qui trovano spiagge ideali alla loro riproduzione e vengono ogni anno a depositare le uova. Le mangrovie rendono unico il paesaggio.

Il mare cambia di colore: dal blu intenso quasi indaco al verde chiaro. Anni prima le Nazioni Unite avevano costruito con i propri tecnici un impianto di desalinizzazione dell’acqua dell’Oceano Indiano. Un progetto sperimentale aveva dato regolarmente acqua potabile per alcuni anni, poi il deterioramento dell’impianto ne aveva ridotto l’efficacia.

Si trattava di valutare lo stato di salute di quell’impianto, vedere i costi e le possibilità di rimetterlo in funzione regolarmente. La missione decisa a Mogadiscio era stata suggerita da noi dell’UNICEF. Un ingegnere idraulico consulente della Banca Mondiale mi raggiunse a Kismayo.

Paolo Crivelli con l’autista Hassan negli anni della missione in Somalia

Hassan era il mio autista. Conosceva un po’ di italiano, e un po’ di meccanica. Aveva i capelli brizzolati che amava colorare di nero intenso per non sembrare più vecchio di quello che era. La Toyota la custodiva con cura.

Ogni mattina era lucida e pronta con olio, gasolio e acqua. Sapeva che la missione nella regione di Badadhe e poi fino alla costa era tosta. Partimmo che era ancora buio con questo ingegnere americano, molto efficiente e determinato. Le prime quattro ore passarono tranquille, poi la pista cominciò a essere meno battuta e piena di insidie tra la boscaglia.

Dopo sei ore ci trovammo in un labirinto infinito. Guadammo fiumiciattoli, ma ci bloccammo davanti a uno stagno. Hassan fermò il fuoristrada, scese e cominciò a camminare dentro l’acqua che nel punto più profondo gli arrivava alle ascelle. Mi disse: «Paolo ce la facciamo, tenetevi saldi».

L’ingegnere era silenzioso e nervoso. La Toyota entrò nello stagno e non ne uscì più fino all’indomani, quando un vecchio camion del posto di polizia di Badadhe venne a tirarla fuori dopo averla agganciata con cavi metallici.

Noi eravamo arrivati a riva nuotando fuori dall’auto attraverso i finestrini. Ci decidemmo a continuare a piedi attraverso la boscaglia. Camminavamo in fila indiana, stanchi, bagnati e preoccupati. La pista di sabbia era piena di impronte di grossi felini. Per Hassan potevano
essere leoni. Si era procurato un robusto bastone e se lo era appoggiato alla spalla, quasi fosse un fucile.

Per fortuna non incontrammo animali feroci sul sentiero: verso sera decidemmo di accendere un grosso falò e raccogliere legna per tenerlo acceso tutta la notte. Hassan proseguì da solo, nonostante l’oscurità. A notte fonda sentimmo da lontano giungere il rumore di un motore diesel di camion. Hassan dopo circa sei ore di marcia nel buio era riuscito a trovare soccorsi.

Crivelli in Africa

Il camion ci trainò con l’auto fino alla costa dove c’era l’impianto di desalinizzazione.. L’indomani in 36 ore di intenso lavoro, sopralluoghi, colloqui con i locali, misurazioni, controlli, il rapporto dettagliato sull’impianto era pronto. Erano elencati i pezzi da sostituire, costi approssimativi e un piano di manutenzione da parte dei tecnici locali.

L’ingegnere pareva tutto sommato soddisfatto Avevo avuto modo di conoscerlo un po’ di più a fondo nelle ore trascorse intorno al fuoco. Aveva compiuto tante missioni in Africa, anche se meno avventurose. Non si era mai accorto che gli africani potevano essere diversi da lui, forse meno efficienti, meno squadrati, meno fortunati, ma con uno spessore umano che lui non aveva purtroppo ancora colto.

Hassan intanto in un garage vicino al mare sperava che togliendo l’acqua dal serbatoio della benzina e dal motore la Toyota potesse ripartire. Ma non fu così. Ci voleva un meccanico, di quelli tosti che non hanno studiato né meccanica né elettronica, ma che sanno capire il guasto, come se le proprie mani fossero sensori: sì pranoterapisti del motore.

In Africa esistono anche questi personaggi. Dovevamo tornare indietro a tutti i costi, l’unica via era l’oceano. Un giovane Bajuni aveva una barchetta con un piccolo motore. Comprammo a caro prezzo due taniche di gasolio, pagammo in anticipo 5000 scellini e al mattino del giorno dopo partimmo.

Alcune donne bajuni con i loro bimbi ci salutarono sorridenti, erano avvolte in kanga smaglianti, le braccia adorne di braccialetti, i piedi dipinti da ghirigori a motivi floreali. Non si coprivano il volto come le donne arabe.

L’oceano era di un blu intenso, ma dopo poche ore di mare cominciò a piovere e l’oceano si faceva sempre più minaccioso. Le mangrovie della costa si vedevano in lontananza. Il giovane bajuni era tranquillo, conosceva la rotta a memoria. La pioggia tropicale durò un
paio d’ore che passammo a svuotare dall’acqua il fondo della barca.

I due ragazzi che ci accompagnavano colsero anche l’occasione per pescare con un robusto spago e un amo nascosto in un tronchetto colorato di giallo e rosso. Fu così che pescarono un grosso tonno e prima di arrivare al porto di Kismayo altri quattro pesci, un lady-fish, una cernia e due altri tonni. Arrivammo al tramonto, fradici per la pioggia che ci aveva inzuppato i vestiti. A casa mia moglie Jennifer era molto preoccupata.

L’amministratore del mio ufficio aveva comunicato via radio a Mogadiscio che eravamo dispersi. Sarebbero iniziate le ricerche con un servizio di elicotteri privato da Nairobi. Erano preoccupati per l’americano.

Hassan andò il giorno dopo a recuperare con un meccanico la Toyota. La missione era conclusa. Jennifer tirò il fiato un’altra volta. Sull’Africa abbondano pregiudizi e immagini stereotipate, a cominciare dalla percezione di un continente omogeneo e immobile, murato nella sua arretratezza e nella conflittualità endemica. Molti non sanno raccontare di un luogo che ha conservato ciò che la maggior parte del mondo ha perduto: lo spazio.

Descrivere panorami selvaggi e interminabili. Raccontare di gente straordinaria, di giovani che rispettano gli anziani, di persone che proteggono i bambini e la cui povertà non è dello spirito.

 

 

 

L'AUTORE DELL'ARTICOLO

Paolo Crivelli
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