sabato 27 Luglio, 2024
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1799

Quando l’Astigiano fu invaso dai Brandalucioni

Bande di fanatici religiosi insanguinarono campagne e città
Erano detti così gli uomini di Branda De’ Lucioni, un soldato austriaco postosi a capo di una banda che imperversò per il Piemonte nel 1799, approfittando della lontananza di Napoleone, impegnato nella campagna di Egitto. Si facevano chiamare massa cristiana e ne facevano parte personaggi ostili all’anticlericalismo francese, preti e veri e propri briganti che razziavano le terre che attraversavano. Dove arrivavano abbattevano l’albero della libertà sostituendolo con la croce, ma poi depredavano anche le chiese e i luoghi sacri. Dopo aver saccheggiato San Damiano, Moncalvo e Tonco, entrarono ad Asti, invasero il Municipio e la Collegiata di San Secondo e pretesero 30.000 lire per lasciare la città. Il racconto di Roberto Sacchetti e le testimonianze dello storico Carlo Botta.

Il comandante Branda dei Lucioni un militare antigiacobino assetato di ricchezze e potere

Brandalucioni alle porte. Questa espressione rimanda a un episodio tanto drammatico quanto poco noto della storia astigiana, avvenuto nel 1799 (meno di due anni dopo la tragica conclusione della Repubblica Astese), quando gli Austriaci, approfittando della lontananza di Napoleone, impegnato nella campagna d’Egitto, rioccuparono i territori sottratti dai Francesi ai Savoia. Anni turbolenti che videro contrapposte fedi politiche, interessi strategici e una diversa visione della società e del ruolo della religione.
Torniamo ai Brandalucioni.

L’accaduto è riportato anche da Roberto Sacchetti nel suo racconto Il forno della marchesa, apparso nel 1878 sulle pagine della Gazzetta Piemontese. Lo scrittore di Montechiaro scrive: «Un pomeriggio, alcune donne che attendevano ad asciugare il bucato nei prati fuori Porta San Pietro, rientrarono fuggendo all’impazzata nel borgo e vi gettarono lo scompiglio col grido: I brandalucioni! I brandalucioni!
Parola piena di terrore allora: significava tutte le nefandità che la rapacità e la ferocia umana ha inventato. Brandalucioni era stato un malfattore ed era legione di malfattori. Quello, falso profeta e ciurmadore vero, l’avevano soppresso i suoi alleati, gli Austriaci, visto che, combattendo per loro, rubava un po’ troppo per sé. La legione rimaneva e ingrossava ogni giorno di contadini inferociti dalla penuria, di preti sanguinari, di venturieri turbolenti.  Li spingeva il fanatismo e la fame; si vantavano rivendicatori della fede e dell’ordine».

Tra la fine di maggio e l’inizio di giugno l’orda entrò in città dal rione di San Pietro (a quanto ci dice Sacchetti il forno del titolo sorgeva, sino a oltre la metà dell’Ottocento, proprio a pochi passi dal Battistero) per spostarsi poi in piazza San Secondo, nel palazzo comunale e nella Collegiata. In precedenza i Brandalucioni avevano già saccheggiato, per rimanere nell’Astigiano, Moncalvo, Tonco e San Damiano.

Lo storico piemontese Carlo Botta che nella sua “Storia d’Italia” dal 1789 al 1814 ricostruisce le vicende dei Brandalucioni esprimendo giudizi critici sulle finalità e i modi della rivolta

 

Chi erano i Brandalucioni, e perché si chiamavano così? Il nome deriva dal loro comandante, Branda dei Lucioni, un militare nato nel 1740, chi dice a Milano, chi in Boemia, che a diciassette anni aveva iniziato la sua carriera nell’esercito austriaco partecipando alla guerra dei Sette Anni. Molti momenti della sua vita non sono del tutto chiari, ma pare certo che lasciò l’esercito nel 1793 per ritornare alle armi durante il periodo di permanenza di Napoleone in Egitto, alla testa di un gruppo di irregolari definito Massa cristiana, fiancheggiando l’esercito regolare del generale Suvorov, che comandava le truppe austriache e a cui il Lucioni era strettamente legato.

Il dialetto li ricorda come “masacristian”

Della Massa cristiana (un termine che è rimasto nell’antico dialetto: masacristian stava a significare una persona particolarmente violenta e prevaricatrice) facevano parte personaggi di diversa estrazione accomunati dall’odio contro i francesi, molti preti avversi all’anticlericalismo napoleonico e veri e proprii briganti che approfittavano della situazione per saccheggiare i territori che Branda dei Lucioni si trovava ad attraversare.
Il primo gesto che compivano in ogni centro abitato in cui sopraggiungevano era quello di abbattere l’albero della libertà, simbolo del passaggio dei francesi, sostituendolo con una croce.

La figura di Branda dei Lucioni è così descritta dallo storico piemontese Carlo Botta nella sua Storia d’Italia dal 1789 al 1814 (ma i giudizi da lui riportati risultano spesso di parte: Botta nel 1799 fu tra i capi del governo filofrancese che Lucioni combatté, e quindi il suo giudizio storico si confonde spesso con quello politico): «Un antico ufficiale in riposo d’Austria, che Branda-Lucioni aveva nome, giudicando che quello fosse tempo da prevalersene, si era fatto capo di villani armati, e già aveva corso sollevando e depredando il Novarese e il Vercellese […]. Le turbe agresti che il seguitavano, erano andate, strada facendo, ingrossandosi; le chiamava masse cristiane. Questo Branda con le sue masse, quando arrivava in una terra, prima cosa, atterrava l’albero della libertà, e piantava in suo luogo una croce: quivi poscia si inginocchiava e stava un pezzo orando. Poi trovava il parroco, e si confessava e comunicava».

Quando i Brandalucioni giunsero nelle terre astigiane, tuttavia, Branda non era più con loro. Pare infondata la diceria che fosse stato messo da parte dagli stessi Austriaci per la sua eccessiva crudeltà; semplicemente, a quanto sembra, era stato reintegrato dal Suvorov nelle file dell’esercito regolare. Ma anche questo contribuì a creare la leggenda di un personaggio diabolico, una vera forza del male.

Sul fascino malefico che Branda seppe esercitare sulla popolazione scrive Botta: «Le matte cose che questo Branda dava a credere alle sue masse sono piuttosto di un altro mondo che di questo; perché diceva che con bastoni e con pali avrebbe preso la cittadella di Torino, ed elle se lo credevano; che avrebbero preso Francia, e se lo credevano; che Gesù Cristo gli compariva, e se lo credevano». Con lui, come detto, non pochi frati e preti. «Due cappuccini aveva per segretarii: preti, curati e frati l’accompagnavano, con forche, picche, pistole e crocifissi. Frati erano d’ogni sorta e d’ogni colore, ed armati in varie strane guise».
È certo tuttavia che se Branda (che morì a Vicenza nel 1803) dovette lasciare la testa della Massa cristiana prima ancora di giungere nell’astigiano, la banda, o meglio le bande, che si rifacevano al suo nome, continuarono nei loro saccheggi, con alla testa personaggi denominati l’Eremita e il Cavaliere.

Gli alberi della libertà innalzati sulle piazze dei paesi all’arrivo dei francesi furono tra i primi simboli abbattuti dai Brandalucioni che erano ferocemente a favore della restaurazione

Formazioni irregolari raccolte sotto il vessillo della “massa cristiana”

Diamo ancora la parola a Sacchetti, che descrive così le reazioni degli astigiani alla notizia del sopraggiungere della banda:
«Passavano cittadini a frotte e s’allontanavano, correndo verso il centro; altri serravano in furia le porte dei fondaci e delle case; il barbiere di rimpetto abbatteva a mazzate l’insegna della repubblica francese innalzata poco prima per ingraziarsi la clientela militare […]. Poi un grande clamore scoppiava in fondo presso la porta della città. Arrivavano trafelati una dozzina di soldati e un sergente, si buttavano entro la vicina caserma della Mussa, si chiudeva il portone; la sentinella rimasta fuori si slanciava dal casotto, picchiava furioso; gli aprivano, i battenti si riaccostavano subito, si dava di dentro il catenaccio».

Poi, poco dopo, una voce: «I brandalucioni in piazza del Santo!». Sono passati, dice qualcuno per strada, «da porta Santa Caterina, da porta San Quirico, dappertutto; sono tre o quattro bande insieme; una l’ha menata giù da Cocconato l’Eremita di Vezzolano, hanno bruciato Piea, saccheggiato le cascine di Vignasone e Montechiaro, ammazzato il Ventiniere di Serravalle; sono diavoli scatenati».

Asti si arrese senza combattere; e ciò in fin dei conti fu un bene, perché il fatto di non trovare opposizione dispose gli invasori a una certa clemenza, e alla città furono risparmiate almeno in parte le atrocità consuete. La Massa cristiana si riversò nel centro della città: «La piazza del Santo era piena stipata dagli uomini dell’Eremita e del Cavaliere; la bordaglia ne riboccava nelle strade vicine. Il palazzo comunale invaso; la chiesa aperta e vuota; accese tutte le candele sull’altar maggiore; l’organo sonava a festa e le campane sonavano a stormo. In mezzo alla piazza rimaneva l’albero della libertà, colla vetta appassita e sfrondata, un po’ ripiegata da banda, come vergognoso della propria inutilità».

L’albero fu subito abbattuto, fu innalzata la croce e i capi dei Brandalucioni, con in testa il Cavaliere, si insediarono in municipio, al posto del sindaco. Alla città chiesero subito trentamila lire, da versarsi entro mezzanotte. Ottenutele, sia pure con un leggero ritardo (ma con una maggiorazione di cinquemila lire), il Cavaliere diede l’ordine di lasciare la città, ma la disciplina non doveva essere il forte dei suoi uomini, che invece fecero razzia nelle case, incendiandole e sgozzando gli abitanti che si opponevano a quella violenza.

Roberto Sacchetti, originario di Montechiaro, nel suo racconto “Il forno della marchesa” pubblicato sulla “Gazzetta piemontese” ricostruisce, con dovizia di particolari, l’arrivo dei Brandalucioni nei paesi dell’Astigiano, la presa della città di Asti e la cruenta conclusione della rivolta

Alla città invasa chiesero trentamila lire di “obolo”

La banda si rivolse poi verso la Collegiata di San Secondo. Ancora Sacchetti: «Si scalavano gli altari, si carpivano i candelieri, si levavano i calici dai tabernacoli, si staccavano i voti dalle colonne, se ne stracciavano le paramente solenni messe fuori per celebrare la festa della Madonna che occorreva quel giorno. Nulla fu rispettato da quei difensori zelanti della fede». Nel mentre era sopraggiunta la notte e andandosene i Brandalucioni lasciarono alle loro spalle un città desolata e devastata.

I piemontesi non poterono dimenticare il passaggio degli uomini di Branda, il cui nome rimase nel vocabolario popolare come sinonimo di malfattore, di demonio capace di suscitare il terrore. Afferma Botta: «Ai tempi che seguirono, e quando i repubblicani tornarono in Piemonte, prevalse fra di loro l’uso, che chi parteggiava o fosse creduto parteggiare per il governo regio, Branda da questo lepido capo si chiamasse».

Ma il rapporto tra la città di Asti e i Brandalucioni non si esaurisce qui. Un mese dopo, mentre i francesi di Napoleone tornavano in auge, una parte della banda cadde in un’imboscata. Ne furono catturati un centinaio, tra cui diversi capi, e poi contadini, preti e frati. Portati ad Asti furono imprigionati al castello, sulla collina sopra le mura, vennero fatti uscire legati a due a due e attraverso tutto il centro della città furono condotti in piazza d’Armi, l’attuale piazza Alfieri. I prigionieri vennero disposti in doppia fila con la fronte rivolta al bastione della fortezza che sorgeva dove ora vi è il palazzo della Provincia e alle loro spalle furono collocati due cannoni, caricati a palle incatenate.

Lasciamo ancora a Sacchetti la conclusione della vicenda: «Un silenzio mortale accompagnò questi lugubri preparativi e s’udiva nella campagna inondata dal sole un pigolio festoso di passeri. Poi l’ufficiale degli artiglieri ordinò il fuoco colle spalle volte ai condannati in atto di spregio: i tamburi del reggimento rullarono…
Il doppio sparo tuonò cupamente: la doppia fila dei condannati fu abbattuta di un colpo, membra divelte saltarono in aria; una nuvola densa velò l’orrendo spettacolo. Quando il fumo diradò, alcuni si erano rialzati. Tre, smarriti, accecati dallo spavento, correvano contro la scorta; due erano legati e si stiracchiavano miseramente, il terzo agitava un sanguinoso moncherino. I soldati spararono; i due primi caddero; l’ultimo, colpito al mento e grondante sangue, continuò a correre e venne a buttarsi sulle baionette dei soldati che lo finirono».
Si concluse così nel sangue una pagina tra le più sanguinose della storia astigiana.

Bibliografia

  • Roberto Sacchetti, Il forno della marchesa.
    • Carlo Botta, Storia d’Italia dal 1789 al 1814.
    • Giuseppe Crosa, Asti tra Sette e Ottocento, Asti,1993, L. Fornaca Editore.
    • Enrico Bassignana, Sapiensa antica (proverbi e modi di dire del Piemonte)
    • Torino, 2012, Priuli & Verlucca Editore.
  • Marco Albera, Oscar Sanguineti, Il maggiore Branda de’ Lucioni e la “Massa Cristiana”.
  • Aspetti e figure dell’insorgenza anti-giacobina e della liberazione del Piemonte nel 1799, Torino, 1999, Libreria Piemontese Editrice.

 

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