Ricordo un viale di tigli che partiva da piazza Vittorio Veneto, arrivava a piazza Lugano, poi iniziava a scendere per l’allora corso Regina Margherita, parallelo alle antiche mura, e proseguiva fino al fondo della discesa dove l’alberata, svoltando a destra, andava a congiungersi con i tigli di corso Torino. Da qui, fiancheggiando la “lèja”, il controviale dove c’erano ancora binari del vecchio tramway per San Damiano, giungeva fino alla fabbrica dei fiammiferi Saffa, all’inizio di corso Ivrea.
La citazione di Guido Piovene suona come un epitaffio per i tigli divelti dalle ruspe
Ho ancora in mente la citazione di Guido Piovene che durante la sua trasmissione alla radio Viaggio in Italia descrisse questo spicchio di Asti così: «Lungo le mura l’estate ha un voluttuoso destino viale dei tigli che porti a Torino» Erano gli Anni Cinquanta e quella frase poetica suonò presto come un epitaffio. Infatti la ruspe dei palazzinari dell’epoca, pubblici e privati, si sarebbero abbattute su quelle stupende piante facendone in gran parte scempio. Si salvarono i cinque o sei alberi che ancora si vedono in piazza Lugano e fu un miracolo dovuto al fatto che lì già c’era la piazza. Per tutte le altre non ci fu alcuna pietà. Con i tigli, per fare spazio a palazzi e palazzine, sparirono anche gran parte del “prà del tenis,” che era ai piedi delle vecchie mura e confinava con il Circolo del Tennis; e “’l prà ’d Macari,” che partiva da metà corso Regina e arrivava a costeggiare la via Duca d’Aosta. Venne sacrificato il campo da bocce di Gondo d’ l’Aurora, una trattoria che ancora esiste. Si risparmiò via Principe Amedeo, ma si sacrificarono gli altri prati adiacenti fino a lambire il terrapieno che divenne poi via Francesco Baracca. In breve tempo la configurazione urbanistica della intera zona mutò radicalmente a causa delle abitazioni fatte crescere lungo quello che alla fine della seconda guerra mondiale era diventato viale Partigiani, la strada che oggi è costeggiata da una doppia siepe con due file di alberelli, inseriti tra due ali di palazzi. Ma prima… anni prima che succedesse tutto questo, il nostro “cors Regin-a”, come lo si chiamava, era una strada dove una tribù di bambini sciamava lungo la discesa per giocare con le cose più semplici: noccioli di pesca, bottoni, biglie di terra cotta. Tutti sulla carreggiata; maschi e femmine accucciati sulla terra battuta perché l’asfalto ancora non c’era. Ogni tanto una voce sopra le righe lanciava un allarme: “Tenssion ca j’é ’na bicicletta!”. Loro si spostavano quel tanto da non essere investiti dal… pericoloso veicolo e poi tornavano a fare del corso la loro palestra sotto l’occhio delle madri o delle nonne che,all’ombra dei tigli, erano intente a lavorare di cucito o a fare lo “scapin” con i ferri da calza. Non è solo nostalgia. Tutto questo si è perso, ma resta ancora qualche piccola traccia. Se provate a percorrere a piedi la salita che da porta Torino conduce a piazza Lugano noterete che ogni tanto, compressa tra i giganti, si trova ancora qualche bassa casetta a due piani. Sono le ultime vestigia di una edilizia “povera” che il caso o la caparbietà dei proprietari hanno salvato da una fine anonima. Quelli della mia generazione sono gli ultimi che possono ricordare quel nastro di terra battuta esposto a mezzogiorno, quelle due file di stupendi tigli che a giugno portavano il profumo dei loro fiori nelle case e quella gente che, munita di sedie e panchette, la sera si riversava in strada per godere del fresco e per scambiare “du’ paròli”. Era la stessa gente che d’estate passava le vacanze insieme sulle rive del Tanaro, il lungotanaro del riset di Variglie, per la precisione.
Le vacanze di Ferragosto si facevano lungo il fiume
Nella settimana del Ferragosto i giovani montavano tende e capanne sul “sabion” e vi trascorrevano le ferie. Si pensi a questo termine: sabion, tanta sabbia, un mare di sabbia asciutta e pulita! Per dormirci non era neppure necessario il materassino, bastava un telo steso sopra quel materasso naturale. Nei giorni di festa i genitori, le spose e le sorelle, a piedi o in bicicletta, partivano di buon mattino, coprivano i quattro chilometri che li separavano dal “sabion’ d Variji” per trascorrere la giornata con i villeggianti. Si mangiava tutti insieme seduti sulla sabbia, un menù che era quasi sempre lo stesso: insalata, uova sode e pesce fritto, pescato poco prima, magari anche con le mani dai ragazzi. Ricordando tutto questo un poco di nostalgia si affaccia nella mente di chi scrive e davanti gli si presentano uno a uno i visi genuini e sinceri di tutte le persone che abitavano sul corso Regina Margherita. Furono loro gli uomini e le donne che formarono in seguito lo zoccolo duro dell’associazione J’Amis d’la Péra