Esile la figura, cauto ma determinato il passo, innata l’eleganza, sul viso i segni di una mai sfiorita bellezza. A 91 anni da poco compiuti, Marisa Ombra parla a voce bassa quasi a voler nascondere lo spirito da “fil di ferro” che la anima e guida da poco meno di un secolo, ma il pensiero è di estrema e chiarissima lucidità. Astigiana doc, partendo dal borgo operaio di corso Alessandria dove è nata, per arrivare alle luci della capitale dove è vissuta per gran parte della sua esistenza, Marisa Ombra ha attraversato la seconda metà del secolo scorso con passo sicuro, malgrado, verrebbe da dire, gli amati tacchi alti, combattendo prima per la riconquista della libertà e della democrazia e poi per accreditare, nel sovente travagliato percorso dell’Italia repubblicana, i diritti delle donne, le loro più che legittime aspirazioni all’eguaglianza ed alla parità, per non parlare della giusta considerazione da parte di quella che si è soliti definire “società degli uomini”. Una strada lunga e difficile, ricca di soddisfazioni ma anche di delusioni, pubbliche e private, che non conosce tuttora la parola fine e su cui, nell’accogliente casa astigiana dell’amica di sempre Irene Rosso, ha accettato di “confessarsi”.
Cominciamo da quella Asti Anni ’30 e da quel borgo operaio che era Corso Alessandria. “Cominciamo di lì, dove sono nata. Una casa di periferia dove si incrociavano ogni settimana le due anime della città. Quella operaia, rappresentata dalle famiglie che l’abitavano e quella rurale, rappresentata dai contadini che parcheggiavano i loro carri in cortile per il mercato del mercoledì. Una situazione che la mia famiglia riproduceva alla perfezione: tutti operai, mio papà Tino ed i suoi due fratelli, operaia anche mamma Ernesta, ma la nonna paterna era di Calliano e la sua famiglia aveva avuto vigneti e campagna. E proprio a Calliano passammo, mia sorella Pini ed io, le estati della nostra infanzia. Il dato unificante è che c’erano tanti libri in tutte e due le abitazioni e credo sia stato proprio uno di questi, “I miserabili”, che mio padre mi mise in mano quando avevo dieci anni dicendomi “adesso hai l’età per capire”, ad aprirmi gli occhi sulla realtà del mondo che mi circondava”.
Il sentimento antifascista irrinunciabile dal ’43 in avanti era ancora di là da venire. “Proprio così. Le adolescenti di quegli anni vivevano con le stesse idee e le stesse aspettative che, cellulari e abbigliamento a parte, hanno le ragazze di oggi. Eravamo nate durante il fascismo e bene o male in quel sistema vivevamo. Io addirittura lavoravo come impiegata, nel fatidico 25 Luglio del ’43, all’Unione fascista degli industriali, ma negli anni precedenti avevo avuto ben altro a cui pensare. La morte prematura di mia nonna – donna straordinaria, assolutamente illuminata nei fatti anche se di inossidabili convinzioni religiose nella morale – mi aveva gettato in un profondo sconforto sfociato in una forma di anoressia che sembrava inguaribile. Ne uscii solo quando mio padre mi diede il compito di battere a macchina il testo dei primi volantini di protesta contro la guerra, la scarsità dei generi alimentari, la mancanza di carbone. Fino ad allora, anche se qualcosa pur si era capito allo scoppio della guerra, il mio era un antifascismo generico, non mi piacevano le adunate, i sabati fascisti, le divise da Piccola italiana, ma tutto finiva lì. In quei volantini cominciai a trovare qualche risposta a ciò che mi stavo chiedendo da un po’ di tempo. Mi rianimai e ricominciai a mangiare anche se i viveri erano razionati”.
E i volantini? “I volantini, una volta stampati con il ciclostile, venivano portati in fabbrica, soprattutto alla Way-Assauto dove papà lavorava, per essere distribuiti da un agguerrito gruppo di comunisti il cui nucleo centrale era formato da donne di straordinaria capacità e coraggio. Ricordo tra queste Pierina Amerio, Carolina Agosto e Celestina Bona: sabotavano la produzione, presentavano istanze di parità di salario con gli uomini, cosa assolutamente rivoluzionaria per l’epoca, chiedevano maggiori quantità di carbone. Volevano uscire non solo dalla guerra, ma dalla posizione di inferiorità che fino a quel momento aveva connotato la loro condizione di lavoro in fabbrica e negli altri posti di lavoro”.
Si preparavano gli scioperi del marzo ‘43 “Quelli furono i primi e portarono un anno dopo e in condizioni “ambientali” molto diverse, a quelli del marzo ’44, duramente repressi dai nazifascisti. Furono quegli scioperi quasi certamente la chiave di volta della mia vita”.
In che senso? “Nel senso che, a seguito di quegli scioperi, mio padre venne arrestato insieme ad altri suoi compagni e tutti sarebbero stati sottoposti a processo sommario con sicura sentenza di fucilazione o internamento in Germania. I partigiani delle formazioni garibaldine comandate da “Barbato” (Pompeo Colajanni) riuscirono, con un ardito colpo di mano, a farli evadere dalle carceri di via Orfanotrofio ed a farli fuggire verso le Langhe. La ritorsione verso la mia famiglia non tardò ad arrivare. La mamma fu arrestata e riuscimmo a farla tornare a casa solo dopo un drammatico confronto tra il Prefetto, Pini ed io. Da quel momento non fu più vita: isolate dai parenti, spiate, controllate costantemente. Alla fine decidemmo di andare anche noi al di là del Tanaro nella cosiddetta – eravamo nell’autunno del ’44 – “zona liberata”. Con uno stratagemma riuscimmo a superare il posto di blocco del Ponte Tanaro e quasi subito ci rendemmo conto di essere finalmente libere. Cominciava lo straordinario periodo della Resistenza”.
Furono mesi straordinari in ogni senso “Furono mesi durissimi, senza un luogo fisso in cui, fatta qualche rara eccezione, dormire e mangiare, con i fascisti ed i tedeschi sempre in agguato, le spie che rendevano talvolta insicuri anche i rifugi dati per giusti, echi di violenze che talvolta diventavano reali sotto i nostri occhi, la morte con cui ci si confrontava ogni giorno. Eppure furono anche mesi di incredibile crescita personale, di incontri con personaggi straordinari, discussioni e “lezioni” di politica e di vita, donne che finalmente avevano il coraggio di mettersi e mettere in discussione. Mia mamma e Pini andarono a Gorzegno, nelle Langhe, per allestire quel che pomposamente allora si definì centro di produzione stampa, mentre io andai ad Agliano, allora capitale della Repubblica partigiana Alto Monferrato, a seguire le riunioni dei Gruppi di Difesa della Donna. Pochi ma importantissimi furono quegli incontri, interrotti dalla grande offensiva nazifascista del dicembre ’44 che fece cadere la repubblica partigiana e disperse gli appartenenti delle varie formazioni per almeno un paio di mesi. Mi rifugiai a Gorzegno da mamma e Pini dove diventai una “staffetta”.
E Marisa diventa Lilia “Il nome di battaglia me lo diede “Bianca” (Luisa Bongi), moglie di “Placido” (Guido Succi), garibaldino vicepresidente della Giunta della Repubblica dell’Alto Monferrato. Era un bel nome, meno il lavoro della staffetta che consisteva soprattutto nel camminare, spostarsi continuamente da un punto all’altro della zona assegnata (la mia era molto ampia, tra valle Bormida, valle Belbo, fino a Belveglio passando per Mombercelli, Vaglio Serra e Vinchio) per capire dove stavano i nazifascisti e dove i partigiani, ricollegare, portare ordini, accompagnare qualche comandante su sentieri sicuri. Rischi ne ho corsi molti ma per fortuna me la sono sempre cavata. Nei primi mesi del ’45 ci ritrovammo tutti, mamma, Pini ed io, a Belveglio dove il tempestivo arrivo di una formazione partigiana salvò nostra madre dall’essere fucilata sull’aia di casa durante un rastrellamento. Da Belveglio ci spostammo al castello di Costigliole e qui giunse finalmente la notizia che la guerra era finita. Si tornava alla normalità. Può darsi che oggi sia difficile da capire, ma è un fatto che al momento provammo anche un po’ di nostalgia per quei mesi “partigiani”. Per noi ragazze finiva la trasgressione. Nel mio piccolo, per molti mesi non riuscii a camminare sui marciapiedi, a riprovare il gusto dei bei vestiti, a entrare in un cinema”.
Tornata la libertà, si trattava di scegliere cosa fare. “Ci sembrò naturale, a me ed a mia sorella, continuare a fare, in altri modi, ciò che avevamo fatto nel periodo partigiano. Andammo dunque al partito comunista di Asti – io ero stata “accettata” già nel 1944 – e cominciamo il cosiddetto “lavoro politico”. Nei fatti si trattava di parlare con la gente, fare tessere, spiegare quali fossero i nuovi traguardi di democrazia applicata che doveva porsi il paese. Si lavorava come pazzi, pagati male e nemmeno sempre, ma ci credevamo. Ricordo soprattutto quello fatto tra i contadini, insieme a persone illuminate e capaci, come Oddino Bo, Giuseppe Milani e Bruno Ferraris o come Valerio Miroglio che mi aiutò a documentare, con la sua vena artistica, momenti di vita contadina che diventavano poi testimonianze da fornire quando si faceva attività di propaganda. E poi i comizi: due o tre al giorno, sempre “innalzata” dai compagni del luogo su un tavolo, per parlare in piazze spesso deserte. Il contrasto al nostro partito messo in campo dalla chiesa e dalle organizzazioni cattoliche si faceva sentire pesantemente proprio in quelle occasioni. Ricordo che in un paese particolarmente ostile, decisi che non potevo farmi zittire. Saputo di un funerale, aspettai la gente fuori dal Cimitero. Furono costretti ad ascoltarmi”.
E la storia dei tacchi alti? “Ero a detta di tutti una bella ragazza, non mi mancava qualche corteggiatore ma a quel tempo l’amore ed il sesso passavano in seconda linea rispetto al lavoro politico, tanto che qualcuno arrivò a definirmi “la suora rossa”. Mi piacevano però molto, come ho già detto, i bei vestiti e soprattutto i tacchi alti, anzi altissimi, ma nel Pci di quegli anni la regola era che non si doveva in alcun modo suscitare sentimenti che potessero anche minimamente suscitare scandalo o sospetto di arroganza. Quindi tacchi alti per qualche scappata a Torino per andare a teatro o a qualche mostra e vestiti modesti e tacchi rigorosamente bassi per il lavoro di partito”.
Poi il 1956 e non fu soltanto i “fatti d’Ungheria” “Arrivò il tempo in cui le certezze incrollabili crollarono invece rovinosamente. I fatti dì Ungheria, il rapporto Kruscev sui crimini di Stalin ci fecero capire non senza piccoli e grandi traumi che il momento delle verità assolute era finito. Ma per me fu anche l’anno in cui il Pci mi licenziò perché avevo trovato… l’amore. In quegli anni lavoravo a Torino, ero una sorta di responsabile regionale e giravo il Piemonte a fare riunioni. Incontrai quello che sarebbe diventato l’uomo della mia vita, Giulio Goria, giornalista de “L’Unità”, da poco separato. Andammo a vivere insieme e questo era un fatto inaccettabile per il Pci di quegli anni che richiedeva ai propri militanti massima austerità per non fornire agli avversari politici facili argomentazioni sulle teorie del “libero amore dei bolscevichi”. Anche l’amore tra Togliatti e Nilde Jotti era tenuto coperto. Venni licenziata. Pensai che se non servivo più, era meglio se me ne andavo e così l’anno dopo mi trasferii a Roma dove Giulio era stato chiamato da “Paese Sera”. Anche se il primo ricordo che ho della capitale è un tale che mi fece il saluto romano, in quel 1957 si viveva felicemente a Roma. Non nascondo che un po’ di rimpianto per aver lasciato l’Astigiano l’ho avuto. In provincia la vita era più tranquilla e ordinata, era più facile comunicare con la persone e soprattutto avevo nostalgia per le nostre colline, che trovo ancora oggi siano una delle cose più belle al mondo”.
Il rapporto con il partito comunista non si era però del tutto interrotto “Meglio dire cambiato. A Roma trovai un clima ben diverso da quello piemontese, soprattutto solidarietà da parte di donne che avevano vissuto esperienze simili e magari anche più dolorose. Grazie a Nilde Jotti ed a Miriam Mafai rientrai in gioco e dopo due anni di lavoro da funzionaria al gruppo parlamentare comunista della Camera, approdai all’Udi nazionale dove c’era un lavoro enorme da fare dalla parte delle donne per superare la discriminazione e conquistare l’emancipazione. Sono stati anni di forte partecipazione, di tante soddisfazioni ma anche di non pochi momenti di sconcerto e di riflessione su ciò che stavamo mandando avanti, tra grandi manifestazioni, cortei e convegni. Un periodo così intenso da cancellare dalla mente il ricordo della Resistenza. In quegli anni ’60 c’era molto altro da fare”.
Poi cosa accadde? “Accadde che l’Udi era proprietaria della testata “Noi donne” e dopo anni di grande successo, la rivista stava attraversando una forte crisi. I tempi cambiavano, le donne pure. Non cambiava ancora la legislazione del diritto di famiglia, ma il panorama sociale mutava rapidamente e si chiedeva a “Noi donne” di adeguarsi, anche sotto il profilo economico-gestionale. Alla fine si decise di costituire la Cooperativa Libera Stampa che riuniva lettrici, giornaliste e le addette alla diffusione. Fui nominata presidente. Cominciava un altro percorso irto di difficoltà, ma che non mancò di stimolare il sorgere di nuove energie nel mondo femminile con aperture che comunque consentirono alla rivista di restare viva fino ai giorni nostri. Una vita spericolata quella di “Noi donne” passata attraverso le ricorrenti crisi editoriali e le sempre più frequenti trasformazioni della società tra cui quella dell’avvento del femminismo”.
Il femminismo appunto. “I primi contatti con le femministe mi lasciarono un po’ perplessa, ma con l’andar del tempo le cose cambiarono e partecipando ai Gruppi di autocoscienza recuperai tutto quel che aveva voluto dire partecipare in prima persona alla Resistenza ed a quella frenetica attività politica del primo dopoguerra nell’Astigiano quando avevo lavorato come una pazza ma ero stata felice, molto felice. In sostanza ho riscoperto la vera me stessa che avevo per qualche decennio nascosto sotto il peso del lavoro nel Partito, nell’Udi, a Noi Donne”.
Dal recupero dell’esperienza resistenziale alla vicepresidenza nazionale dell’ANPI, una strada quasi obbligata. “Obbligata non direi, di certo assolutamente gradita. Sono andata in pensione nei primi anni ’80 e sono uscita definitivamente dal Pci nell’89 dopo il discorso della Bolognina. Gli anni passavano ma mi sentivo ancora in grado di dare il mio contributo sulla linea dell’antifascismo e della democrazia. Che c’era di meglio che ritrovare le proprie radici? E in questo senso è stata importante la rielaborazione sulla Resistenza che avevo fatto nel periodo del femminismo.”
Infine “Libere sempre”. Perché scrivere ad una ragazza nata nel terzo millennio? “Da tempo pensavo che sarebbe valsa la pena scrivere qualcosa per contrastare l’andazzo della dilagante sindrome da modella (belle case, bei vestiti, il successo ad ogni costo e ad ogni prezzo) nel modo giovanile. Einaudi, al tempo delle olgettine, me ne ha dato la possibilità e così ho scritto a questa ragazza di 14 anni incontrata sulla panchina di un parco, una lunga lettera sulla libertà, la bellezza e la dignità delle donne. Ne è venuto fuori “Libere sempre” che mi ha dato grandi soddisfazioni soprattutto quando, anche a costo di rovinarmi un po’ la salute, sono andata a presentarlo in una settantina di licei e istituti superiori di tutta Italia suscitando grande attenzione. È stato un anno straordinario e, dopo quello della Resistenza, sicuramente il più bello della mia vita”.
Marisa Ombra è mancata a Roma il 19 dicembre 2019 lasciando un segno profondo nella storia del nostro paese: nella lotta per i diritti delle donne e nell’Associazione Nazionale Partigiani Italiani.