Eccoci di nuovo in primavera. Per celebrare la bella stagione ricordo un raccontino paradossale. L’ho ascoltato più volte dal mitico Bassignana, detto Baciglio. Credo di non averlo mai sentito chiamare con il suo nome di battesimo che non conosco.
Era un uomo imponente, gioviale, frequentatore del Cocchi negli Anni Settanta, buon giocatore di carte e di boccette, disciplina in cui si cimentava spesso in epiche sfide contro il “professore” Tullio Maestri. Sosteneva di aver partecipato alla campagna di Russia e spiegava che «D’invern an Rüssia el fa talment freid che a i sèra ‘l paroli. A la prima, quand che ‘l smarin-a, a i è na cunfüsion!», «In inverno in Russia fa talmente freddo che gelano le parole. In primavera, quando arriva il disgelo, c’è una confusione!». Un’immagine straordinariamente efficace per rendere il concetto della natura che si scuote dal torpore dell’inverno e ricomincia a pulsare.
E proprio questo è la primavera, un ciclo vitale che riprende e riapre il tempo dei germogli, dei colori e degli amori. Gli uccelli portu a bisca, portano i ramoscelli che servono per costruire i nidi destinati a ospitare nuove coppie; purtè a bisca si usa dire anche per chi sta mettendo su casa per andare a vivere insieme, e infatti s-cianchè ’l bischi significa che una love story è naufragata e tutto è andato all’aria.
I gatti van an gatòrgna, ossia si scatenano nel corteggiamento e riempiono la notte con quei miagolii che tengono sveglio il vicinato. Una voglia di tenerezza da cui non sono immuni uomini e donne. In campagna, quando i mesi freddi erano freddi davvero, i fidanzamenti venivano quasi sempre ufficializzati in primavera, perché erano nati durante le veglie invernali nelle stalle, le poche possibilità che avevano due giovani di scambiarsi qualche occhiata, un cenno d’intesa. Dal momento dell’annuncio, il loro status si sintetizzava nella frase a-s parlu, “si parlano”, che equivaleva al fidanzamento.
Effettivamente due giovani non avevano molte occasioni per parlare tra loro, al di là di un saluto, senza fè parlè a gent, far parlare (o sparlare) la gente, perché era considerato “sospetto” un discorso più lungo del dovuto tra due persone di sesso diverso che non fossero parenti. Comunque, anche in questa loro nuova condizione che permetteva un po’ più di confidenza reciproca, sicuramente non si perdevano in effusioni.
Mia nonna paterna è stata fidanzata due anni con mio nonno e un giorno mi ha confessato che in tutto quel tempo «… a j’heu mai sdàmna che ‘l grand u cicava». «…non mi sono mai accorta che il nonno masticava tabacco». Come dire niente baci appassionati. E in primavera, insieme ai primi tepori, tutti rifioriscono, ringiovaniscono, cioè arpiüm-u. Arpiümè è un verbo riferito alla gallina: quando contrae una malattia tende a perdere penne e piume ma, se la supera, le rimette. È ‘n camìn che l’arpiüm-a, sta rimettendo le piume, si usa quindi per una persona che sta riprendendosi da un malanno, da un dispiacere, oppure dagli acciacchi dell’inverno.