Scrive Paolo Raviola nell’introduzione: «Questo libro non pretende di insegnare il dialetto astigiano, ma di usarlo per raccontare la storia, il lavoro, l’arguzia popolare. Tutti i dialetti hanno saputo “catturare” nei secoli, con una tempestività e un’immediatezza espressiva che le lingue nazionali non possiedono, attimi, sensazioni, palpiti, dolori e gioie di ogni comunità, con un’efficacia descrittiva straordinaria». L’autore è un astigiano doc con radici a Migliandolo, giornalista, cantautore, paliofilo, già Capitano del Palio, collaboratore di Astigiani, dove firma la rubrica “Lingua Madre”. Curiosa la storia dei passaggi e degli insediamenti di popoli e comunità che hanno contribuito, nei secoli, a “costruire” la lingua astigiana in chiave multietnica: partendo da Giulio Cesare, attraverso gli Orléans, i Savoia e svelando rapporti inspiegabili con paesi lontani come le Filippine.
È una ricostruzione straordinaria della storia di detti ed espressioni del nostro dialetto, che ancora vengono usati, ma di cui raramente si capisce da che cosa traggano origine. A cominciare dal titolo che si riferisce a quando i “fuochi di San Secondo” erano accesi da una colombella. La ricerca di Raviola è certosina, attenta, intelligente. Il volume è corredato da fotografie d’epoca della collezione di Mario Franco di Mombarone, ultimo rappresentante di una famiglia che vanta tre generazioni di fotografi, e dell’Archivio storico del Comune. Le foto sono correlate a un detto: un funerale d’altri tempi con carrozza a cavalli per spiegare andè a piansi el mort (per dire a mangiare, visto che le veglie funebri erano sempre seguite da una cena), il mercato dei bozzoli che ricorda slanguì pej d’in bigàt, “affamato come un baco da seta”.