E dove vuoi metterlo Mario, quando al ritorno ci sarà anche lo zio Canonico? Il suo reverendo deretano occupa due terzi del sedile; non ci sarà più posto per il tuo, che è grande come una castagna secca. Vai! piglia le redini, e se Omero alza la coda, tienti saldo che non ti soffi via! Omero era prodigiosamente ventoso.
Il venerando ronzino, che al Cucco serviva a portar su l’acqua dalle Tine e a tirare il calessino sino al paese o alla borgata, era così magro che le sue ossa parevano dover forare la pelle, coperta da un pelo ispido e rossastro. Teneva abitualmente il muso tanto basso che sembrava volerlo nascondere tra le zampe anteriori; al momento di partire, bisognava rimontarglierlo tirando sulle redini come a tirar su una secchia dal pozzo. Le costole apparenti sotto la pelle, proteggevano un ventre cavo e striminzito.
Nessuno avrebbe supposto che in così angusto spazio potessero essere rinchiuse tanta copia e tanto impeto di venti. Ogni suo movimento era accompagnato da una manifestazione sonora. Quando lo si toglieva dalla stalla per attaccarlo, egli, crollando e alzando il capo con malumore, esprimeva il suo dissenso dando la via a un imbronciato e multiplo rombo di protesta; in cammino il suo passo dinoccolato e il suo piccolo trotto erano accentuati da una ininterrotta, ritmica serie di detonazioni sommesse. E poiché, forse per un reumatismo che lo affliggeva agli arti sinistri, la sua andatura non era perfettamente isocrona, ma appoggiava sensibilmente a destra, il suo sussurrato strombettamento si alternava in una lunga e una breve, assumendo, a seconda che egli andava al trotto o al galoppo, il ritmo gagliardo del giambo o quello più pacato del trocheo.
Se l’improvviso apparire di un ostacolo sulla strada determinava un repentino strappo delle redini, il trauma psichico cagionatogli dalla sorpresa, si traduceva in una esplosione così lacerante che veniva fatto di chiedersi se non si fosse spaccato in due. “Yù!” gridò Memmo sfiorandogli la groppa con la frusta e Omero rispose con una modulazione lenta e stanca, quasi umana; poco più che un sospiro, che sembrava dire in tono allegro “ho compreso…”. Il calessino uscì dal cancello e svoltò a destra verso il paese…»
Sarà che prima di addormentarmi avevo letto questa pagina del romanzo di Pierluigi e Ettore Rizzo intitolato Il regalo del Mandrogno (Ed. Araba Fenice), sta di fatto che nella notte mi apparve in sogno la “Nina”, piccola cavalla scura da tiro leggero attaccata al calesse del nonno, molto simile ad Omero quanto alla ventosità (in lei, a dire il vero, più gentile, oserei dire quasi leggiadra), quando se ne usciva prima al passo e poi al piccolo trotto dal cortile di piazza Dante, verso la “Favorita” sulla collina di Viatosto.
Mi son svegliato contento, col sorriso sulle labbra. Avevo riassaporato, a cassetta, l’ebbrezza e la brezza che solo la velocità di quel calesse tirato allegramente dalla “Nina” poteva offrire. E, già che c’ero, posati i piedi giù dal letto, tanto per stare ancora in tema “strombettamento”, mi misi a cantare quella filastrocca che tanto mi faceva ridere da bambino e che recita così : «A cheval de mon bidet il y a mon cul qui fait des pets, e prprpr e prprpr e prprprprpr!»