Il primo produttore di fiammiferi in Italia è un fossanese nel 1830
Chissà quanti astigiani, soprattutto quelli non più giovanissimi, conservano nella loro memoria il nome che si dava in passato a quel cuneo che si trova tra corso Torino e corso Ivrea e che per tutti era detto I brichet, perché qui sorgeva un tempo, fino al 1950, la Saffa, una fabbrica che produceva fiammiferi e dava lavoro a qualche centinaio di operai, uomini e donne. Ora della vecchia fabbrica non rimane quasi più nulla, al suo posto sorge un complesso di edifici che ospitano un supermercato, una banca, un bar, alcuni negozi e molte abitazioni private. A poca distanza sono sorti due grattacieli. In zona una strada porta dal 1962 il nome di Via dei Fiammiferai, e quel nome, i brichet, è rimasto a lungo nell’uso comune, anche dopo la chiusura della fabbrica, forse ricordando che in tempo di guerra c’era chi faceva una lunga coda davanti allo stabilimento, magari dopo aver attraversato tutta la città, per caricare sulla bicicletta o su un carrettino qualche sacco di trucioli, da portarsi a casa per il riscaldamento domestico. La guerra imponeva anche questi sacrifici. Oggi, in tempo di accendini e di cucine dotate di fornelli che si accendono con la scintilla piezoelettrica, è forse difficile comprendere l’importanza che un tempo ebbero nella vita domestica, e in quella dei fumatori, i fiammiferi, sia quelli di legno che i “minerva” o i cerini. Tanto che anche in una realtà come Asti le fabbriche di fiammiferi erano più di una, con numerose maestranze.
Curiosamente, per risalire all’origine dei fiammiferi non è necessario riandare a un’epoca troppo lontana. Pare che a “inventare” il primo fiammifero sia stato nel 1817 (secondo altri nel 1826 o nel 1827) un farmacista inglese, un certo John Walker, che ideò dei bastoncini di legno con una capocchia formata da un miscuglio di solfuro di antimonio, clorato di potassio e gomma. Walker, si racconta, voleva in realtà fare tutt’altro, niente meno che costruire una bomba: e mentre stava mescolando i suddetti elementi chimici si accorse che una goccia del composto a cui stava lavorando, caduta su un bastoncino di legno, si era seccata e indurita. Sfregando il legnetto sul pavimento per pulirlo si generò una fiamma, ed ecco nascere l’idea dei fiammiferi.
Più avanti il solfuro dei primi tempi venne sostituito da fosforo bianco, più facile ad accendersi, ma anche più pericoloso per chi doveva lavorarlo, costretto a inalare nel corso dell’operazione un vapore velenoso, al punto che verso la fine dell’Ottocento il fosforo bianco fu messo fuori legge in tutta Europa.
In Italia l’esempio di Walker fu seguito da un certo Sansone Valobra, di Fossano, che dopo i moti insurrezionali del 1821 emigrò dal Piemonte alla volta di Napoli e qui verso il 1830 si mise a produrre fiammiferi, che commerciava in scatole contenenti venti pezzi al prezzo di un ducato.
Evidentemente l’utilità di quel bastoncino capace di infiammarsi fece subito presa, perché già prima della metà dell’Ottocento si ha notizia di tante fabbriche di fiammiferi in Piemonte (Torino, Trofarello, Vercelli, Moncalieri), nel Veneto e a Milano, grazie ai fratelli Medici, su cui torneremo.
Ad Asti un laboratorio apre nel 1844 e fa lavorare orfanelli con più di otto anni
La prima notizia di una fabbrica di fiammiferi ad Asti risale al 1844: il 14 settembre di quell’anno Paolo Curti, titolare di una piccola azienda del settore, firmò un accordo con l’Ospizio degli Esposti, impegnandosi ad assumere alcuni ragazzini dell’orfanotrofio, con la clausola che non avessero meno di otto anni.
Ma pochi anni dopo, siamo nel 1850, in Asti vi era già uno stabilimento per la produzione di “zolfanelli fosforici” che dava lavoro a cinquanta dipendenti. Ne era titolare Secondo Boschiero, prima con il fratello Stefano e poi da solo, e sorgeva in via San Francesco, l’attuale via Solari. Qui lo stabilimento, i cui addetti diventarono presto un centinaio, rimase per almeno dieci anni, per poi trasferirsi in corso Ivrea, dove, come vedremo, avrà poi sede la maggiore delle industrie del settore, la Saffa; ma gli uffici rimasero a lungo in via XX Settembre.
Di particolare rilievo per Asti, di cui fu anche consigliere comunale e assessore, è la figura di Secondo Boschiero, benefattore, che volle che la sua eredità fosse devoluta all’Ospizio dei Cronici Umberto I, l’attuale casa di riposo Città di Asti (e proprio lì accanto gli verrà poi dedicata una via) mentre un monumento, eretto nel 1903 nei giardini pubblici, oggi parco della Resistenza, ricorda la fondazione da parte sua di un’opera pia per dare aiuto alle puerpere povere della città.
Frattanto, più o meno negli stessi anni, si erano aperte altre fabbriche di fiammiferi: nel 1854 quella di Antonio Rubatto, in regione Catena, nel 1856 quella di Pietro Socco, nei pressi dell’attuale corso Volta. Qualche anno dopo – siamo verso il 1880 – alcune di queste avevano già chiuso, ma nel mentre erano sorte le ditte di Anna Camerano, Francesco Davico, Domenico Santè, Attilio Cerrato, con 30 operai, e Carlo Valenzano, con 7 operai. A Villanova operava la ditta di Biagio Binello, con 21 dipendenti.
Erano tutte aziende che esportavano la maggior parte della loro produzione in altre regioni d’Italia. I fiammiferi allora erano venduti nelle drogherie e nelle farmacie e, cosa curiosa, sappiamo che venivano anche messi in palio come premi di un certo pregio nelle lotterie, nelle tombole e nei balli di beneficenza.
Boschiero muore nel 1886 e lo stabilimento passa a Luigi Gastaldi
Due anni dopo la morte di Secondo Boschiero, avvenuta nel 1886, la fabbrica venne rilevata da due imprenditori locali, Gastaldi e Rossetti, al prezzo di 30.000 lire. Rimasto solo al comando della ditta, Luigi Gastaldi ampliò lo stabilimento di corso Ivrea, portandolo a occupare 140 operai. Tra le innovazioni apportate, la sostituzione del pericoloso fosforo bianco dapprima con quello rosso e poi con il sesquisolfuro di fosforo, la materia ancora oggi impiegata nella fabbricazione dei fiammiferi. La fabbrica era tecnologicamente all’avanguardia e si avvaleva tra l’altro di un motore a vapore di 12 cavalli per dare movimento a due macchine per tagliare il legno e due forni per essiccare i bastoncini.
Luigi Gastaldi (1850-1901), oltre che titolare della fabbrica di fiammiferi che portava il suo nome, era anche banchiere (fu tra i promotori dell’insediamento in Asti della Banca Commerciale). La sua è una figura importante nel panorama industriale cittadino. Era titolare anche di alcuni mulini in località Cauda e di impianti per la macinazione e la raffinazione dello zolfo. Si deve a lui la costruzione del bel palazzo in stile liberty in piazza Roma 10, che divenne la sua dimora. Il progetto di casa Gastaldi (dove ora ha sede il Consorzio per la tutela dell’Asti docg) fu redatto dal geometra Carlo Benzi nell’ambito del rifacimento della piazza, avvenuto nel 1898 in occasione del cinquantenario dello Statuto, quando al centro fu eretto il monumento celebrativo che esiste ancora oggi. L’edificio fu decorato dal pittore canellese Giuseppe Rizzola che lavorò per molti anni a Roma al Quirinale; Gastaldi, amante dell’arte, si circondò all’interno di opere di pittori illustri, tra cui l’astigiano Pittatore.
Dal 1895 i fiammiferi sono tassati dallo Stato
Su un genere di prodotto così necessario e così diffuso, come gli zolfanelli, non poteva mancare l’interessamento dello stato sotto forma di tassazione, così come per i tabacchi e il sale. Nel 1895 il governo italiano per fronteggiare i costi della guerra coloniale in Etiopia impose ai fabbricanti di fiammiferi e ai consumatori un’imposta, facendo apporre sulle scatole una marca da bollo sulla chiusura dell’involucro. Inoltre le fabbriche dovettero sottostare a una “licenza di esercizio”, sotto lo stretto controllo della Guardia di Finanza.
Successivamente, nel 1916, in piena prima guerra mondiale, i fiammiferi divennero genere di monopolio, e la loro vendita fu delegata alle tabaccherie. Negli anni attorno al 1920 una scatola di cento cerini costava 40 centesimi, una di duecento fiammiferi di legno veniva venduta a 1 lira e 20, cinquanta svedesi costavano 0,25 lire.
Proprio a causa degli aumentati costi di produzione nacque per i titolari delle varie imprese la necessità di consociarsi.
La fabbrica astigiana nel 1902 entra nel gruppo Saffa di Milano
Arriviamo così al 1902, quando la fabbrica di Gastaldi entrò a far parte della Società Anonima Fabbriche Riunite di Fiammiferi (la futura SAFFA), un pool di aziende sorto a Milano tre anni prima, nel 1899. A capo del gruppo vi era l’imprenditore milanese Giacomo De Medici, che aveva costituito una società col fratello Luigi, già industriale di successo nel settore a Torino, e col cugino Ettore. Oltre alla loro impresa e alla fabbrica astigiana il nuovo marchio raggruppava altre undici società con sedi a Jesi, Bologna, Empoli, Rimini, Piobesi Torinese, Torino, Moncalieri, Fucecchio, Venezia, Este.
La fabbrica lombarda aveva iniziato la sua attività producendo cerini, di dimensioni ridotte rispetto ai fiammiferi e contraddistinti appunto dall’uso della cera, ma col trasferimento in una nuova sede di Milano ebbero maggior peso nella produzione gli zolfanelli, così detti dall’impasto di zolfo che vi era sulla loro capocchia. Nel 1887 l’azienda produceva ormai 500.000 scatole di fiammiferi all’anno e occupava 600 persone per tutte le fasi della produzione.
L’azienda crebbe vertiginosamente se pensiamo che già nel 1890 arrivò a impiegare 900 operai e a produrre circa 7 miliardi di fiammiferi all’anno (di cui 3 miliardi di cerini e 4 miliardi di fiammiferi in legno). Il picco massimo per quanto riguarda l’occupazione fu raggiunto nel 1906 quando l’azienda arrivò a contare 1400 operai. Nei primi decenni del Novecento, grazie anche a più moderne tecnologie, la produzione salì a circa 45 miliardi di fiammiferi all’anno, ricavati perlopiù da tronchi di pioppo, economici e adatti a questo tipo di produzione su vasta scala.
A tali successi la fabbrica astigiana seppe dare un significativo contributo. La Saffa produsse per un certo periodo tanto i minerva e gli svedesi quanto i fiammiferi di legno, per poi concentrarsi unicamente nella produzione di questi ultimi.
Poco meno di trent’anni dopo, siamo nel 1928, la ragione sociale del gruppo si modifica, e abbiamo così la Saffa, acronimo di Società Anonima Finanziaria Fiammiferi e Affini, che muterà ancora con l’ultima trasformazione, nel 1932, in Società Anonima Fabbriche Fiammiferi e Affini; questa è la sigla che rimarrà sulla facciata della fabbrica astigiana fino al 1950, l’anno della chiusura definitiva.
In quel momento all’altro capo della città era ancora attiva la fabbrica di fiammiferi di Attilio Cerrato. Resta da dire qualcosa sulle confezioni entro cui venivano venduti i fiammiferi, che in origine si potevano addirittura comprare sciolti; le prime scatole erano cilindriche e solo successivamente si passò alle scatolette rettangolari che conosciamo ancora oggi.
Le scatole decorate sono molto ricercate dai collezionisti
All’inizio le confezioni recavano impresso soltanto il nome del fabbricante, seguito dall’indirizzo della ditta e completate da decorazioni di carattere geometrico o floreale. Tuttavia già nel 1842 la Litografia Vassalli del Regno Lombardo-Veneto produceva scatole per fiammiferi illustrate con riproduzioni di quadri d’autore, per lo più ritratti femminili, mentre in Piemonte si fece un buon nome la litografia torinese Doyen, che divenne la più utilizzata dalle manifatture di fiammiferi.
Sulle scatole soggetti artistici, religiosi e gli eroi del Risorgimento
A poco a poco le scelte dei produttori per le loro illustrazioni si orientarono verso nuovi gusti e nuovi soggetti. Troviamo così sulle scatole dei brichet dell’epoca una serie di raffigurazioni e vignette dai soggetti più disparati, a volte tanto belle da dar origine a una forma di collezionismo, che prende il nome di fillumenia. La diffusione della cromolitografia diede poi inizio alla produzione di scatole con figurine a colori. A volte si trattava di pubblicità di prodotti, o di immagini per le esposizioni universali, a volte ornati da immagini richiamanti la Belle Epoque. Ma anche con le scatole di fiammiferi si poteva in qualche misura contribuire all’acculturazione dell’Italia da poco unita, per cui troviamo la celebrazione del neocostituito Regno d’Italia, dell’impresa dei Mille di Garibaldi, o perfino, in anni più recenti, dei primi mondiali di calcio. E durante le due guerre mondiali le scatolette ammonivano: «Tacete. Ogni notizia può giovare al nemico».
Sulle scatole delle aziende astigiane troviamo anche, già ai tempi della ditta Boschiero e quindi prima del 1886, soggetti religiosi e personaggi dell’appena concluso Risorgimento (ma non manca Federico Guglielmo di Prussia), scene mitologiche, figure femminili poste in caricatura per deridere le aspirazioni delle donne a entrare nella vita politica o a fare sport (su una profeticamente leggiamo «La donna tutti i diritti ormai si arroga. E un giorno la vedremo con la toga»).
Ci sono anche battute umoristiche: su una scatoletta compare questa frase: «Sognai che il mio padrone mi ha dato un pugno. Torno a dormire per rompergli il grugno».
Un’altra serie, sempre della ditta Boschiero, è dedicata ai grandi italiani come Torquato Tasso, Goldoni, Rossini, Metastasio. E un’altra ancora racconta a suo modo i grandi capolavori della letteratura, dalla Divina Commedia ai Promessi Sposi a Le mie prigioni, oppure i romanzi rosa di Carolina Invernizio, allora tanto di moda. Non mancano immagini dei più moderni ritrovati della tecnica, dal telegrafo alla ferrovia, fino addirittura al dibattito allora in corso in Europa sulla pena di morte.
Come già ricordato la Saffa, in crisi fin dal 1947 malgrado vari tentativi di ristrutturazione, cessò la sua produzione con la fine del 1950; dal 1948 aveva incentivato i dipendenti a licenziarsi, corrispondendo loro un bonus di uscita di 150.000 lire per gli uomini e di 105.000 per le donne.
I giornali locali diedero risalto a questo impoverimento dell’economia cittadina; in particolare severe furono le critiche e le preoccupazioni espresse dai periodici di sinistra, come Il Lavoro, organo del Pci astigiano, e Il Galletto, il giornale socialista. Ebbe così termine un’attività che oltre ad aver dato lavoro a generazioni di astigiani, aveva caratterizzato un angolo della città e, con le sue scatolette colorate, aveva anche dato vita a una seppur modesta forma d’arte. Esistono ancor oggi, in varie città d’Italia, appassionati collezionisti che periodicamente allestiscono mostre in cui espongono le più belle scatole di fiammiferi, e non è infrequente che alcuni dei migliori pezzi esposti provengano proprio dalla non più esistente fabbrica astigiana.
Una memoria che non si spegne.