sabato 27 Luglio, 2024
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1968 - 1972

Epopea Saclà: straordinari anni vissuti da vincenti

Una squadra e i suoi protagonisti dentro e fuori dal parquet
Dalla Serie D all'Olimpo della Serie A in cinque indimenticabili stagioni che hanno avuto dell'incredibile. Sono rimaste un sogno per tanti astigiani, infranto solo per la mancanza di un palazzetto adeguato, problema ancora oggi da risolvere. Beppe De Stefano, Carlo Ercole e Lajos Toth gli artefici del successo che ha avuto come protagonisti straordinari giocatori. Charly Caglieris, Meo Sacchetti, Willie Kirkland, Alberto Merlati, Alberto De Simone tra i nomi che hanno scritto la storia del basket astigiano e di quello italiano. Un vero e proprio fenomeno di costume che in Via Gerbi ha radunato l'intera cittadinanza, per la prima volta unita per seguire uno sport di squadra.

Dalla serie D all’Olimpo della serie A in cinque indimenticabili stagioni che hanno avuto dell’incredibile. Sono rimaste un sogno per tanti astigiani, infranto solo per la mancanza di un palazzetto adeguato, problema ancora oggi da risolvere.

Beppe De Stefano, Carlo Ercole e Lajos Toth gli artefici del successo che ha avuto come protagonisti straordinari giocatori. Charly Caglieris, Meo Sacchetti, Willie Kirkland, Alberto Merlati, Alberto De Simone tra i nomi che hanno scritto la storia del basket astigiano e di quello italiano. Un vero e proprio fenomeno di costume che in via Gerbi ha radunato l’intera cittadinanza, per la prima volta unita per seguire uno sport di squadra.

 

La tribuna del palazzetto di via Gerbi con lo striscione: “Inferno del Monferrato la Saclà vi scaverà la fossa”

Quel sogno non solo sportivo che gremì il palazzetto

Lo sport inventato nel 1891 da James Naismith, professore alla YMCA di Springfield (Massachusetts), ad Asti si cominciò a praticare fin dai primi Anni ’30 del Novecento sotto l’egida del Guf (Gioventù universitaria fascista): allora si chiamava palla al cesto.

Terminato il secondo conflitto mondiale, la ripresa dell’attività avvenne soprattutto grazie alla Libertas che disputò campionati con giocatori esclusivamente locali viaggiando tra la serie D e la serie C che allora era il quarto campionato italiano. Si giocava all’aperto sul campetto in terra battuta di via Natta (ex Gil), asfaltato, poi, nel 1953, dove bisognava spalare la neve d’inverno e togliere l’erba d’estate.

Finalmente, nel 1959 fu inaugurato il palazzetto di via Gerbi, dotato di un fondo in cemento e di docce calde che prima non esistevano, mentre il parquet in legno comparve solo con l’era Saclà. E fu proprio in quel periodo, iniziato alla fine degli Anni ’60, che si assistette a quel dirompente, irripetibile, sensazionale salto di qualità che portò il basket astigiano nel giro di soli cinque anni dalla serie D alla serie A. Un fenomeno sportivo che ha dell’incredibile.

Ma che cosa è stato il fenomeno Saclà? Un sogno, un bellissimo sogno di cui ci si rese conto soltanto quando un brutto giorno tutto il popolo della pallacanestro astigiana si svegliò senza squadra, perché – per regolamento federale – il vecchio palazzetto non aveva più sufficiente capienza per la serie A. Triste destino quello dello sport astigiano che ha visto finora ben tre progetti abortiti per un impianto sportivo per squadre d’élite, perdendo non soltanto la massima serie di basket, ma pure quella di volley che raggiunse la sua massima espressione con la Riccadonna.

Quando si dice… cortomiranza politica. Ma torniamo all’epopea Saclà. Come sia potuto accadere è presto detto: sono bastati tre uomini, come Carlo Ercole, presidente, Beppe De Stefano, general manager, e Lajos Toth, allenatore. Più tante altre persone interne alla Saclà come Libero Prati e Renzo Raineri, o esterne come Giancarlo Caracciolo, Paolo Marello, Giancarlo Grassi, Pietro Baudino oltre a Ugo Tartarone, il precisissimo scout man, per non dire di Dino Viarengo, impeccabile accompagnatore e passato alla storia per una sua memorabile frase pronunciata quando ancora giocava a basket, ruolo “terzino”:  «Dì fiöij, fé nèn tanti fantasiji lì davanti, che nui, qui da drera, sa s-ciancuma er berteli» (traduzione: «Sentite ragazzi, non fate tante fantasie lì davanti, perché noi qui di dietro ci stracciamo le bretelle, ovvero ci facciamo un mazzo così»)

 

La riunione del 1966 in cui è stata decisa la storica unione tecnica tra Astense e Libertas da cui è nata la Saclà. Da sinistra: Beppe De Stefano, Giancarlo Caracciolo, Lorenzo Ercole, Rodolfo Montrucchio e Corrado Malfa

La Saclà con l’accento conquistò una visibilità nazionale

A dir la verità Carlo Ercole di basket non ne capiva molto, come un giorno confessò egli stesso, ma la sponsorizzazione a una squadra tutta in fieri fu un atto di fiducia concesso a Beppe De Stefano, con cui aveva stretto una forte amicizia fin dai tempi del ginnasio. Però, divenne presto il primo e più emotivo sostenitore della sua squadra e aveva il vezzo di fregarsi nervosamente le orecchie nei momenti thrilling delle partite.

Mai fiducia fu meglio riposta, perché la Saclà, come industria conserviera, stava facendo un balzo in avanti e i successi della squadra diventarono sinergici. «Olivolì, olivolà, oliva Saclà», era lo slogan di quegli anni, slogan che si sentiva ripetere quando si andava in trasferta. In giro per l’Italia diventarono conosciuti non soltanto la squadra e i prodotti dello sponsor, ma pure la città di Asti, il che non è poca cosa. I colori sociali sulla maglia erano il blu scuro con la scritta bianca, poi diventati il blu e il rosso, con i bordi bianchi.  I semplici appassionati, come i super tifosi, riuscirono anche a metabolizzare quell’accento voluto dall’agenzia di pubblicità perché più funzionale. 

Beppe De Stefano elegante manager all’americana

Il general manager Beppe De Stefano e il presidente Carlo Ercole assistono ad un incontro

 

Ma per noi, vecchi astigiani, era sempre stata Sacla. Solo i non astigiani hanno compiuto un cambiamento di sesso – il Saclà – mentre noi, nati e vissuti nella bula di coj, la squadra l’abbiamo sempre amata al femminile, come si ama una donna alta e bionda, bella e formosa, tutta latte e burro, una specie di Anita Ekberg.

Beppe De Stefano è stato il vero artefice di questo successo. Uomo colto, con perfetta conoscenza dell’inglese e del mondo americano, tipo a volte duro, ma giusto, come richiede un ruolo di responsabilità; decisamente pragmatico, facilitato nel suo lavoro da un carisma unico; bei modi garbati e, soprattutto, convincenti. Conosceva il basket per averci giocato, anche a buon livello essendo stato il primo astigiano ad emigrare all’“estero”: fu pivot della Riv Torino nell’allora serie A (dal 1954 al 1960) con Bongiovanni, Sempio, Guasco, Tonelli, Vannucci e Ruffa (che giocò pure un anno ad Asti). Non altissimo… appena 1,93, nemmeno grosso e pesante, ma strenuo difensore, agile e duro nel gioco e poi abilissimo nella captatio benevolentiae da parte degli arbitri.

Fece presto a entrare nel ruolo di massimo responsabile della squadra, imparando i “meccanismi” palesi e meno palesi del basket, aiutato certo da Toth che si era formato alla scuola di una storica piazza come Varese. Qualche esempio per meglio inquadrare il personaggio.

 

Lajos Toth e Bruno Riva durante un time out

L’allenatore Toth dall’Ungheria al Monferrato con amore

Quando la Gelaticecchi di Biella fallì e i giocatori furono liberi di diritto, i giornali nazionali davano Charly Caglieris all’Ignis Varese, imboccati da Gualco gm dell’Ignis. Ma accadde che Caglieris sbarcò ad Asti in serie B (con Bruno Riva), anziché nella blasonatissima Ignis di serie A.

E questo fu dovuto soltanto alla capacità dialettica di Beppe De Stefano. Dopo la parentesi astigiana, sempre come gm Beppe De Stefano raccolse successi a Torino (1973-84), quindi emigrò a Treviso alla corte di Gilberto Benetton (1984-87), poi ancora a Torino (1987-90) e di nuovo a Treviso (1990-93), per finire la gloriosa carriera a Torino (1993-97). Il periodo di Treviso fu quello in cui riuscì a mettere a segno altri due grandissimi colpi: nel 1990 arrivò Winnie Del Negro, che mantenne un’antica promessa fermandosi due anni prima di ritornare nella Nba per giocare nei San Antonio Spurs, e l’anno successivo prese Toni Kukoc, recente vincitore del premio quale miglior giocatore europeo, che si fermò pure lui due anni prima di andare nei Chicago Bulls.

E veniamo a Lajos Toth. Ungherese di nascita, dove era diventato il più giovane magistrato d’Ungheria, poliglotta (ungherese, russo, tedesco, inglese, francese, italiano), fuggì ai tempi della rivolta nel 1956. Di ruolo giocava pivot, pur non essendo altissimo, ma era robusto e, soprattutto, molto astuto sotto canestro. Giocò nel Servette di Ginevra prima di approdare all’Ignis di patron Borghi, dove si mise in evidenza.

Erano i tempi in cui le squadre più quotate erano Milano, Varese, Bologna e Pesaro, ma soprattutto le prime due e io, da sempre tifosissimo dell’Olimpia Milano, allora sponsorizzata Simmenthal, lo odiavo perché lui era dell’Ignis, il nemico più acerrimo. Poi, quando venne ad Asti come giocatore-allenatore cominciai a stimarlo. Prima di approdare alla Saclà, dopo l’Ignis, aveva giocato a Casale in serie B (dove gli avevano appioppato l’appellativo di “zingaro”, sia per le sue origini pannoniche che per il suo modo di vivere errabondo) e dopo ancora ad Alessandria in serie D.

Lajos Toth, dovevi capirlo più per ciò che ti taceva che per quello che ti diceva

Toth era intelligente, astuto, e dovevi capirlo più per ciò che ti taceva che per quello che ti diceva. Ogni sua azione era mirata a ottenere un risultato utile per sé e per la squadra e pertanto non guardava mai al risultato immediato, quanto a quello finale. Una sua frase ricorrente, specie in campagna acquisti, era «Non si può andare a caccia di uccelli col tamburo», per far capire che i movimenti dovevano essere tenuti segreti. Però a me, che a quel tempo seguivo la Saclà per La Nuova Provincia oltre che per i Giganti del Basket e il Guerin Sportivo, piaceva dare le notizie in anteprima.

Soprattutto, non mi piaceva smentire una notizia, per cui si era stabilito un tacito patto tra me e la società che più o meno era questo: io non vi danneggerò anche se ho notizie sicure, ma voi non mettetemi in condizione di dovermi smentire. E così fu. Lajos Toth era anche un profondo conoscitore del mondo del basket, a livello di relazioni che sapeva coltivare, soprattutto se “contavano”.

Ma era pure buono psicologo e conosceva bene gli uomini, con i loro pregi e le loro debolezze, e fu proprio questa sua conoscenza che gli fece prendere in squadra sempre gli uomini giusti. Dico uomini e non semplici giocatori. In genere li preferiva maturi e affidabili, come i vari Motto, Morani, Macchelli, Bonacchi, Magistrini, Ravalico e poi De Simone, Merlati, Lazzari, Frediani, Musetti, Cavallini, con un passato, o addirittura un presente, di rilievo. Ma anche giovani ex juniores come Vianello, Maraschio, Scartozzi, Billeri e Benevelli fecero parte della sua truppa. Gli ultimi due, allievi di Ravalico all’Ignis, furono particolarmente centrati e Benevelli, via Pesaro, arrivò fino alla nazionale.

E che dire, poi, di un certo Romeo Sacchetti nativo di Altamura, arrivato diciassettenne ad Asti da Novara dove giocava in Promozione, ancora grezzo ma con tante potenzialità. Oltre a buone mani e tanta grinta, la sua caratteristica principale era quella di essere troppo grosso per essere marcato da un piccolo e troppo veloce per essere marcato da un lungo. Sacchetti fece tutta la trafila della Saclà, poi diventò star dell’Ignis negli Anni ’80 del secolo scorso e conquistò con Caglieris l’oro europeo a Nantes (1983), meritandosi anche due argenti: Olimpiadi di Mosca (1980) ed europei di Stoccarda (1985). Ed ora è valente allenatore a Sassari in serie A. Questo fu l’esempio più alto dell’occhio lungimirante di Lajos Toth, che aveva trovato casa a Conzano nel Monferrato, dopo aver abitato ad Asti in piazza Dante.

Charly Caglieris contro Patriarca Udine (serie B). Foto Gigi Boano.

La febbre del tifo crebbe appassionata in tutta la città

L’era Saclà non fu soltanto un fenomeno sportivo, ma anche sociale. Per la prima volta industriali, professionisti, impiegati, operai, studenti (molti) avevano infranto ogni tipo di barriera, accomunati dalla passione per la squadra sulla quale, al bar Cocchi, si accendevano quotidianamente discussioni infinite e tutti, anche i più profani, erano improvvisamente diventati dei “tecnici”.

Ci furono mitiche trasferte con parecchi pullman di tifosi astigiani al seguito e gli spalti del palazzetto, durante le partite, erano una bolgia di passione.  Ogni tifoso aveva i suoi giocatori preferiti da coccolare. E pure parecchie tifose avevano i loro preferiti, i quali non ne disdegnavano le attenzioni, anzi.

Ma non entriamo nel gossip. Diciamo soltanto che Asti fu una città accogliente per questi ragazzi, alcuni dei quali presero qui residenza e si sposarono. Ma anche chi ora vive lontano non ha dimenticato Asti, come ho appurato lo scorso anno a una cena presso la “mitica “ Grotta dove erano presenti Marcello Billeri, Alberto Merlati e la gazzella d’ebano Willie Kirkland con la moglie.

Furono grandi anni, quelli dal1968 a 1973, anni in cui si mangiava soltanto pane e basket. Si seguivano persino gli allenamenti, in rigoroso silenzio.  E la domenica, quando si giocava in casa il tifo era rumoroso e appassionato, con il pubblico trascinato da Flavio Falchetti ed Ezio Musso, i più scatenati di tutti. E quando si vinceva ecco che Franco Macagno, detto Bon-Bon, operaio stampista da Maina e trombettista della banda cittadina, intonava con la sua cornetta le note verdiane della marcia trionfale dell’Aida, ritmata dal battito delle mani dei tifosi, mentre i giocatori uscivano osannati dal campo.

E allora, per dirla con l’indimenticabile Pietro Baudino, era il momento in cui al palazzetto si raggiungeva veramente l’epàllage, che nel gergo del popolo del Cocchi significava il massimo stato di gioia, di soddisfazione e di perfezione raggiungibile. Insomma piacere puro.

La Scheda

 

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