La guerra era appena finita. Venivano da esperienze, famigliari e di vita, le più diverse, ma non ebbero difficoltà a trovarsi d’accordo su un comune obiettivo: sostenere la ripresa dello sport astigiano, in particolare quello di base, con specifico riferimento all’educazione fisica e all’atletica leggera. Lo fecero in una effervescente stagione in cui gli impianti sportivi erano pressoché inesistenti, sia ad Asti che nella sua giovane provincia, e la gente sembrava avere tutt’altro per la testa che fare sport. La loro fu una sorta di missione che, tra l’altro, diede frutti insperati e per certi versi insuperati. I loro nomi sono impressi nella memoria di chi li ha conosciuti e frequentati, vuoi come atleti e, soprattutto, come studenti. Sono proprio questi ultimi ad averli negli anni definiti “professoroni”, non tanto per la loro stazza fisica che comunque era, per l’epoca, notevole, quanto per il loro carisma, la passione, la dedizione con cui affrontarono gli anni difficili dell’immediato dopoguerra. I loro nomi sono: Luciano Fracchia, Angelo Vada, Renato Agnese e Carlo Mosso, ed è proprio al “prof. Carlo”, il solo ancora in vita di quel formidabile quartetto, che abbiamo chiesto di raccontarsi e, com’è abitudine di Astigiani, di confessarsi.
Professor Mosso, lei è ricordato soprattutto per la sua carriera di insegnante di Educazione Fisica e di istruttore di atletica leggera, tennis e altre discipline. Ma ci sono anche intensi “prima” e “dopo” nella sua vita.
«Altroché! C’è un prima che, avviato nel migliore dei modi, diventò ben presto molto tormentato, difficile, addirittura assai rischioso per la mia vita e c’è un dopo che si è dipanato in modo abbastanza sereno e soddisfacente.
Se devo tracciare un quadro sintetico della mia esistenza, posso dire che, tutto sommato, pur attraversando stagioni assai travagliate e complesse, la mia strada si è rivelata, come potrei dire, rettilinea e percorribile anche quando tutto sembrava stesse andando per il verso sbagliato».
Una strada dritta come la sua schiena che è ancora oggi invidiata da molti. “Dritto come un fuso” è il modo con cui amici e conoscenti definiscono, con un po’ di invidia, il suo modo di camminare. Vediamo dunque come è stato questo “prima”.
«C’è stato un “prima” dell’adolescenza o poco più, in cui il destino, magari anche qualcosa di superiore al destino, ha fatto sì che riuscissi – ne venivano ammessi trecento in tutta Italia – a entrare a sedici anni al Collegio del Littorio di Roma. In questo modo, interrompevo la tradizione di famiglia del commercio dei vini, e cominciavo a vedere il mondo “fuori da Grazzano”. Un’esperienza di rigore e di disciplina, quella del Collegio, che mi fu però molto utile negli anni successivi quando fui ammesso alla “Farnesina”, la mitica Accademia da cui uscivano allora i professori di ginnastica. Ma era il ‘42 e la guerra durava già da due anni: feci domanda per la Scuola Allievi Sottufficiali. Fui assegnato all’Aquila ed è stato proprio qui, a fine corso, che ho scelto di fare il Bersagliere e fui mandato al Corso Allievi ufficiali di Pola, da cui uscii con il grado di sottotenente».
Ed è qui che comincia la parte più difficile e drammatica di quel “prima”
«Esatto. Fui mandato al fronte in Croazia. Tutte le guerre sono terribili quando non orribili, ma quella in Jugoslavia lo fu in modo particolare. Il nemico era un’ombra sfuggente e costantemente in agguato: difficile da affrontare e pericolosissimo. Paradossalmente però, non furono i croati a toglierci le armi, ma i nostri ex alleati tedeschi dopo l’8 settembre ‘43. Catturato a Sebenico, finii in un campo di concentramento per militari italiani in Polonia. Rifiutai, come molti altri miei commilitoni, di aderire alla Repubblica Sociale e di conseguenza furono mesi di privazioni, umiliazioni, stenti e vessazioni. Non ero più quel robusto giovanotto della Farnesina, ma la forza d’animo e anche un po’ di fortuna mi aiutarono a resistere. Il mio gruppo fu spostato, all’avvicinarsi dell’esercito russo, in Olanda. Qui, nel maggio del 1945, fummo liberati dalle truppe inglesi. Con un viaggio lungo e non privo di intoppi, riuscii a tornare già negli ultimi mesi del ‘45 in Italia e alla mia Grazzano».
Si tornava alla normalità. Si è parlato di un prima e di un dopo, ma adesso cominciava il “durante”
«Proprio così. Il titolo della Farnesina mi consentiva di entrare subito di ruolo nell’insegnamento e così fu. All’inizio del ‘46 mi chiamò il Provveditore agli studi di Asti e mi assegnò all’Avviamento commerciale, un ordine di studi oggi abolito che negli anni diventò un Istituto professionale, meglio noto come “Segretarie d’Azienda”. Avevo un lavoro e potevo pensare alla famiglia. Nel ‘47 sposai Magda – ci conoscevamo si può dire da sempre perché abitava a duecento metri da casa mia a Grazzano – e nel ‘48 nacque Ezio. Per quindici anni ho fatto il pendolare e poi ci siamo trasferiti in città, pur senza mai rinunciare alle indimenticabili estati in Monferrato. Dall’Avviamento passai alla media di via Roero che allora non aveva ancora un nome, e infine all’Istituto Tecnico G. Giobert dove sono rimasto fino al ‘78 a far fare ginnastica ai futuri geometri e ragionieri».
Fu in quegli anni che lei diventò uno dei quattro “professoroni”
«Sì, se proprio vuole chiamarci così. Avevamo grande passione e ci piaceva non solo stare con i ragazzi, ma anche lavorare perché quella stessa passione potesse esprimersi in momenti di sport, agonismo e anche di gioco. Mentre Renato Agnese era il più schivo e meno coinvolto nelle attività extrascolastiche, Angelo Vada e io fummo trascinati dall’impetuosa volontà di Luciano Fracchia nella fondazione della “Vittorio Alfieri” di atletica nell’aprile del 1953. Fu una specie di rivoluzione perché per la prima volta chi aveva voglia di fare atletica avrebbe avuto a disposizione anche dei tecnici, altrettanto giovani, per aiutare, sostenere, consigliare».
Volontà ed entusiasmo a non finire, ma zero impianti, o quasi
«C’erano il campo di via Natta, il cosiddetto “cortilone”, e la palestra attigua (detta anche “palestrone” o “maschile” per distinguerla da quella “femminile”, più civettuola, che affacciava su via Giobert). A pensarci oggi sembra impossibile che si siano fatte tante cose su quel campo. La pista era di “circa” duecento metri, con le corsie di sabbia grossolana disegnate con il gesso. Eppure in quel “cortilone” si sono fatte cose grandiose: Walter Pescarmona, per dirne una, si allenava con un’asta metallica che non si piegava nemmeno se la mettevi sul fuoco eppure fu primatista italiano juniores. Anche un giovanissimo Livio Berruti ha corso su quella pista».
Poco funzionale, eppure affollatissimo. Qual era il segreto del “cortilone”?
«Credo di non sbagliarmi dicendo che prima di tutto c’era una passione incredibile. E poi i ragazzi di allora erano di poche pretese e avere il “cortilone” a disposizione sembrava loro già gran cosa. Quindi passione e ancora passione. Su quel campo sono cresciuti non solo gli atleti, ma anche i giudici di gara e i cronometristi, tutta gente che diversamente non sarebbe esistita».
Poi arrivò il Campo Scuola lungo il Borbore
«Ci siamo proprio divertiti. Il cortilone era il romanticismo e la nostra gioventù. La pista di via Gerbi era l’attualità, misure certe, la possibilità di crescere atleti di ottime qualità e finalmente poter lavorare bene unendo l’entusiasmo a una certa professionalità. Potevamo usare quel campo anche per le attività scolastiche che fino ad allora erano state seriamente penalizzate dalla mancanza di impianti adeguati».
E così arriviamo alla scuola e alla vostra, la sua in particolare, severità nelle lezioni di educazione fisica.
«Ma quale severità. Io cercavo solo di inculcare un po’ di amore per l’esercizio fisico a una massa di “praticanti obbligati”, sovente distratta, pigra, poco vocata (tra gli allievi “celebri” del prof. Mosso si contano anche Giancarlo Antognoni, i gemelli Silvio e Osvaldo Fraquelli, Aldo Marello, Giorgio Faletti, ndr.) a esercizi che ritenevo fondamentali per poter praticare qualsiasi attività fisica. Posso capire che, dotato di una voce stentorea, agli inizi creassi qualche timore in quegli allievi sovente un po’ riottosi, ma alla fine credo che tutti abbiano più o meno capito. Una piccola percentuale non è mai riuscita, malgrado tutto, a fare decentemente una salita alla fune o alla pertica, per non parlare del “cavallo”».
Ginnastica a scuola. Come si faceva senza le giuste palestre?
«Da buoni italiani cercavamo di arrangiarci. Alla media di via Roero, una palestra c’era e quindi il problema era in qualche modo risolto. All’Avviamento si andava invece in una delle due palestre di via Natta. Nei primi anni di Istituto o si andava in via Natta o, dopo il 1959, al Palazzetto che fu una vera manna e poi, dal ‘61, al Campo Scuola. Una gran fatica per tutti finché il Giobert si trasferì in via Gandolfino Roreto e lì finalmente c’era una palestra tutta per noi».
Nel 1978 va in pensione e comincia il “dopo” di cui abbiamo parlato all’inizio.
«A dire il vero il “dopo” era già cominciato da un po’ di anni, per la precisione dalla fine degli Anni ‘60 quando si costituì, per opera di Peppino Bolla e prima ancora del generale Carosio, la sezione astigiana dei Bersaglieri in congedo. Non potevo non essere della partita: il cappello piumato mi è sempre rimasto idealmente in testa. Partecipai al fervore iniziale, che portò alla costruzione del monumento al Tenente Paolo Lugano, eretto nell’omonima piazza, ma anche all’attività degli anni successivi che culminò, quando già Bolla era scomparso e io ero diventato presidente della sezione, all’organizzazione del Raduno nazionale del 1990, ispirato e voluto fortemente anche dal colonnello Scirè. Fu un momento di molta soddisfazione e anche di grande commozione nel sentire il calore della gente intorno a noi e capire che non avevamo patito invano i drammi della guerra e che potevamo essere orgogliosi di essere i “fanti piumati”».
Nel “dopo”? c’è anche il periodo da sindaco della sua Grazzano Badoglio
«Avevo già fatto il consigliere e nel 1975 sono stato eletto sindaco, incarico che mi è stato confermato cinque anni dopo. Bel periodo ma con un amaro risvolto che ancora oggi mi addolora».
Racconti
«Ero stato nominato, in rappresentanza di Grazzano, nel consiglio di amministrazione del Consorzio smaltimento rifiuti coinvolto nella brutta faccenda di Valle Manina. Insieme ad altri tre miei colleghi fui rinviato a giudizio, processato e assolto con formula piena. Credevo fosse finito tutto. Le grane sono venute dopo, con le esorbitanti spese processuali che ci furono attribuite. Questo fatto ha innescato una serie di corsi e ricorsi nei vari gradi della giustizia che, a mio parere, hanno avuto risvolti vicini all’illegittimità e per cui non sono mai riuscito ad avere giustizia, malgrado i numerosi esposti presentati in questi anni alla magistratura».
Una piccola incrinatura in quella carica di ottimismo che ha caratterizzato la sua vita
«Proprio così. Un cruccio che non si scioglie, ma che prima o poi se ne andrà. Vincerà l’inguaribile ottimismo che ha sempre connotato le mie scelte, insieme alla convinzione che l’onestà e la chiarezza degli intenti siano i caratteri fondamentali della vita di un uomo. Ma dovrà farlo anche in fretta perché, per quanto la salute sia buona, immagino che il mio tempo sia ormai limitato. Comunque, bando alle tristezze. Ora devo pensare a questo Raduno nazionale dei Bersaglieri del 2014. Dal 1995 ho lasciato la presidenza della sezione, ma le piume al vento restano e non me lo voglio perdere».
La scomparsa nel 2018
Carlo Mosso è mancato la notte del 4 agosto 2018, a 98 anni.
Ultimo aggiornamento: 27 luglio 2024
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