Carlo De Bortoli è un bell’uomo, prestante nonostante qualche spessore che l’età regala a ciascuno di noi, giusto per ricordarci che non siamo più ragazzi. Di certo non è da anziano la voce, modulata su toni dolci, così diversa dal timbro possente, stupendamente baritonale, che le sue corde vocali sanno emettere mentre canta. Lo incontriamo nella casa di Motta di Costigliole.
Quel che colpisce di lui è il lieve sorriso quando narra di sé, e quel tenere gli occhi semichiusi, come se le sue parole venissero davvero da uno scrigno custodito nel profondo, e potessero, liberate, volare lontano, superare le colline e posarsi su palcoscenici, prosceni, altari. Parla come un rio che scorre lento, ma costantemente, alla ricerca dell’immagine giusta, o della reminiscenza precisa, come chi ha bisogno di recuperare spazi di memoria riposti e troppo importanti per non essere illustrati come si deve. Quando poi, seduto dietro la testiera, nei primi minuti di ogni prova di noi della Corale San Secondo e prima di cedere la direzione al Maestro Della Piana, ci regala le “scale” e i consigli per riscaldare la voce, gli occhi li chiude del tutto.
Ecco, sta respirando dal profondo il proprio amore per la musica, e quello che ti comunica non sono impostazioni di tono o corretto uso del diaframma e della laringe, ma passione assoluta, e l’entusiasmo pacato del professionista che gode nel render partecipi i propri allievi di un meraviglioso segreto. Il suo racconto prende forma inesorabile, quasi epico, certamente straordinario.
Maestro, lei di strada ne ha fatta tanta, non solo metaforicamente. Partiamo dal Veneto.
“Ricordo bene il mio paese d’origine, Zenson di Piave, in provincia di Treviso, ancora in fase di ricostruzione dopo le devastazioni della guerra, e la miseria diffusa che c’era a quel tempo anche nella mia famiglia. I miei avevano messo al mondo dodici figli di cui nove sopravvissuti. Papà era organista in chiesa, e come il parroco e il sacrestano si viveva dei piccoli oboli dei parrocchiani, e di altri aiuti materiali offerti magari durante la trebbiatura del grano (anche sacchetti di grano stesso): come nel Medioevo, viene da pensare. Ogni tanto arrivava per lui qualche lavoro “vero” ma temporaneo, comunque benedetto, come quello al biscottificio Cric. Per noi bambini era una festa quando papà ci portava a casa qualche pezzo di biscotto rotto”.
Il padre organista ha favorito la sua vocazione musicale?
“La passione per la musica mi venne innata. Da piccolo mi nascondevo nel fienile con qualche spartito musicale, quasi vergognandomene, da timido e introverso come sono rimasto. Ero affascinato da quelle righe parallele animate da segni neri che magicamente corrispondono a suoni che poi si trasformano in melodie, ma mi sentivo un po’ in colpa quasi fosse una perdita di tempo, invece di andare a fare qualche lavoretto e contribuire ai magri ricavi della nostra famiglia. Passò la guerra con altri lutti e distruzioni e nei primi Anni Cinquanta, seguendo l’esempio di molte famiglie già emigrate, in America o in Australia, anche noi De Bortoli decidemmo di fare fagotto e andare a cercare fortuna altrove”.
Allora, soprattutto dopo la devastante alluvione del Polesine, dal Nord Est si emigrava verso Ovest: Milano, la Lombardia, Torino, il Piemonte.
“Partimmo su un tossicchiante camioncino messo a disposizione da un autotrasportatore del nostro paese, su cui trovarono posto poche masserizie e molte teste ondeggianti, con la paura costante di qualche controllo di polizia. Ricordo che ci fermò una pattuglia, ma non sollevarono il tendone sotto cui stavamo immobili e spaventati noi bambini. Trovammo lavoro a mezzadria in una cascinotta fuori Acqui. Papà faceva il bracciante e il resto della famiglia dava una mano come poteva. Io ero già abbastanza grande. Imparai a condurre i buoi, e tale responsabilità mi dava forza e sicurezza. Ma erano lavori stagionali e periodicamente ci si metteva alla ricerca di un’altra occasione di sopravvivenza. Di cascina in cascina, facemmo base, un poco più stabile, a Castelnuovo Calcea”.
E qui torna in campo la passione per la musica.
“A Castelnuovo, sulla scorta delle mie esperienze di chierichetto canterino, ebbi l’occasione di far parte della locale corale. Fu un grosso incoraggiamento, e uno stimolo ad approfondire le mie conoscenze musicali. Appena le mie scarse finanze me lo permisero acquistai, con dieci biglietti da mille, messi da parte uno a uno, una tromba, ovviamente strausata, ma il canto rimase la mia vocazione principale”.
Negli Anni Sessanta l’arrivo ad Asti.
“La nostra tappa successiva fu Valmanera. Trovai lavoro da apprendista falegname alla ditta Cerrato di corso Torino. Fabbricavamo porte e si operava soprattutto nei cantieri in pieno boom edilizio. Lavoro duro e di responsabilità crescente. Divenni abbastanza bravo, e quello immaginai sarebbe diventato il mio lavoro se il destino non mi avesse indirizzato su strade assai differenti. La musica mi è sempre stata al fianco. Nella mia innata timidezza e riservatezza ancora adesso faccio fatica a realizzare quanto è successo e dove sono arrivato. Ho bisogno spesso di risentire le registrazioni delle mie performances e di rivedere qualche filmato, e ancora mi emoziono di fronte a cose che pure fanno parte stabile della mia memoria. Arrivò anche il matrimonio e la spinta a percorrere nuovi itinerari, avendo al contempo la fortuna di contare su una compagna che non mi ha imposto obblighi familiari troppo vincolanti. Certo, anche sotto tale aspetto non è stato facile diventare un viaggiatore del mondo, a casa episodicamente e per periodi mai definiti, poiché da un momento all’altro poteva arrivare l’ingaggio, o la chiamata per sostituire qualche collega indisposto. È stata dura anche gestire la mia salute, perché un cantante professionista non può permettersi alcuna indisposizione, neppure un raffreddore”.
Andiamo per ordine. Com’è cominciata la sua avventura professionale?
“All’inizio furono amici e conoscenti a chiedermi di cantare a feste e matrimoni. E ciò fu importantissimo per aumentare la mia traballante autostima. Sentii così il bisogno di migliorare le mie prestazioni canore e, potendo finalmente permettermelo, mi affidai a un insegnante di canto”.
“Parevo destinato a montare porte e finestre ma in piazza San Secondo cambiò il mio futuro”
Poi che è successo?
“Capitò che assistetti in piazza San Secondo, proprio di fronte alla Collegiata destinata a diventare la ‘mia casa’, all’esibizione di quattro cantanti del celeberrimo coro della Rai di Torino, tra cui un basso. Confrontai mentalmente la sua con la mia voce e mi convinsi che le cose che sentivo ero in grado di riprodurle accettabilmente. Mi rivolsi a Giacomo Zoppi, direttore di banda e primo corno dell’orchestra sinfonica di Torino . ‘Ho una voce simile…’ gli dissi. Ricordo perfettamente la sua risposta: ‘Ma vah?’ vediamo che sai fare!’. Passai la prova e fu così che, per tramite suo, a 27 anni potei sentire il parere di Ruggero Maghini, maestro della Rai, che mi affidò allo stesso basso che mi aveva ispirato in piazza San Secondo, Otello Bisilli. La via del bel canto era intrapresa… “Dopo due anni di studio da privatista vinsi, nel 1969, da primo classificato in Italia, il concorso del Regio e dopo sei mesi quello in Rai. Potevo ritenermi finalmente un professionista, ma sentii lo stesso il bisogno di frequentare il conservatorio, su consiglio di una delle tante persone che debbo ringraziare, il maestro Eros Cassardo. Ciò fu fondamentale per aprirmi le porta dei vari teatri lirici. Ricordo l’emozione del debutto al Regio nel 1972 nel ruolo di Pimen nel Boris Godunov di Musorgskji. Posso dire che la mia carriera mi ha portato a calcare tra gli altri i palcoscenici di Roma, Bologna, Palermo, Roma, Parma e dell’Arena di Verona e poi all’estero da Amburgo a Parigi, da Pechino a Bombay. Ho conservata ovviamente foto dei personaggi interpretati: in parrucca e costume si fatica a riconoscermi. L’opera lirica non è solo una magnifica esperienza musicale, ma una festa di colori e atmosfere, che ti aiutano a calarti nel personaggio. Insomma, diventi quello che canti, e ne vivi le suggestioni e le emozioni, fino a quando non ti strucchi e torni te stesso”.
Che cosa ha sottratto al resto della vita una carriera tanto intensa?
“Molto, per lontananza dall’ambiente familiare e saltuarietà dei rapporti interpersonali, estremamente cangianti prevedendo ogni contratto colleghi e collaboratori diversi, con cui facevi appena in tempo a legare per poi doverli abbandonare, convocato altrove da un giorno all’altro. In Germania, ad esempio, fanno programmi artistici con anni di anticipo. Se qualche interprete ha problemi si mettono immediatamente alla ricerca di un sostituto, e occorre essere subito disponibili per non perdere l’occasione di esibirsi ai massimi livelli”.
Com’era il mondo della musica quando Carlo De Bortoli la conobbe, e com’è adesso?
“Ho fatto anch’io parte da giovane di un cosiddetto “complesso”, e cantavo con soddisfazione brani melodici, prediligendo quelli di Claudio Villa e scatenandomi in Binario, o Granada. Erano piccoli, ma importanti guadagni e in fondo stavo facendo quel che più mi piaceva. D’altra parte, all’epoca, i cantanti più bravi avevano la voce “impostata”, da grandi interpreti, come ad esempio Nilla Pizzi, o Luciano Tajoli, per non dire di Beniamino Gigli. Per quel che concerne la lirica, all’epoca il pubblico dei grandi teatri era davvero costituito da appassionati, che conoscevano a memoria ogni dettaglio della rappresentazione, e non solo le arie più famose. Attualmente non è più così, c’è più divismo e meno preparazione di base: si può dire che c’è posto per interpreti che una volta sarebbero stati magari fischiati. Non ricordo da anni “fiaschi” tipo quelli, ricorrenti, di Parma o della Scala. Diciamo che c’è meno spirito critico e meno preparazione e chi ascolta tende ad accontentarsi. Senza parlare delle risorse microfoniche che all’epoca erano del tutto bandite. La voce era davvero la tua, e doveva diffondersi netta nell’ambiente senza trucchi o artifizi.
Quale musica ascolta nel suo tempo libero?
“Ascolto e amo il jazz, così come la musica da camera e, perché no, anche quella leggera”.
Lei è stato anche vice rettore del borgo di San Lazzaro, testimonianza di un inserimento completo nella realtà astigiana.
“Vero. Accadde negli anni ’80. Frequentavo (e spesso cantavo) nella corale della parrocchia di San Domenico, e sfilai al Palio tra i loro figuranti. Dicevano che avevo il portamento medioevale giusto. Presi la tessera di borghigiano, da amico fraterno del rettore Vandro Palliero, mi feci talmente coinvolgere che accettai di divenire suo vice. Non riuscimmo a vincere durante i miei due mandati, ma ricordo con entusiasmo quell’esperienza e resto legato a San Lazzaro dalla passione paliofila. Fui addirittura premiato come borghigiano dell’anno, mi pare nel 1983. Dal 1991, in occasione della festa del cinquantennio, io e alcuni miei coetanei della leva del 1941abbiamo costituito un comitato, con la finalità di organizzare concerti e manifestazioni a scopo benefico, in cui mi esibii assieme a valenti colleghi, raccogliendo infine 30 mila euro che furono devoluti a un’importante opera missionaria in Brasile”.
Da qualche anno c’e anche il De Bortoli insegnante…
“Credo arrivi inevitabile il momento in cui ti senti padrone della tua materia, altrimenti non avrei trovato il coraggio di proporre la mia ‘arte’ in centinaia di occasioni e a migliaia di persone. E se qualcuno te lo chiede lo metti volentieri a parte delle tue conoscenze. La voce è uno strumento delicato, di cui far uso senza sottoporlo a stress o usura. E ciò è possibile solo utilizzando correttamente la laringe, il diaframma, il velo palatino, assumendo le giuste posture e così via. In tal modo si ottiene il massimo dalle proprie corde vocali. Il resto, come sempre, fa parte delle risorse che Madre Natura ha voluto fornirci”.
Che emozione le dà l’insegnamento del canto? È un arricchimento reciproco, una simbiosi artistica?
“Più che emozione, emerge un senso di responsabilità, che diventa soddisfazione, da ex docente del conservatorio Giuseppe Verdi di Torino, quando i miei allievi si esibiscono e sono giudicati positivamente. Il che, per fortuna, succede spesso”.
Infine, maestro, che significa essere leader, nonché presidente, di una corale del livello della nostra San Secondo?
“Ho la fortuna di conoscere il maestro, compositore, arrangiatore e organista Giuseppe Gai, formando un sodalizio e un’amicizia immutati negli anni, e fortificatisi nel periodo in cui ambedue insegnavamo al Conservatorio torinese e si viaggiava assieme in treno, conversando non solo di musica. Non a caso fu lui, nel ’74, a chiamarmi a collaborare come solista nelle esibizioni più importanti della corale San Secondo, di cui era fondatore e direttore. Mi chiese anche di frequentare le prove per dar qualche consiglio. Entrai così gradualmente, e direi inesorabilmente, nel meccanismo e nel 2013, in occasione del rinnovo del consiglio direttivo, fui votato nonostante avessi chiesto espressamente di non farlo. Da lì a ricevere la proposta di presidenza il passo fu brevissimo. Accettai con qualche perplessità poiché mai mi sono occupato di cose simili: sono sempre stato un esecutore, indirizzato dai consigli di registi o direttori. L’impegno è a volte assai gravoso (tra l’altro abbiamo organizzato la spedizione a Roma per il Giubileo delle Corali, a ottobre) ma l’entusiasmo supplisce alla carenza di esperienza. E poi ho validi collaboratori sia in ambito musicale (un nome solo come esempio, il nostro attuale formidabile direttore Mario Della Piana), che gestionale. Il gruppo, straordinario per umanità e disponibilità, fa il resto”
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