Figlio dell’oste delle Trincere, il ragazzo ribelle divenne “Piciot”
Aveva gli occhi chiari, di un grigio celestino, nel viso dal sole ancora cotto Fermo lo sguardo, duro e intransigente di chi le discussioni non ama» così lo raffigura Orio Vergani, uno dei più brillanti giornalisti italiani del ‘900, in un suo celebre incipit, quasi una ritmica terzina.
«Passava tra la folla con il cipiglio di un imperatore » ricorda Armando Cougnet, un altro celebre giornalista del secolo scorso, organizzatore, tra l’altro, del primo Giro d’Italia nel 1909, proprio cent’anni fa.
«Sui paracarri della pianura padana sta scritta la storia di Gerbi campionissimo» afferma invece Gianni Brera, un altro grande del giornalismo epico e un po’ picaresco del nostro paese.
A ben vedere potremmo fermarci qui perché a leggerle nella giusta maniera, queste frasi contengono già tutto quello che è stato Giovanni Gerbi, prima “Piciòt” e poi “Diavolo Rosso”, per il ciclismo italiano, anche quella definizione di “campionissimo”
che diventò celebre con Girardengo e soprattutto con Coppi, ma che senza alcun dubbio si adatta alla perfezione anche a Gerbi, il primo di una terna di piemontesi che, ognuno nella sua epoca e ognuno a suo modo, cambiarono i tempi e i modi di correre in bicicletta, non solo in Italia.
Ma fermarci qui non ci permetterebbe di conoscere meglio il personaggio Giovanni Gerbi, mito e leggenda del ciclismo, ma anche molto altro, con una spiccata tendenza a essere imprenditore, nel senso più comune del termine, quando, sceso – si fa per dire – dalla bicicletta, avviò una fortunata attività di costruttore di, manco a dirlo, biciclette che, tra l’altro circolano ancora oggi con il suo famoso marchio.
Ma anche, o soprattutto, imprenditore di se stesso riuscendo a far diventare valori positivi quelli che per altri versi sarebbe stato difficile riconoscere come tali: la voglia di vincere a tutti i costi, uno smisurato orgoglio, una straordinaria scaltrezza, il relativo – e qui usiamo un eufemismo – rispetto delle regole di lealtà sportiva. E infine la capacità di vivere il mito fino in fondo, cadendo e risorgendo, ricomparendo sulle strade quando tutti lo pensavano finito, inventandosi senza fine nuove sfide anche in età avanzata
come quella del celeberrimo “gerbido” scalato nel 1931 o del primo campionato italiano Veterani.
Dunque un personaggio che potremmo pensare segnato dal destino, a cominciare dalla coincidenza della sua nascita, giovedì 4 giugno 1885 alle 5 del mattino in borgo Trincere, con una grande manifestazione patriottica che si svolse poche ore dopo in piazza Alfieri, gremita di “camicie rosse” che festeggiavano la presenza in città di Francesca Armosino da Antignano, ultima moglie di Giuseppe Garibaldi, e del figlio Manlio.
Dubito laicamente che le coincidenze astrali abbiano una qualche influenza sulla vita degli uomini definendone gusti, caratteri e scelte di vita, resta il fatto che almeno due di queste si verificarono alla nascita di Giovanni: la già ricordata presenza in città di centinaia di garibaldini nel giorno della sua nascita e la fondazione, proprio nel 1885, nei primi giorni di dicembre, dell’Unione Velocipedistica Italiana, diventata successivamente, e fino a oggi, Federazione Ciclistica Italiana.
A quindici anni la prima bicicletta e subito in gara a Torino
Due fatti, nettamente indipendenti tra loro che trovarono però in Giovanni Gerbi una sorta di curiosa sintesi – il rosso delle camicie che fu eternamente il “suo” colore e la bicicletta da corsa che, anche qui eternamente, il suo “strumento” – tanto da farne un
personaggio pressoché unico nella storia, preistoria per essere più precisi, dello sport italiano: non solo per le vittorie ottenute, ma soprattutto per la sua capacità di diventare leggenda vivente di un’irripetibile epopea.
Figlio di Giuseppe, iscritto all’anagrafe come contadino ma in realtà oste in borgo Trincere, e di Paola Graziano, Gerbi era considerato già nella prima adolescenza un vero e proprio irregolare: scapestrato, rissoso, insofferente a ogni disciplina, espulso dalle scuole comunali. Insomma un vero tormento per i genitori che non solo dovevano badare a condurre l’osteria, ma anche occuparsi di tre sue sorelle più giovani: Amalia, Artemisia e Maria.
Di questo suo affacciarsi alla vita sociale si sono scritte, e raccontate, le storie più picaresche, ma è probabile che in tutto ciò ci sia stata un po’ di esagerazione tanto per farne un protagonista assoluto già a dodici anni. È infatti assai più probabile che Giovanni, come ogni ragazzino di borgata della sua epoca, fosse un pochino più smaliziato dei suoi coetanei “cittadini”: sveglio, vivace, esuberante il giusto, magari un po’ prepotente. Non si spiegherebbe altrimenti il soprannome di “Piciòt” che si portò dietro per tutta la vita e che in dialetto sta a indicare un tipo in gamba, brillante, che se la sa cavare sempre anche quando magari sfiora i limiti della liceità.
E Giovanni era proprio uno che riusciva sempre, o quasi, a farla franca, anche quando impallinava con il flobert un coetaneo per “futili motivi” o, a tredici anni, investiva con la bicicletta una vecchietta sullo stradone per Nizza procurandole ferite di una certa gravità. Proprio a quei primissimi anni della sua vita risale la “scoperta” della bicicletta,
il mezzo più adatto per sfogare l’innata irruenza, l’irrefrenabile esuberanza. E a quindici anni, dopo aver definitivamente abbandonato la scuola ed essere passato per una decina di diversi lavori che non riusciva a tenere per più di dieci giorni ciascuno, trova occupazione nel negozio di armaiolo di Marcellino Borio e riesce a mettere da parte i soldi per comprarsene una: trenta lire è il costo.
Non poco per quei tempi, ma ne varrà la pena perché segnerà la svolta decisiva della sua vita. In bicicletta passa infatti tutte le ore libere e soprattutto le domeniche. Ed è così che nell’estate del ‘900 arriva a Torino, si ferma in un’osteria per bere una
gazzosa, ma non “dimentica la strada” come poi canterà Paolo Conte, anzi.
Nel ’900 vince il suo primo Campionato astigiano
Davanti al locale si sta formando un gruppo di ciclisti pronti a correre la Torino-Rivoli. Quale migliore occasione per mettersi alla prova? Detto fatto, cacciati i pochi centesimi
per l’iscrizione, Gerbi è già in sella e, malgrado il mezzo non sia il più adatto a una competizione, arriva terzo. È la conferma della sua grande stoffa e l’entusiasmo sale alle stelle.
Ci riprova nelle settimane seguenti e sarà secondo nella Torino-Trana e nella Torino-Pianezza. In casa non è che siano tutti d’accordo su questa passione che sembra una vera e propria follia e in uno sport guardato con sospetto, ma ormai il bacillo della corsa gli è entrato nel sangue e nessuno riuscirà più a trovarne l’antidoto.
La definitiva consacrazione arriva ad agosto di quello stesso anno. Piciòt ha quindici anni, già si veste con una maglia rossa, quella che gli varrà il soprannome di “Diavolo Rosso” la cui origine resta avvolta, leggende a parte, nel più fitto mistero, ma soprattutto ha finalmente una bicicletta da corsa che battezzerà “biciclina”, leggera e con il manubrio ricurvo.
Si disputa il Campionato astigiano a cui partecipano alcuni già affermati corridori
locali come Nosenzo, Picco e Molino. Il percorso è di 95 chilometri, da Asti a Moncalieri e ritorno. Giovanni pedala, urla e strepita per tutta la gara e alla fine conquista il titolo battendo Nosenzo in volata. Un altro segno del destino, visto che proprio lo sprint finale era, e lo fu per tutta la sua carriera, il punto debole del suo pur ricchissimo repertorio tecnico. La gente comincia già a parlare di lui come di un campioncino, ma Gerbi, con
il primo dei suoi tanti coup de théatre, sparisce d’improvviso dalla scena astigiana.
Uscito dai ristretti confini della provincia, lo troviamo sedicenne a Milano dove ufficialmente fa il fornaio, ma in realtà passa gran parte del suo tempo, guadagnando anche sommette non indifferenti, sulla pista in legno della Piazza d’Armi dove un certo Granida organizza durissime sfide ciclistiche pretendendo sostanziose tasse gara dai concorrenti, ma premiando anche, allo stesso modo, i vincitori.
Su questo feroce campo di combattimento conosce quelli che negli anni saranno tra i suoi più temibili avversari: Meneghetti, Parini, Garanzini, Eberardo Pavesi, Ganna, Azzini, Galetti. Gerbi l’astigiano si fa conoscere come irriducibile gladiatore e spietato
combattente non solo in pista, ma anche sulle strade, allora polverose e piene di buche dove non perde occasione per gareggiare. Un avversario, insomma, da temere sempre, anche quando sembra già spacciato.
Una grinta che nel 1901 gli consente di vincere ben dieci delle tredici gare a cui partecipa e gli fa prendere piena coscienza della sua forza: è il più forte, o almeno tra i più forti corridori italiani. Comincia così a prendere forma l’idea di fare del ciclismo agonistico la sua professione.
Il 1902 sarà il suo ultimo anno da dilettante facendo la conoscenza, tra l’altro, di uno dei suoi più acerrimi rivali – un altro piemontese – quel Giovanni Cuniolo che, trovandosi nella giusta occasione, lo batterà quasi sempre in volata.
Teme le volate e cerca le grandi fughe vincenti
La volata, come già accennato, era il punto debole di Gerbi e lui prontamente si adegua. Per evitare di venire superato negli ultimi metri di gara, è necessario arrivare da soli al traguardo. Di qui l’elaborazione di una tattica che userà sempre negli anni successivi: fughe improvvise, scatti continui che tagliano le gambe agli avversari, studio maniacale del percorso, all’epoca pratica del tutto sconosciuta ai più, e individuazione dei punti in cui una fuga ha le maggiori possibilità di riuscita.
Un modo di correre che metterà già in pratica nell’allora celeberrima Coppa del Re (sul percorso Milano-Alessandria) vincendola a mani basse.
Nel 1903, a 18 anni, diventa professionista
Vinse il primo Giro di Lombardia nel 1905 con 40 minuti di distacco
Fu il passo decisivo verso il professionismo a cui approda nel 1903, a soli diciotto anni. In questa nuova veste scoprirà, man mano che il tempo passa, di saper emergere soprattutto nelle corse in linea piuttosto che in quelle a tappe.
In queste ultime, che richiedevano un dosaggio delle forze e una capacità di autodisciplina che uscivano nettamente dai suoi furiosi schemi mentali, non avrà mai molta fortuna. Al secondo Tour de France del 1904, Gerbi, primo italiano a parteciparvi,
trova pane per i suoi denti e nella seconda tappa alcuni tifosi transalpini – episodio la cui dinamica non fu mai del tutto chiarita – lo bastonano di santa ragione sul Col de la Republique costringendolo al ritiro.
Nell’edizione del 1908, anno peraltro assai felice per il Diavolo rosso, fu protagonista di una prova piuttosto opaca con un secondo posto nella Nizza-Nimes, un quinto nella Bordeaux- Nantes e il ventesimo nella classifica finale.
Neppure il Giro d’Italia gli fu amico. Nella prima edizione del 1909, partito con il ruolo del favorito, cadde poco dopo la partenza della prima tappa, ruppe i raggi delle ruote della bicicletta e ripartì con tre ore di ritardo vanificando ogni speranza di vittoria finale e ritirandosi alla terzultima tappa.
Tornò al Giro nel 1911 e, dopo una serie di discreti piazzamenti (tra gli altri, secondo nella Genova-Oneglia e terzo nella Ancona- Sulmona), fu terzo nella classifica finale, terzo dei cosiddetti “isolati” (cioè, senza una squadra). Fu ancora al Giro l’anno successivo, dove si presentò con una formazione che portava il suo nome e che si classificò al terzo posto nella speciale classifica a squadre. Gerbi invece finì al tredicesimo posto.
Ma torniamo a quel 1903 che lo consacrò campione di razza e personaggio da leggenda. A conferma dell’assunto, basti per tutti l’episodio della Milano-Torino che vinse giungendo in corso Casale con mezz’ora di vantaggio su tutti, anticipando anche gli organizzatori che non avevano ancora fatto in tempo a sistemare lo striscione d’arrivo. Qualcuno dubitò seriamente della sua correttezza e, prima che il primo posto gli fosse definitivamente attribuito, fece in tempo a inscenare una furiosa litigata con
Eugenio “Magno” Costamagna, fondatore e direttore della Gazzetta dello Sport.
Il 1904, anno pari, non fu gran che, rischiando anche la vita in un grave incidente occorsogli al Campionato mondiale stayer di Londra mentre stava per insidiare il primo posto all’americano Walthour.
Ben diversamente andò il 1905, anno dispari, in cui conquistò una lunga serie di mirabolanti vittorie, dalla Corsa Nazionale (Milano-Torino-Alessandria-Milano) ottenuta dopo una sosta forzata di venti minuti a causa di un incidente occorsogli proprio ad Asti, al campionato italiano dietro motori e a quella che resta probabilmente la sua affermazione più fulgida e ancora oggi indimenticata, nel primo Giro di Lombardia.
Alla prima Milano-Sanremo favorisce la vittoria del francese Petit Breton
Autore di una tremenda fuga iniziata nei pressi di Lodi, arrivò a Milano con un vantaggio di 40 minuti sul secondo. Un distacco ancora oggi primato di quella che
viene oggi definita “classica monumento”.
Le grandi vittorie del 1905 non si ripetono l’anno successivo anche se si aggiudicherà, tra le altre, la prima edizione del Giro del Piemonte, il Campionato piemontese, la Milano-Alessandria- Milano, la Milano-Pontedecimo e sarà protagonista di un episodio dei suoi alla Bologna-Roma dove, passando a Firenze con 20 minuti di vantaggio sul
resto dei concorrenti, non trovò la giuria ad attenderlo e proseguì indiavolato nella
notte perdendo la strada e la vittoria.
E così siamo al 1907, un anno speciale, sia per le numerose vittorie conquistate, sia per un paio di episodi di etica un po’ ariosa, all’inizio e alla fine della stagione. Il primo riguarda la Milano-Sanremo che “Piciòt” rinuncia a vincere, nella sua prima edizione, dopo aver stipulato un accordo “economico” con il francesePetit Breton, suo compagno di squadra cui toccherà la vittoria. Gerbi è secondo, ma viene retrocesso al terzo posto per le sue acclarate scorrettezze che, tra l’altro, ammetterà candidamente qualche anno dopo.
Il secondo episodio riguarda invece il Giro di Lombardia e qui le cose sono un pochino più complicate perché il Diavolo rosso, primo con 39 minuti di vantaggio sugli immediati inseguitori, fu accusato di aver fatto chiudere, dopo averlo superato, un passaggio a livello dove furono bloccati gli avversari. Con una sentenza assai discussa, e discutibile, Gerbi fu retrocesso all’ultimo posto e squalificato per due anni, poi ridotti a sei mesi.
Ed eccoci al 1908 che fa eccezione alla regola degli anni alterni e vede ancora Gerbi, sia pur impossibilitato a gareggiare nei primi mesi dell’anno per la squalifica comminatagli l’anno precedente, tra i più forti del ciclismo italiano e non solo. Vincerà infatti la Corsa Nazionale, il secondo giro del Piemonte, il Campionato piemontese, la Roma-Napoli e la Napoli – Roma finendo terzo al Giro di Lombardia.
Il 1909 sarà la sua ultima stagione “piena” e neppure delle più felici con solo due
lampi alla Milano-Firenze e alla cosiddetta “XX Settembre” (Roma-Napoli e Napoli-
Roma) che vincerà per la terza volta consecutiva.
Il Diavolo rosso ha 24 anni e così come era stata precoce la sua ascesa, allo stesso modo si anticipa il declino. La concorrenza è diventata sempre più forte e il suo grande cuore non basta più per contrastarla efficacemente. Correrà ancora tre anni, spinto più dalla popolarità che immutata lo accompagna sulle strade italiane, che dalle motivazioni che avevano ispirato gli anni d’oro della sua sfolgorante carriera.
Nel 1913 apre a Milano un’officina per la riparazione e la vendita di biciclette e sembra aver messo per sempre le scarpette al chiodo, ma che “Diavolo rosso” sarebbe se non riservasse ai propri tifosi una fragorosa sorpresa?
Nel 1913 apre a Milano una bottega dove vende biciclette
Cerca, come sempre, nuove sfide e questa volta mira al record mondiale delle sei ore. Dopo un periodo di preparazione tenuto pressoché segreto, si presenta a fine novembre al velodromo delle Cascine di Firenze con una sua bicicletta. Parte come un razzo, migliora il primato delle tre ore, percorrendo 110 chilometri e 308 metri, va in crisi ma si riprende al suono della Marcia dei Bersaglieri e alla fine conquista anche il primato delle sei ore consecutive togliendolo al tedesco Weise, percorrendo 208 km e 161 metri a più di 34 km all’ora di media.
Sarà l’addio al suo ciclismo dei pionieri e alla sua travolgente giovinezza. Correrà ancora qua e là per l’Italia, ma gli stimoli si sono esauriti. A non dimenticarsi di lui saranno però i suoi tifosi, gli appassionati, la gente del ciclismo e non solo.
Si sposa nel 1920 e apre un negozio di bici e giocattoli in via Brofferio angolo via Cavour
Società con il suo nome, squadre di calcio e di altri sport – quasi un centinaio in tutto – nascono un po’ dappertutto in Italia. La sua leggenda vive anche senza le sue imprese e questo resterà per tutti il segreto più affascinante della sua straordinaria epopea.
La prima guerra mondiale è un importante spartiacque anche per Gerbi che, alla fine
del conflitto, torna ad Asti, sposa nel 1920 Giuseppina Traversa, nel 1921 diventa
papà di Paolina, apre una fabbrica di biciclette e poco dopo anche un negozio – di biciclette, è ovvio, ma anche di magnifici giocattoli – all’angolo tra via Cavour e via
Brofferio, fa il patrocinatore di squadre di ciclismo e di calcio, fonda il Pedale Astigiano insieme ad altri appassionati e organizza una società che porta il suo nome.
In bicicletta continua ad andare, magari insieme ai giovani poulains dell’epoca (tra
questi Marco e Battista Giuntelli e Amulio Viarengo) ma nessuno immagina un suo
ritorno al ciclismo attivo. E invece nel 1931, quando il Diavolo rosso ha ormai 46 anni, riesplode la passione. Il botto si avrà con la celeberrima sfida del “gerbido”, una
impervia e sterrata salita sulle pendici che portano a Montemarzo con pendenza al 18%, che Piciòt supererà, non senza qualche incertezza iniziale, con una bici senza cambi, in una sorta di sfida-scommessa prima di tutto con se stesso, davanti a un migliaio di spettatori entusiasti.
Nel 1931 la sfida scommessa del gerbido di Montemarzo
La notizia, sapientemente orchestrata, fa il giro delle redazioni: il Diavolo rosso è tornato a correre. E lui, come se niente fosse, cavalca l’onda e tanto per non smentirsi, si inventa la categoria “Veterani” raccogliendo l’adesione di suoi antichi amici-rivali come Galetti, Cuniolo, Bordin e tanti altri.
Vince il titolo al Campionato italiano Veterani, partecipa alla Sanremo del venticinquennale e si impegna in un’impresa disperata: il Giro d’Italia del 1933. Non potevano che essere pesanti ritardi a ogni tappa, ma anche grandi manifestazioni di affetto in tutta Italia al suo passaggio. Escluso dalla corsa perché “fuori tempo massimo”, prosegue fino a Milano come suiveur. Al suo arrivo in un Vigorelli ormai deserto c’è però ad aspettarlo un gran mazzo di rose rosse. Glielo aveva portato la sua amata Giuseppina.
La seconda guerra mondiale spariglia ancora una volta le carte: Gerbi chiude e riapre la fabbrica di biciclette che aveva aperto in un capannone in borgo Tanaro, dove si assemblavano anche motocicli con il suo marchio, allestisce una squadra di giovani ciclisti che partecipano al Giro d’Italia del ’40 e alla fine del conflitto diventa l’immancabile testimone degli eventi ciclistici piemontesi, occupandosi anche di essere maestro ed esempio per le più giovani generazioni.
Crea la categoria veterani vince ancora e partecipa al Giro d’Italia nel 1933 a 48 anni
Una vecchiaia serena sarà la sua, sempre in contatto con gli antichi rivali, ora diventati amici. E sarà proprio al ritorno dalla visita a uno di essi, il pavese Giovanni Rossignoli gravemente ammalato, che Gerbi rimarrà ferito in un incidente stradale i cui postumi ne causeranno la morte il 7 maggio 1954.
Si chiudeva così la storia di uno straordinario campione sportivo. Restano i bagliori della sua leggenda che Paolo Conte ha cantato e canta da par suo nel bellissimo brano a lui dedicato nel 1982.
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Su Astigiani
Su Astigiani del marzo 2016 (n. 15) Dino Tessitore e Davide Chicarella hanno
raccontato l’epopea della fabbriche di biciclette e moto made in Asti, tra le quali
c’era l’azienda fondata da Giovanni Gerbi.
Fonti
Nel 1985, in occasione del centenario della nascita, è stato edito il volume
“Diavolorosso” a cura di Paolo Monticone con disegni di Antonio Guarene, con
scritti di vari autori e una ricca documentazione fotografica.
L’associazione Cavalieri Erranti ha curato il volume “Il Diavolo pedala ancora”
in occasione delle Celebrazioni Gerbiane del 2004-2005