Gianni Basso, il signore del sax. Un ragazzo di provincia tra i grandi del jazz

Di Gerry Basso

“tra i tanti suoi amici ricordo la complicità con il grande Giacomo Bologna”

Essere figlio di Gianni Basso è stato come vivere un film d’azione. Lui, interprete principale dagli ideali profondamente radicati: la sua famiglia, la grande famiglia del jazz (non so in quale ordine metterle); il Grande Torino, l’ideale della sinistra, l’amicizia, la lealtà, il rispetto per tutti, specialmente per i giovani in cui ha sempre creduto.

Io, che ho respirato e condiviso tutto questo. Il mio nome viene dalla sua grande amicizia con Gerry Mulligan, anche se il suo vate fu Chet Baker, amato da mio padre come jazzista e anche come uomo, peraltro persona molto sensibile nonostante i vizi devastanti e la storia piena di guai e contraddizioni.

Profondamente legato alla sua famiglia e alle sue radici, ricordo lunghe tavolate a Castello d’Annone, paese della sua infanzia, con tutti i nostri parenti (come mi parevano anziani gli zii sessantenni se penso che oltre la soglia dei 60 adesso sono arrivato anch’io!), e file di bottiglioni di Barbera, con tanta allegria e canti intonati fino a tarda sera.

Gianni ha vissuto e ci ha fatto vivere intensamente, rendendoci partecipi quanto più possibile ai viaggi e alle esperienze che porto scolpite indelebilmente nel cuore e nella mente: incontrare allo stadio Gianni Rivera (per me un’illuminazione), assistere ai derby di Milano con Gino Bramieri e Lina Volonghi (indimenticata attrice di teatro), sedermi alle prove pomeridiane alla Bussola di Focette con Mina e in seguito con la grande Ginger Rogers, essere dietro al palco del Teatro Alfieri con Dizzy Gillespie (ricordo un suo rutto fantozziano prima di entrare in scena), cenare con Gorni Kramer, Piero Angela o passare pomeriggi e serate memorabili con le stelle del jazz americano, a cena o in concerto. La lista è veramente lunga.

Mio padre però ci fatto anche trascorrere – con mia madre in perenne protesta data la nostra giovane età – serate/notti interminabili in quel di Rocchetta Tanaro in compagnia di uno uomo straordinario, intelligente, istrionico, innovatore nel campo vinicolo e amico di una vita: il suo più grande amico Giacomo Bologna, per tutti Braida. Per la gioia della mamma Rina che doveva cucinare anche alle tre del mattino, per la pazienza della moglie Anna, donna unica, da Braida transitavano personaggi illustri: Padre Eligio, sempre in compagnia di Rivera, Paolo Frola, Bruno Lauzi, talvolta anche Paolo Conte, mischiati allegramente con gli abitanti di uno dei paesi più incredibili che io abbia mai visitato (e ho girato il mondo parecchio), pronti a far festa a tutte le ore del giorno, e soprattutto della notte.“

La stagione romana: nostro padre alla rai, io tra i contestatori”

Con mio padre, arrivati per il weekend da Milano, andavo di sabato al Cocchi per l’aperitivo dal Mini (le tartine di carne cruda!), per poi salire al primo piano dove in una nuvola di fumo guardavamo giocare a carte personaggi della vita astigiana di allora come Gigi Corosu, Dario Occhiena, Beppe Martinetti e molti altri noti alle cronache mondane locali. Grande estimatore della Francia, per i suoi prodotti, i coquillages, lo Champagne, le donne; mi portò una volta al Caveau de la Huchette, nei sotterranei di Parigi, per farmi respirare (si fa per dire, data la quantità di sigarette) l’atmosfera del jazz ballato.

Per lui era una maratona faticosissima, dovendo suonare quasi ininterrottamente, ma ancora una volta mi ha stupito vederlo felice nel suo elemento, facendomi capire quanto il jazz possa coinvolgere tutti in mille maniere, ascoltandolo, cantandolo, ballandolo… a proposito, Gianni cantava anche bene (altra somiglianza con Chet Baker), sia canzoni francesi sia brani jazz, non tutti lo sanno.

La sua città preferita era comunque Milano, dove abbiamo abitato per anni; si trovava a suo agio nella metropoli lombarda, probabilmente perché a f ine Anni ’50 e inizio Anni ’60, era il luogo dove si tenevano più concerti e spettacoli. Torino era ancora indietro in questo senso, anche se bizzarramente il jazz in Italia è nato in Piemonte con Tullio Mobiglia e numerosissimi jazzisti sono nati o vissuti in Piemonte, la lista è lunghissima.

Nella Milano di fine Anni ’60 suonò spesso al Derby Club, scuola e palestra dei vari Boldi, Teocoli e di numerosi cabarettisti che si esibivano nella stessa serata, peraltro molto legati ai musicisti. Nel 1971 io e i miei, assieme a mio fratello Roberto (classe 1965), ci siamo trasferiti a Roma dove papà Gianni era stato ingaggiato dalla RAI, nella quale peraltro già militava il suo grande amico Dino Piana.

Essere proiettati dalla capitale lombarda al caos romano, peraltro alimentato in quel tempo da una situazione politica bollente (e pericolosa), è stato un altro capitolo emozionante della nostra storiafamigliare intensa. I miei primi anni di liceo li passai in piazza a contestare, per poi scappare dalla polizia, sempre scappare; quanti chilometri di corsa in quella città meravigliosa ma complicata, dal traffico alla mentalità della gente, molto diversa da noi del Nord.

Per Gianni gli anni romani furono un enorme successo, non solo alla RAI, dove peraltro nel 1972 arrivò anche il suo “gemello di jazz” Oscar Valdambrini, ma anche per l’incisione della colonna sonora del film La prima notte di quiete, interpretato nientemeno che da Alain Delon, suonata insieme a Maynard Ferguson. Nel frattempo nel 1972 nacque mio fratello Alessandro, un altro maschio nella squadra. È facile capire perché io e i miei fratelli abbiamo ben pochi ricordi di Gianni Basso prima delle undici del mattino, l’alba per un musicista. Arrivava al mare dopo mezzogiorno, magari dopo una serata di spettacolo in Versilia o sull’Adriatico, con il Tuttosport sottobraccio, lamentandosi sempre del fatto che il giornale dedicava un sacco di pagine alla Juve e meno al suo Torino; seduto sotto l’ombrellone, mai al sole come quasi tutte le star, ovviamente un non-nuotatore, poco a suo agio nei luoghi troppo caldi e assolati.“

A marina di Carrara l’incontro tra Gianni e mia madre, risultato: tre figli maschi”

Era però in buona compagnia, in quanto i suoi compagni di “merende” jazzisti erano poco avvezzi alla pratica dello sport, a parte il grande batterista Gil Cuppini che, calvo, portava il parrucchino e un giorno a Marina di Carrara uscì dall’acqua con i capelli in mano… Marina di Carrara: fu in quel luogo che mio padre nel 1955 incontrò mia madre sedicenne in vacanza nella città natale del mio mitico nonno Beppe.

Sul lungomare della cittadina era famoso e frequentato da tutti gli artisti in zona il Bagno Universal, che peraltro ospitava un jazz club; non era fashion comeViareggio, con la già citata Bussola a Focette, o Forte dei Marmi (gran posto La Capannina di Franceschi) ma era luogo di incontri e aperitivi tra addetti ai lavori e grandi amici dai nomi già menzionati, ai quali aggiungo il mitico bassista Giorgio Azzolini, nativo di La Spezia, a un tiro di schioppo da Marina di Carrara.

I miei si sposarono nel maggio 1956 alla Crocetta di Torino, chiesa che ha visto anche il mio battesimo (evento secondario); si narra di un viaggio di nozze in pullman in Costa Azzurra, pochi soldi e tanto amore. Gianni è stato sempre “lui”, sia a Castello d’Annone che a New York: un istrione sì ma mai sopra le righe, un po’ come il suo modo di suonare, con tutte le note al posto giusto, ma senza strafare. Amava Count Basie, perché suonava il pianoforte con garbo e faceva suonare i suoi gruppi e soprattutto le sue orchestre piano, con leggerezza.“

mi mancano le sue morbide note e la sua voce calda

Anche Gianni, con la coerenza che lo contraddistingueva, rispettava il suo strumento al pari dinoi, suoi cari, rispettava gli amici e da uomo onesto rispettava le regole disprezzando i tanti furbetti in cui si è imbattuto non solo nel mondo del jazz.

Mi mancano le sue morbide note, il suo sorriso pacato, la sua calda voce, mi mancano tanti suoi amici veri che hanno percorso tanta e tanta strada in sua compagnia: Oscar Valdambrini, Renato Sellani, Giancarlo Pillot, Fiore Magnone, che con la nostra e le loro famiglie hanno condiviso anni di splendide emozioni e avventure. Mi resta Dino Piana, suo figlio Franco, con cui condividere i ricordi di questa meravigliosa avventura che continuo a vivere attraverso le sue note. Grazie, Gianni, stai suonando ancora per noi…

Di Fulvio Tosetti

Se il rock è l’estrema giovinezza, il jazz è l’illusione della maturità.

Avvenne così che appena usciti (si fa per dire) da un’adolescenza alla quale avevano dato un senso i Pink Floyd e i Led Zeppelin, io e il mio amico Bepi cominciammo a sentirci attratti da quella musica di cui ci avevano parlato i nostri papà (il mio mi raccontava spesso di Basso, Piana e Valdambrini) e che fino a quel momento non avevamo preso in considerazione, priva com’era di chitarre elettriche distorte.

L’amore scoppiò in occasione del primo concerto al quale assistemmo, nella palestra di Rocchetta Tanaro, primi anni Ottanta. Gianni ci conquistò con le sue tre magiche “B”: be bop, blues, ballads. Iniziammo allora un percorso di alfabetizzazione jazzistica che non ci avrebbe più abbandonato. A Perugia, Umbria Jazz 2008, Gianni suonava tutte le sere all’Hotel Brufani, con il magnif ico, allora ottantaduenne, Renato Sellani al pianoforte. Il giorno dopo andai a salutarlo. Era in terrazza con la moglie Luciana e Sellani.

Fu gentile come sempre, era contento di incontrare un astigiano. Disse che in albergo lo trattavano da re. Fece un grande sorriso e concluse: “Sùn an ferie!”. Ma il ricordo più bello è una sera d’inverno quando arrivai al Bar Ligure mentre ne stavano uscendo Gianni e Dario Occhiena, suo amico, grande appassionato di jazz. Arrivavano dal ristorante ed erano belli allegri. Dario disse a Gianni: “l’è ‘l fieu del Nanni, ai pias cantè el jazz”. Finimmo a cantare insieme, sotto i portici, “My funny Valentine”.

Di Sandra Scagliotti e Fulvio Albano

In un mondo in cui tutto tende a “giocarsi in superficie”, dove non si considerano la fatica e l’esperienza, ma ben altre capacità – l’apparire, l’eccentricità, la telegenia e talvolta la più sconcertate banalità – , Gianni Basso era un’eccezione.

Lui, che non aveva nulla dell’artista tenebroso o della old star, era severo con se stesso, talvolta insicuro e spesso insoddisfatto; un uomo riservato che, sul palcoscenico, era un sapiente, formidabile “artigiano”, inflessibile nel suo tendere costantemente alla purezza, la purezza del suo sound caldo e avvolgente. Gianni ci ha lasciato una discografia sconfinata, la memoria di quelle emozioni a fior di pelle che solo il timbro morbido del suo sax sapeva dare e il ricordo indelebile del suo travolgente feeling.

Nel complesso, disponiamo di un vasto patrimonio artistico, accumulato nel corso di oltre cinquant’anni di carriera da questo artista schivo, in nome del jazz: sua Konitz, Joe Venuti, Art Farmer, Johnny Griffin, Zoot Sims, Buddy Colette... ragione di vita, sua passione indiscussa, perseguita con tenacia ferrea.

Ma ora ci mancano la voce unica, inconfondibile, del suo tenore in concerto, i brividi che ci coglievano quando attaccava I’ll be seeing you o Polka Dots and Moonbeams. Gianni Basso è stato uno degli esponenti storici più significativi del jazz italiano.

Nato ad Asti nel 1931, aveva studiato clarinetto nella città natale e si era avviato alla professione come clarinettista e tenorista in Belgio, nel 1946. In Germania e in Austria, aveva avuto l’opportunità di suonare con musicisti europei e statunitensi, fino a che nel 1950, tornato in Italia, aveva fondato insieme con Oscar Valdambrini, il prestigioso BassoValdambrini Quintet, formazione per anni capofila nazionale del jazz.

Nel corso della sua lunga e variegata carriera, segnata da un’intensa attività discografica, sia come leader sia come side-man, Gianni Basso ha collaborato con artisti fra i più rappresentativi del jazz di tutti i tempi, da Billie Holiday a Lionel Hampton, da Chet Baker a Gerry Mulligan e ancora Lee Di particolare rilievo, la militanza svolta in alcune tra le più prestigiose orchestre internazionali fra cui le big bands di Maynard Ferguson, Kenny Clarke/Francis Boland, Thad Jones, Lalo Schifrin, Frank Sinatra Jr. e Natalie Cole. Da queste fondamentali esperienze, Basso aveva tratto la passione per la grande orchestra jazz, testimoniata dalla continuità e dalla maturità artistica della Big Band che ha diretto per oltre vent’anni, oggi Torino Jazz Orchestra.

Gianni Basso ha contribuito in modo rilevante all’edificazione, alla diffusione e alla vivificazione del jazz nel nostro paese; è stato testimone di un’epoca e, nel contempo, star blasonata, quando il jazz nostrano muoveva i suoi primi passi: negli anni Cinquanta era ritenuto, a clamor di cronaca, il “tenore N.1 della scena jazzistica italiana”. La storia di Gianni Basso, una storia di talento e passione, è la storia di un “suonatore”, questo forse è il termine che più gli si addice e in cui egli più si identificava.

Seguiva la regola delle tre B

Ma la passione talvolta, “tutto può” e Gianni, come ricorda Dusko Gojkovic, «per cinquant’anni ha costantemente e instancabilmente contribuito a forgiare la storia del jazz in Italia e in Europa.

Per cinquant’anni, nel corso della sua vita ha avuto l’opportunità di stare fianco a fianco con i grandi Maestri che hanno creato e suonato il jazz. E per tutta la vita ha creato e fatto progredire il jazz. Gianni Basso è stato un vero artista». La fama di Gianni Basso non aveva confini; rammenta Stiepko Gut: «era noto e apprezzato non solo dai musicisti europei ma anche oltreoceano, fatto sorprendente per un musicista italiano, e molti grandi artisti americani ne hanno stimato il talento». Se chiedevi a Dizzie Gillespie qual era il musicista italiano più importante, ti rispondeva senza esitazione: Gianni Basso!

E non c’è da sorprendersi: come sottolinea il trombonista Dino Piana – che fu parte della storica formazione con Oscar Valdambrini –, «Gianni come musicista è stato sempre inconfondibile e questo è un privilegio, un dono che solo i grandi possono avere»… Gianni Basso riteneva che fosse importante e doveroso trasmettere, ai giovani soprattutto, tutto ciò che, nel corso della sua vita, la musica gli aveva dato: le esperienze accumulate, un certo modo di percepire il rapporto con il jazz, le potenzialità di questa musica immortale.

E, parafrasando Montrose, che affermava «finché il jazz sarà opera di un musicista jazz, ne risulterà del jazz», ribadiva perentorio: «L’unico modo per celebrare il jazz e trasmetterne l’universale messaggio è suonarlo, e suonarlo bene». Ecco perché il messaggio di Gianni Basso, rivolto ai suoi fans, agli affermatasi grazie all’instancabile opera di professionisti che l’hanno divulgata e resa nota in tutto il mondo. Come Gianni ripeteva, «Volendo sintetizzare, potremmo definire il jazz in tre termini dall’iniziale ‘B’, le ‘tre b’ del jazz: Blues, Ballad e Be-Bop, cioè, blues: la sua origine lontana ma mai dimenticata; ballad, termine che ne rappresenta la linea melodica, la vena creativa e Be-Bop, il linguaggio del jazz moderno. Il jazz è la matrice di tutta la musica contemporanea, del rock e anche del rap, che altro non sono che alterazioni della espressione più commerciale del jazz. E, mentre qualcuno oggi afferma che il jazz è tornato di moda, a me piace pensare che, in realtà, non sia mai passato di moda; credo che non vi sia nulla di meno soggetto alle mode del jazz, quello autentico.

Le convinzioni di Gianni Basso “a proposito del jazz”, lo portavano a perorare instancabilmente la causa della “vera essenza del jazz”: «Occorre oggi ridare un’identità alle musiche, o meglio, ritrovare il jazz autentico; il jazz ha precise connotazioni – affermava –, a cominciare dalla composizione, e poi dall’esecuzione, dall’interpretazione. Una sorta di allegra irresponsabilità, segnata da intenti puramente commerciali, ha contribuito a creare confusione e disinformazione, e ciò ha mutato i paradigmi sonori, annullando la centralità del percorso musicale. Laddove, un tempo, suonavano diciotto elementi, troviamo ora una scheda elettronica; è così che la gente è stata disabituata all’ascolto. Non è possibile fare jazz al computer. Il jazz è un idioma. We don’t play jazz, we speak jazz!... I jazzisti, quelli autentici, non suonano jazz, ma parlano jazz. Ogni brano può essere jazz o non esserlo. Per capire se lo è o no – come dice il mio amico Dusko Goykovitch – occorre valutare una serie di piccoli coefficienti, in tutto cinque o sei “ingredienti” che fanno la differenza.

Il timing, il sound, la scelta armonica, l’interpretazione, l’improvvisazione. Se si dimentica uno o due di questi ingredienti, non avremo jazz ma qualcos’altro. E tutti questi coefficienti devono essere compresenti». Gianni Basso era convinto che «il jazz deve essere suonato con il cuore e nel modo in cui si sa interpretare ciò che si sente nel profondo dell’animo. Questo è il jazz: è come quando parli e parli chiaro, quando dici parole semplici. Il jazz è trasparente, immediato. È l’espressione di ciò che si pensa e ciò che si è.

Come in un discorso chiaro, dove non v’è bisogno di fiumi di parole, nel jazz non occorre un fiume di note. E ognuno può ascoltare e capire facilmente, se vi è sincerità e semplicità di linguaggio. Per questo non è facile essere un buon jazzista. Magari si possono avere capacità e, pur tuttavia, mancare di quel qualcosa dentro di sé necessario a esprimere la propria personalità. Puoi suonare molto bene, ma non avere alcun talento per il jazz. Il jazz lo vivi. È armonia, cuore, e swing. Il suo progredire dipende dalla mente e dal sentimento di veri artisti, non certo dai suoi ritorni commerciali; solo su queste basi il patrimonio del jazz potrà essere preservato e diffuso e il “nuovo” potrà ancora nascere.

Continuando a diffondere le esperienze accumulate e tesaurizzate, continuando a offrire questa straordinaria musica, suonandola e creandola dal vivo, si potrà rinnovare e innovare. Il jazz morirà solo quando non ci sarà più swing, né cuore e melodia – così diceva il mio amico Dizzy Gillespie, uno dei veri pionieri del bop. Il jazz per lui era sinonimo di comunicazione, dialogo costante, incontro con il pubblico». E ancora, a proposito della condivisione e della dimensione collettiva di questa musica, ribadiva: «Un conto è suonare per guadagnare – nel mondo del jazz si dice “this guy plays money” – un altro è suonare perché quella è la tua via, il fine da perseguire, e questo significa condivisione delle tue emozioni, condivisione con il pubblico e, ancor prima, con gli altri musicisti. Suonando, devi colloquiare con gli altri, devi, in un certo senso, annullare il tuo ego, cioè, non ‘io’ ma ‘noi’. E prima di tutto viene il tuo strumento, poi i compagni che con te suonano e il pubblico, infine ci sei tu. La dimensione collettiva è un elemento molto importante: questa è l’essenza del jazz. Il jazz è un fenomeno artistico collettivo: i grandi artisti sono nati, e si sono elevati spontaneamente, in seno a una comunità che condivideva un linguaggio in continua innovazione e si sperimentava a diretto contatto con il pubblico. La visione del jazz secondo Gianni Basso, sembra ribadire questa suggestione. Partito dalla provincia astigiana, Gianni Basso ha lottato, sax alla mano, per rendere il jazz universale. La sua perizia è quella che riconosciamo ai grandi: un suono personale e una voce di sax tenore unica, immediatamente riconoscibile. Un dono che lo ha imposto agli onori del mondo e lo portato ad affiancarsi a maestri assoluti del jazz e, nondimeno, a giovani di talento che ha lanciato alla professione.

Di piero Angela

“La storia di Gianni Basso è, in sostanza, una bellissima storia d’amore con il jazz. Una storia iniziata negli anni del dopoguerra, in un momento in cui era difficile, anzi quasi impossibile guadagnarsi da vivere suonando solo in questo modo: un momento in cui i veri amatori erano pochi, e formavano comunità catacombali, solitamente squattrinate…

Basso era un uomo schivo, privo di quegli atteggiamenti”colorati” e stravaganti, tipici di chi sulla scena cerca l’applauso. Anche la sua musica è così: elegante, piena di sfumature, magica. Non ha bisogno di strilli e di acuti, quello che esce da suo sax tenore ti avvolge, ti entra dentro, come un flusso impalpabile dove tutte e note sono “giuste”.