L’astigiano Manlio Graziano insegna geopolitica e geopolitica delle religioni alla Sorbona e all’American Graduate School a Parigi, città dove vive stabilmente dal 1999.
Tiene corsi anche in Svizzera al Geneva Institute of Geopolitic Studies e alla Sapienza di Roma. Dal 2006 collabora con la rivista di geopolitica Limes, diretta da Lucio Caracciolo, e dal 2015 con Il Corriere della sera. Attento studioso della politica americana, ha pubblicato nel 2018 per il Mulino L’isola al centro del mondo. Una geopolitica degli Stati Uniti. In primavera, è prevista l’uscita, sempre per Il Mulino, del suo ultimo libro, Geopolitica. Orientarsi nel grande disordine internazionale.
Negli Stati Uniti, ha pubblicato con Palgrave-MacMillan, Columbia University Press e Stanford University Press.
Professore, da italiano ed esperto di geopolitica, come vive questa stagione di continue tensioni diplomatiche tra Italia e Francia?
«“Da italiano”, non mi sono neppure posto il problema: da quando vivo in Francia, non c’è mai stato un solo momento in cui mi sono sentito diverso dagli altri, cioè da quella massa composita che vive in questo paese e che si usa raccogliere sotto la categoria “francesi”.
Certo, loro hanno subito condizionamenti in parte diversi da quelli che ho subito io: per esempio, sono generalmente costernati (e forse anche un po’ offesi) quando ricordo loro che, durante la Seconda guerra mondiale, la Francia è stata alleata della Germania più a lungo dell’Italia; ma è la stessa reazione che scateno quando, in Italia, ricordo che Manlio Graziano, ad Asti durante una conferenza al Festival Passepartout edizione 2010 l’unificazione non l’hanno fatta Garibaldi e Vittorio Emanuele, ma gli inglesi.
Il primo dovere del geopolitico è stare sulle barricate contro i pregiudizi, e purtroppo i pregiudizi sono assai diffusi. Dal punto di vista geopolitico, la querelle tra Italia e Francia si presta ad analisi interessanti (anche se, in verità, succedono cose assai più importanti nel mondo). È in corso almeno dal 2015 un tentativo di alcuni paesi dell’Unione europea di sfidare il duopolio franco-tedesco, cercando sponde altrove.
Lo scopo è essenzialmente di accrescere il loro potere negoziale all’interno dell’UE; nessuno di loro ha interesse ad abbandonare l’UE, che è la gallina dalle uova d’oro, ma tutti vorrebbero un po’ più uova d’oro. Gli italiani attaccano con più virulenza la Francia perché l’ostentata amicizia tra Macron e Merkel (che ha carattere strategico, non personale) è per loro un grosso problema: ogni volta che Parigi e Berlino sono in sintonia, i margini di manovra per l’Italia (come per gli altri, d’altronde) si riducono. Il governo attuale di Roma vorrebbe poter liberamente distribuire a pioggia soldi che non ha per poi riscuotere sul banco elettorale; tanto, poi, Berlino paga. Ma siccome non è affatto detto che i tedeschi vogliano continuare a pagare per i cocci degli altri, allora attaccare la Francia per mettere in crisi il duopolio è una sorta di controassicurazione preventiva, perché la Francia è molto più vulnerabile della Germania, ovviamente».
Al di là dell’attualità, ci aiuta a inquadrare i rapporti Italia- Francia in un arco temporale più vasto? Dalla fine della Prima guerra mondiale a oggi quali fratture diplomatiche possono avvicinarsi per paragone al momento attuale?
«Il rapporto storico con la Francia è strutturalmente ambiguo: il Regno di Sardegna si è espanso con la “politica del carciofo”, schierandosi ora con la Francia contro l’Austria per ottenere qualcosa da Parigi, ora con l’Austria contro la Francia per ottenere qualcosa da Vienna.
L’Italia si è unificata dopo un accordo con la Francia, e grazie anche all’intervento armato della Francia contro l’Austria, per poi passare di nuovo dalla parte dell’Austria (e della Germania) nel 1882, con la Triplice Alleanza, e ripassare dalla parte della Francia nel 1915. Solo per tornare nel girone della Germania contro la Francia nella seconda metà degli anni 1930, e poi di nuovo con la Francia (gollista) contro la Germania dopo l’armistizio del 1943. Insomma, esiste tutto un armamentario polemico ready-made contro la Francia – contro le pretese sorellanze e cuginanze (e «altrettali parentele bastarde») denunciate da Mussolini – che si può riattivare a piacimento, o quasi.
Certo, la Francia ci mette del suo. Il tentativo di bloccare l’acquisto dei cantieri navali di Saint-Nazaire da parte di Fincantieri non ha certo messo in buona luce i francesi agli occhi degli italiani. Come pure l’atteggiamento ipocrita sugli immigrati, che Parigi respinge esattamente come Roma, ma senza i chiassosi vaniloqui sulla fine della “pacchia”. Non escludo che in Italia c’entri anche una sorta di invidia rancorosa popolare maturata l’estate scorsa quando la Francia ha vinto un campionato del mondo di calcio al quale l’Italia non si era nemmeno qualificata».
Quali sviluppi intravede per le relazioni italo-francesi e quali conseguenze sul fronte internazionale?
«Oggi, il 90% delle campagne politiche ha finalità esclusivamente elettorali. Credo che ciascuna delle parti in causa voglia solo strappare qualche percentuale in più alle elezioni europee di maggio, e dunque come andrà a finire dipende dal risultato di quelle elezioni. Certo è che, dal punto di vista internazionale, tutti coloro che hanno l’obiettivo di indebolire l’Europa approfittano del minimo screzio interno; la Brexit li manda in sollucchero, ma anche questa rissa da ballatoio può tornar loro utile. È un gioco estremamente pericoloso, però; infatti, se l’Europa andasse in crisi, l’Italia sarebbe certamente tra quelli che pagano il prezzo più alto: non solo per la spaventosa crisi economica che ne deriverebbe, ma anche per la pressoché inevitabile frattura tra un Nord risucchiato nell’area germanica e un Sud affondato nel Mediterraneo».
Facciamo un passo indietro e torniamo alla sua prima casa: Asti, dove è nato nel 1958. Ci racconta qualcosa della sua famiglia, della sua infanzia, dei suoi primi studi.
«Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia “mista”, di profughi di guerra venuti dalla Toscana da una parte e di contadini locali inurbati da più generazioni dall’altra.
E siccome in casa mia comandava mia nonna, ho ricevuto un’educazione più toscana che piemontese. Non ho ricordi molto vividi della mia infanzia, se non quelli di una timidezza patologica. Quando voglio saperne qualcosa di più, mi rivolgo a una delle tre persone con cui ho condiviso tutta l’esperienza scolastica, dalla prima elementare alla terza liceo classico. È il mio archivio vivente.
Quanto agli studi, è abbastanza semplice: da quando ho cominciato a prendere delle decisioni, ho studiato solo quello che mi interessava, tralasciando il resto. Quasi sempre, quando si prendono decisioni da adolescenti, si ha la presunzione di credere che siano giuste, anzi, le sole giuste possibili, Manlio Graziano, alle elementari e al liceo e il mio caso non fa eccezione.
Però devo dire che al Classico, soprattutto gli ultimi anni, io e i miei compagni ci siamo divertiti come matti: a volte, uscivo da scuola con i crampi da quanto avevamo riso. Certo, non era un comportamento serio; ma un adolescente serio è inquietante. Almeno noi ridevamo, senza (quasi mai) fare del male a nessuno (a dire il vero una volta scardinammo la porta della classe e la supplente, entrando, se la tirò addosso, esattamente come avevamo previsto; ma non ci furono feriti).
C’era, nell’altra sezione, un paio di talenti magistrali che faceva circolare un giornalino a fumetti disegnato da loro, in copia unica che era assolutamente geniale: si prendevano gioco di tutto e di tutti nel liceo, e facevano esercizi di stile che avrebbero fatto la gioia di Queneau ed Eco; come, per esempio, tradurre in greco antico, molto personalizzato, «Crapa pelada fa i turtei». A loro, si sarebbe dovuto dare il premio Nobel per la letteratura, altro che Dario Fo! Quando ho cominciato a mia volta a insegnare al liceo a Torino ho sempre individuato gli studenti più intelligenti da come sapevano ridere; e meno erano seri, e più mi piacevano».
Un aneddoto che disvela il suo rapporto con la città: un’amicizia, un angolo, un profumo…
«Il mio rapporto con Asti è molto condizionato dalla politica. Come dico spesso ai miei studenti qui in Francia, io sono come Obélix: sono caduto nella pentola (della politica) quando ero piccolo. Con uno dei miei amici litigavamo sulle elezioni americane del 1972, lui per il repubblicano conservatore Nixon e io per il democratico progressista McGovern… Ora so che avevamo torto tutti e due, e che io avevo molto più torto di lui. Ma eravamo ragazzi, poco più che bambini…
Chi proprio non riesco ad assolvere sono quelli che continuano da adulti a ragionare come io e il mio amico ragionavamo da bambini. Angoli, momenti e profumi, sono legati alla mia prima “cotta”, e quindi anche in questo caso non credo che ci sia niente da dire che tutti già non sappiano e non abbiano sperimentato. Salvo che io, prigioniero della mia timidezza, ero così impacciato che fu lei – tredicenne – a prendere l’iniziativa. Invidiavo enormemente quel mio amico che oggi mi fa da archivio vivente, perché lui era bello, intelligente, sportivo e soprattutto spavaldo, e tutte le ragazzine gli cascavano ai piedi. Io, invece, stavo a casa a scrivere poesie».
Come si sente quando torna ad Asti?
Più o meno sempre la stessa sensazione. Qui ho parte della mia famiglia, molti amici, compagni di scuola e li vedo sempre molto volentieri. Ma in regola generale evito sempre – non solo nel caso della mia città natale – di guardare troppo all’indietro, perché è per me una condizione necessaria (anche se non sufficiente) per non… per non finire nel novero di coloro che, da un momento all’altro, scoprono che, in fondo, si stava meglio quando si stava peggio. Sono venuto via da Asti quando avevo 22 anni, ho fatto diversi mestieri in giro per il mondo (il mio primo lavoro retribuito dopo la laurea consisteva nel lavare le scale di alcuni palazzi di Livorno la notte), tra Francia, Italia, Stati Uniti e Cina, e per di più mi sono messo ad adorare la vita anonima e intensa delle grandi città. Per i miei criteri attuali, Parigi è una città media, per certi versi persino provinciale. Ma è talmente bella che a volte, vent’anni dopo, mi trovo a esserne ancora meravigliato, come se fossi qui perché ho vinto un premio…».
Torniamo ai suoi studi. Lei si è laureato a Torino, poi com’è nata la passione per la geopolitica?
«La laurea in letteratura francese appartiene a una delle mie nove vite; ma la passione per la letteratura non mi ha mai abbandonato, e credo che una delle ragioni per cui i miei testi di geopolitica riscuotono qualche modesto successo in giro per il mondo dipenda proprio dalla mia imbottitura letteraria.
Non c’è un momento in cui “è nata” la passione per la geopolitica. Sono caduto nella pentola da piccolo, dicevo, e la geopolitica mi ha “semplicemente” permesso di mettere ordine nelle cose, e di capire, tra l’altro, perché avevo torto a tifare per McGovern nel 1972. Torto marcio. La geopolitica permette di orientarsi nella politica e di capirla: in che modo, è quello che ho cercato di spiegare nel mio ultimo libro, di prossima uscita».
Chiesa cattolica e Stati Uniti sono due temi molto presenti nei suoi libri, ne ha studiato gli intrecci e le relazioni. Nelle sue ricerche ha certamente incrociato la figura di un astigiano illustre, il cardinal Angelo Sodano, segretario di Stato dal 1991 al 2006. Quanto è stata rilevante la figura di Sodano nello scacchiere internazionale?
«Sodano è stato “primo ministro” della Chiesa cattolica per quindici anni, e quindi è stato per forza una figura di grande rilievo. Ha preso il posto di uno dei più importanti Segretari di Stato del XX secolo, Agostino Casaroli, e questo lo ha messo un po’ nell’ombra; anche perché Casaroli osava tener testa a Wojtyła, mentre Sodano era certamente più allineato, e quindi meno perspicuo.
Sodano ha accompagnato una fase di particolare dinamismo internazionale della Chiesa, durante la quale, per esempio, la Santa Sede ha stretto rapporti diplomatici con quasi tutti i paesi del mondo.
Un cardinale molto politico per un pontificato molto politico. Un aneddoto personale: nel 2004, a New York, frequentavo un corso di lingua inglese assieme a vari gruppi di immigrati, tra cui delle suore sudamericane di un convento che, scoprii, si trovava a due isolati da dove stavo io, a Williamsburg, Brooklyn. Allorché seppero che mio padre era stato collega di Sodano quando questi insegnava religione in un paesino della provincia di Asti, mi invitarono regolarmente come ospite d’onore ai loro breakfast domenicali, benché fossi decisamente al di sotto dei loro standard in materia di fede. Ero quasi parte della famiglia, insomma. Ma, parlando di astigiani illustri che hanno fatto carriera nella Chiesa, non dimentichiamo che i genitori di Bergoglio venivano proprio dalle colline di Portacomaro, paese di cui è originario il ramo astigiano della mia famiglia. Chissà come mi tratterebbero oggi le suorine di Brooklyn sapendo che sono sicuramente un cugino alla lontana del papa!».
Nel suo libro sugli Stati Uniti lei analizza il sogno di Trump di riportare l’America ai grandi splendori e ne dà un giudizio molto critico. Perché gli Usa sarebbero destinati al declino?
«In realtà io dò un giudizio molto critico di tutti coloro che pensano di poter resuscitare il passato, perché è la strada più diretta per preparare grandi disastri per l’avvenire. Non è un “sogno”, ma un incubo. Gli Stati Uniti non sono destinati al declino – anche se Donald Trump ce la sta mettendo tutta – ma sono certamente destinati a proseguire nel loro declino relativo, che è in corso dagli inizi degli anni 1950. Distinguere tra “declino” e “declino relativo” è capitale.
Il declino relativo dipende molto più dagli altri che da sé. Mettiamo che il potere mondiale sia una torta; gli Stati Uniti, una volta, ne mangiavano quasi metà e poi, conil tempo, alcuni commensali hanno cominciato a tagliarsi fette sempre più grandi e, più recentemente, altri commensali si sono aggiunti. La torta, nel frattempo, è diventata molto più grande, ma la fetta degli Stati Uniti sempre più sottile: tradotto in termini politici, questo significa che le opzioni americane sono molto più limitate, perché la concorrenza è più nutrita, e il suo peso relativo è molto più prossimo a quello americano. In queste condizioni, pensare di tornare a essere great again significa essenzialmente non aver capito che siamo in un mondo completamente diverso, e che le strategie per adattarsi al mondo di oggi devono essere anch’esse completamente diverse».
Muri d’acqua, muri di cemento armato e filo spinato, dal Mediterraneo al Messico. Nell’era della globalizzazione economica si fa sempre più forte la spinta al sovranismo e tornano d’attualità le frontiere. Come ne usciamo?
«Non ne ho idea. I presupposti, però, non incitano all’ottimismo. Coloro che sono nella stanza dei bottoni hanno un solo scopo: restarci. Tutto il resto sembra – salvo alcune lodevoli eccezioni – non interessarli. Battono sui tasti elettoralmente vincenti – sicurezza, immigrazione, terrorismo – quando i livelli di criminalità non sono mai stati così bassi, i redditi medi disponibili mai così alti e la demografia mai così declinante.
E le vittime del terrorismo, statisticamente, sono una piccola frazione delle vittime della violenza domestica (nel 2016, ultimo dato disponibile, in Italia sono state uccise dal partner 106 donne, e nessuno è stato ucciso dai terroristi), ma siccome la violenza domestica non paga elettoralmente, la si ignora. Il referendum sull’appartenenza all’Unione europea è stato proposto ai britannici esclusivamente per motivi elettorali, e ora il paese che aveva le migliori performance economiche in Europa avrebbe le peggiori se non ci fosse l’Italia: e le sue prospettive sono disastrose».
Geopolitica. Quali scenari prefigura il suo ultimo libro che vedrà le stampe a breve?
«Lo scenario è quello di cui sopra. Tra coloro che sono in politica, sono rimasti in pochi a ragionare in termini di interesse generale; e questi pochi lo fanno a loro rischio e pericolo perché gli elettori ragionano in termini di interessi particolari. La tendenza dominante, tra chi si occupa di politica, è quindi quella di promettere di soddisfare tutti gli interessi particolari. Il che è ovviamente impossibile.
La geopolitica serve a capire come va il mondo, ma non offre ricette per cambiarlo. E chi fa politica, se si servisse delle analisi geopolitiche, f inirebbe certamente per perdere le elezioni. Resta il fatto che capire è sempre meglio che pensare come tutti gli altri per spirito gregario; e che solo capendo si può fare qualcosa di utile e di positivo. Per questo il lavoro che faccio mi appassiona».