Si lascia il meridione rurale e arretrato nel triangolo industriale c’è chi sceglie Asti
C’è un periodo della storia astigiana che dovrebbe offrire spunti di riflessione sulle migrazioni del nostro tormentato presente. Tra il 1950 e il 1971, si calcola siano stati oltre nove milioni gli italiani coinvolti in migrazioni. I principali movimenti furono dal Veneto e in particolare dal Polesine alluvionato verso ovest e dal sud verso il nord, con le popolazioni del Meridione rurale che cercavano di sfuggire a una vita di stenti, attirati dal boom economico industriale di quegli anni. Il nord industrializzato, in particolare il triangolo fra Torino, Milano e Genova, era la meta di quei treni “del sole” da cui scendevano gli immigrati con le loro valige di cartone. Il fenomeno a Torino fu tumultuoso e non mancò di creare scompensi e tensioni. Se tanti sceglievano di trasferirsi sotto la Mole, non furono pochi quelli che preferirono scendere alla stazione precedente. Asti fu scelta come nuova casa in particolare da siciliani, campani, calabresi, lucani. Già in quegli anni la scelta del luogo dove emigrare era dettata dai contatti con chi c’era già, magari arrivato pochi mesi prima. Una catena di conoscenze familiari e di paese che portò in poco tempo una comunità a scegliere Asti: quella proveniente da Milena, un piccolo centro dell’entroterra siciliano. Nel corso del tempo, la comunità milocchese – Milocca era l’antico nome del paesino nisseno – crebbe fino a diventare la prima comunità di immigrati dell’Astigiano. Una storia di integrazione dall’esito felice, ma come ebbe inizio tutto quanto? Asti era uscita dalla guerra con una popolazione di 52mila abitanti (sugli andamenti demografici vedi il numero 4 di Astigiani). Per alcuni anni questa soglia rimase stabile. Poi, dal 1954, i residenti di Asti iniziarono a crescere. Molti abbandonavano le campagne, altri arrivavano dalle zone più povere del Veneto. Nel 1960, la popolazione di Asti aveva raggiunto i 59mila abitanti. Gli anni seguenti videro la massiccia ondata migratoria dal Sud, soprattutto dalle province di Caltanissetta e Salerno. I residenti in città erano 67mila nel 1964, dieci anni dopo diventarono 80mila, un record non più raggiunto. In seguito la curva demografica prese a scendere, ma il trentennio 1950-1980 colpisce ancora oggi per i numeri dell’immigrazione ad Asti. In alcuni anni, la popolazione crebbe anche di 2500 persone. Ma che cosa si lasciava alle spalle questa gente? Quando nel 1928 la giovane antropologa americana Charlotte Gower Chapman arrivò a Milocca, non potè qualificarla come una tipica comunità siciliana: era molto più piccola della media, più isolata, disseminata di gruppi abitativi sparsi (le robbe), anziché essere composta da un unico denso raggruppamento di case. La strada asfaltata più vicina distava un’ora di cammino, mentre la più prossima stazione ferroviaria, quella di Campofranco, si trovava a oltre due ore di marcia. Di conseguenza, rispetto ai centri vicini più urbanizzati, i milocchesi erano materialmente più disagiati. Ogni famiglia produceva i propri beni di consumo e il commercio era ridotto ai beni essenziali. Le stagioni guidavano il ciclo delle semine e della vita.
Un piccolo centro nel cuore della Sicilia raccontato anche da Pirandello e Sciascia
Proprio questa fama di arretratezza funse da ispirazione per i due più celebri letterati siciliani del Novecento. Pirandello ambientò a Milena due delle sue Novelle per un anno: Le sorprese della scienza e Acqua e lì. Nella prima si racconta di come gli amministratori del paese, indecisi sul tipo di illuminazione pubblica da installare per le strade, e per il timore di non rimanere al passo con la scienza, decidano di lasciare tutti al buio. Nella seconda, il medico di Milocca, persa tutta la propria clientela a favore di un guaritore ciarlatano, viene convinto da un collega a evitare i farmaci, ma a usare un po’ d’acqua colorata, dal sicuro effetto placebo: puntualmente tutti i milocchesi ritornano da lui, e sono convinti che quella medicina colorata li faccia guarire. Sciascia in Occhio di capra per due volte fece riferimento a Milocca. La prima in Abbrusciatu vivu comu a Caleddru, dove lo scrittore enfatizzava le particolarità del dialetto del paese. Poi, in Milucchisi, ricordò che proprio questo era il modo in cui a Racalmuto continuavano a chiamare, in senso evidentemente spregiativo, gli abitanti di Milena. La conformazione del territorio da una parte e le citazioni letterarie dall’altra avevano contribuito ad alimentare lo stereotipo della Milena sperduta e arretrata. Durante gli anni del regime fascista, e a causa delle politiche di forte limitazione ai movimenti migratori imposti da Mussolini, pochi milocchesi riuscirono a lasciare il paese. Di questi, la maggioranza tentò di raggiungere la Francia. Non a caso, Aix Les Bains, in Provenza, diventerà insieme alla svizzera Basilea la città con la più grande comunità di milocchesi dopo quella astigiana. La difficile situazione economica dell’Italia del secondo dopoguerra era particolarmente insostenibile nelle zone più arretrate del Sud. Milena non fa eccezione. Il desiderio di emigrare diventa un obbligo. Dal 1950 al 1985, all’Ufficio anagrafico del comune di Milena sono state registrate complessivamente 5830 emigrazioni ufficiali e 2876 immigrazioni, con un saldo negativo di 2954 unità. Quindi, per ogni due partiti, uno solo arriva. La grande maggioranza, pari al 62,7%, rimase “in continente”, il 24,1% espatriò all’estero, il restante 13,2% si trasferì all’interno dell’isola.
Per due che partono, solo uno tornerà indietro. Si cerca di raggiungere un parente o amico
Se è vero che la maggior parte dei milocchesi emigrati ha scelto l’Italia continentale, va precisato che quasi tutti vanno nel triangolo industriale, dove maggiori sono le opportunità di un impiego non qualificato, ideale per una forza lavoro di origine contadina, spesso con al seguito una famiglia molto numerosa. Al contrario, l’emigrazione verso il centro-sud dell’Italia continentale ha interessato in prevalenza il ceto burocratico-impiegatizio che, quando ha potuto, è poi ritornato a Milena. Lo spostamento al nord, legato al “miracolo economico”, per chi partiva da un piccolo paese, dove i rapporti di parentela e vicinato erano molto forti, si è concretizzato con la consuetudine della “chiamata” tra amici e parenti. Gli emigrati hanno costituito comunità più o meno grandi in determinate località, dove per primo si era recato un parente o un amico. Il Piemonte è stato scelto molto di più della ricca Lombardia dai milocchesi con la valigia. Per più di tre quarti dei milocchesi, emigrare in Piemonte ha significato venire in provincia di Asti e, tra questi, nel 65,8% dei casi, arrivare direttamente nel capoluogo. Probabilmente questo afflusso così massiccio, oltre che con il radicarsi delle famiglie che via via ne chiamavano altre, si spiega con il ritardo con cui, negli Anni ’60, ebbe a consolidarsi il processo di industrializzazione ad Asti. I milocchesi, soprattutto nei primi anni, sceglievano come meta zone di campagna. I primi arrivati, in un periodo collocabile tra il 1954 e il 1960, lavoravano spesso in cascine con contratto di mezzadria, oppure facevano i manovali nell’edilizia. Le interviste raccolte da Giuseppe Virciglio nel suo bel saggio Milocca al Nord (Franco Angeli), indicano che fu Antonio Cannella il primo milocchese arrivato nell’Astigiano. Lo seguì, qualche mese dopo, Carmelo Ingrasci, insieme a due fratelli di Cannella. Tutti cognomi che ormai in città e provincia sono comuni e diffusi (vedi scheda). Il loro viaggio verso Asti non era stato diretto, ma aveva toccato prima la Francia, meta nei sogni di molti. Per arrivarci, si attraversavano le Alpi in notturna, pagando cinquemila lire a una guida “passeur”. Una pratica che non può non riportare alla mente i viaggi dei profughi di oggi verso l’Europa e che è stata immortalata dal film Il cammino della speranza di Pietro Germi, con Raf Vallone. Chi allora riusciva a entrare in Provenza o in Savoia, ci viveva come clandestino. Pratica non apprezzata dai francesi, che rimpatriavano con foglio di via gli italiani pizzicati senza permesso di lavoro. Alcuni milocchesi avevano così rinunciato a trasferirsi in Francia e, date le spalle alle Alpi, erano tornati sui loro passi. Antonio e Salvatore Cannella furono dunque i primi a stanziarsi a Castiglione Tinella. Loro e i primi milocchesi a raggiungerli si davano da fare nelle campagne, lavorando tra orti e mercati. Sempre Giuseppe Virciglio riporta che nell’agosto 1950 il primo a lavorare in un’azienda astigiana fu Carmelo Ingrasci, primo di nove figli di una famiglia contadina. A quanto pare, l’assunzione dalla ditta di materiali edili Fava & Scarzella fu facilitata dai suoi modi educati e dal fatto che i suoi tratti somatici non apparissero “troppo meridionali”. Ma nei primi anni Cinquanta sono ancora pochi quelli che trovano un impiego in città: chi aveva questo obiettivo finiva spesso occupato nell’edilizia che era in piena crescita speculativa. Erano i primi anni da astigiani per questi siciliani, i cui figli avevano non poche difficoltà di integrazione anche a scuola, ma già allora si gettavano le basi per vicende familiari che dureranno generazioni.
Per dormire ci sono rifugi di fortuna ricavati dentro garage o ex negozi sfitti
È il caso di Antonio Cannella, che raccontò di essersi spacciato per esperto piastrellista, riuscendo a ottenere in appalto i lavori in un intero palazzo. Tra varie vicissitudini, fu in questo modo che iniziò la sua carriera di imprenditore edile. Altri milocchesi scelsero Asti dopo averla conosciuta attraverso l’esercito, come militari di leva. Come Gioacchino Ferlisi, che aveva fatto il militare prima a Casale, poi ad Asti. Fu qui che decise di trasferirsi negli Anni ’50, lavorando per Sisa, IB-mei e altre aziende per poi aprire con la moglie un negozio di frutta e verdura in via Aliberti. I primi alloggi erano rifugi di fortuna, dove si aggregavano tutti i compaesani: una ex tabaccheria in corso Savona, due garage contigui in via Radicati. In seguito, alcuni milocchesi trovarono posto in una pensione in via XX Settembre, per poi spostarsi in altre case vuote del centro storico, progressivamente abbandonate dopo l’alluvione del 1948, che le aveva rese umide e fatiscenti. Erano costituite da una o più camere, con servizi esterni in comune alle estremità dei ballatoi. Il riscaldamento degli alloggi era precario, gli spazi spesso privi di qualsiasi comfort. Le famiglie crescevano con donne e bambini fatti arrivare in un secondo momento e che dovevano accontentarsi di soluzioni molto precarie. Oltre al centro storico, luoghi tipici di destinazione furono San Marzanotto e i Molini di Isola. Due località, queste ultime, a ridosso della città, in direzione sud, all’interno di case spesso pericolanti o in parti di cascine subaffittate. Altre famiglie si stabilirono in cascine a mezzadria, situate per lo più sul territorio dei comuni di Costigliole, Isola d’Asti, Montaldo Scarampi, Mombercelli e Cocconato.
I primi milocchesi in fabbrica, ma resta diffidenza verso i “terroni”
Tra le mura o fuori, in campagna, la maggior parte di loro sapeva di dover evitare il “Casermone”, luogo da subito percepito come fonte di ulteriore ghettizzazione. Soprattutto all’inizio si verificavano situazioni di coabitazione tra immigrati, stimolate dal senso di solidarietà e accoglienza dei paesani. Eppure, proprio queste coabitazioni forzate erano criticate dai piemontesi che le consideravano tra le usanze “selvagge” dei “terroni”. Non mancarono difficoltà di rapporti tra nuovi arrivati e vecchi abitanti, ma anche confortanti esempi di accoglienza. Si ricorda una vecchia milocchese che, interrogata su come fosse il dialetto piemontese, sicura rispose: «È semplice. Basta togliere le ultime due lettere all’italiano. Un lit de lat…». Tra il 1961 e il 1964 crebbe l’ondata migratoria di milocchesi ad Asti. Aumentarono gli occupati da Fava & Scarzella e alla fornace Merlino di Isola d’Asti. Moltissimi furono i lavoratori stagionali alla Saclà, mentre qualcuno veniva assunto alla vetreria Avir, alla Way Assauto e alla Fiat. Qualcuno iniziò a lavorare alla Sisa, azienda di cartoni ondulati. Al processo di integrazione contribuì anche l’attività sindacale che vide molti operai del Sud impegnati al fianco dei colleghi piemontesi. Tanti hanno lentamente migliorato le proprie condizioni di vita, ma si è trattato di un percorso faticoso. Chi giungeva ad Asti, spesso non aveva nulla.
Le difficoltà del parlare italiano e del dialetto piemontese
Ma c’era chi si dedicava alla crescente comunità di immigrati. Nel borgo San Paolo, il parroco don Giulio Martinetto, in collegamento con padre Taffaro parroco a Milena, aiutava offrendo beni di prima necessità, compresi i materassi per una prima sistemazione. Il parroco aveva a disposizione anche un alloggio nei pressi della chiesa, in vicolo Cavalleri. Quando don Martinetto scomparve, lasciò la somma di un milione di lire alla comunità milocchese per continuare ad aiutare chi arrivava. A lui, nel 1993, è stato dedicato un circolo culturale, aperto in via Cavour. A partire dai primi anni Sessanta, alcune famiglie milocchesi si trasferirono nei nuovi quartieri sorti in periferia. Grazie alle assegnazioni dell’Istituto case popolari, andarono ad abitare alla Torretta proprio i primi milocchesi arrivati ad Asti.
Il bar Sorriso a San Rocco e il bar Milena diventano luoghi abituali di ritrovo
Ma slegarsi dalle relazioni intrecciate con i compaesani negli alloggi del centro storico per molti costituì un trauma: alcuni dissero che era come “iri à l’infirnu”, andare all’inferno. Mancavano i collegamenti con il centro e molti servizi comuni, ma il fascino di una casa nuova era tale che molti traslocavano mentre il cantiere del palazzo non era ancora concluso. In seguito altre famiglie si spostarono in altre zone popolari: al Villaggio San Fedele, a Praia, nel recinto San Quirico. Non furono pochi quelli che invece scelsero di restare nel centro storico. Alcuni dopo anni diventarono proprietari degli alloggi dove si erano stabiliti. Si trattava, spesso, di una scelta dettata dalla volontà di restare vicino ai genitori anziani, che abitavano ancora nel cuore del centro storico. Nel corso degli anni, alcuni luoghi diventarono punti abituali di incontro per gli immigrati. Si ricorda il bar Sorriso a San Rocco, o il bar Milena in via Garetti. Nacque anche il Circolo Milena, che si occupa – come si leggeva sulla tessera – di prestare “assistenza morale e culturale ai soci”. Nel frattempo emerse la necessità di una rappresentanza nelle istituzioni. I milocchesi erano anche un ottimo bacino elettorale e facevano gola ai partiti. Alcune figure diventarono riferimento per la comunità in campo democristiano e comunista. Gli Ingrasci, racconta Virciglio nel suo libro, avevano trovato casa in corso Savona in un alloggio di proprietà di Stefano Sappa, impiegato democristiano dell’Inps, consigliere comunale negli anni Novanta. Fu anche grazie a rapporti di questo tipo, nati quasi per caso, che emersero figure come quella di Salvatore Ingrasci – ex pugile dilettante e combattivo presidente del Movimento a difesa dei diritti del consumatore –, diventato una figura di spicco della Dc, dal suo posto di lavoro nella portineria della Camera di commercio. E se Asti ha aiutato i milocchesi, accogliendo chi tra loro cercava un futuro migliore, il paese di Milena ha avuto l’occasione per sdebitarsi.
L’aiuto dei milocchesi durante l’alluvione del 1994
È successo proprio quando Asti stava attraversando uno dei suoi momenti più neri. Dopo l’alluvione del 1994 (vedi Astigiani 10, p. 6) i cittadini di Milena raccolsero fondi per aiutare la popolazione di Asti e i loro compaesani in città. Furono destinati 7 milioni di lire, una parte per le famiglie di origine milocchese più bisognose, il resto al Comune di Asti. Segno di un patto tacito, attraverso il quale i cittadini di Milena riconoscevano quanto Asti avesse fatto in termini di accoglienza per loro. Successo anche della partecipazione di Milena al Festival della Sagre di settembre con i cannoli siciliani che andarono a ruba.