Anche quella bugia innocente le servì ad arrivare al premio Nobel. La pronunciò più volte nei cortili delle cascine, sulle colline attorno ad Asti: “Avete uova? Mi servono per i miei bambini. Se c’è un gallo nel pollaio meglio, le uova gallate sono più nutrienti”. Sorrideva gentile Rita Levi Montalcini, in quell’autunno del 1942. Andava nelle case dei contadini girando in bicicletta. Fisico minuto, gambe magre, capelli neri raccolti a crocchio. Pochi spiccioli in cambio di qualche uova. La credevano una madre premurosa alla ricerca di qualcosa da mangiare per i figli. Rità però, di figli non ne aveva: ecco la bugia. Quelle uova sarebbero finite in padella, ma la giovane ricercatrice le avrebbe prima analizzate, usando l’embrione per proseguire i suoi esprimenti al microscopio. Era uno Zeiss binoculare, salvato avventurosamente dai bombardamenti di Torino.
Una piccola storia, nella tragedia della guerra, che lega il nome di Asti a quello della scienziata, premio Nobel per la medicina nel 1986, scomparsa a 103 anni, il 30 dicembre 2012. I Levi Montalcini erano arrivati nell’Astigiano ad autunno inoltrato di quel 1942, quando la guerra, dopo le illusorie vittorie iniziali dei tedeschi, stava svoltando di segno e gli italiani si sarebbero accorti del ferale destino dell’alleanza tra dittatori. A Torino, martoriata ogni notte dai bombardamenti, la vita era diventata impossibile e quella famiglia di ebrei sefarditi aveva, come tanti, deciso di sfollare in zone più tranquille. La madre Adele Montalcini, pittrice e donna di lettere, era rimasta vedova nel 1932 del marito Adamo Levi, ingegnere e industriale del ghiaccio. Avevano quattro figli già grandi: Gino, nato nel 1902, architetto e scultore, Anna di due anni più giovane e le gemelle Rita e Paola, anche lei pittrice, nate nel 1909. Rita si era brillantemente laureata, quattro anni prima, in medicina avendo come compagno di corso un “già geniale” Renato Dulbecco, destinato a conquistare, prima di lei, il Nobel nel 1975.
Anche Rita era una ricercatrice promettente, tra le migliori assistenti del burbero Giuseppe Levi, scienziato di fama, anch’egli ebreo e antifascista. Nel 1939 la giovane ricercatrice era stata invitata in un’università belga. Al suo ritorno si accorse quanto le leggi razziali, emanate dal Regime nel 1938, stavano creando attorno agli ebrei un clima di sospetto. Anche Rita fu costretta ad abbandonare l’incarico pubblico all’Università, ma non volle smettere di proseguire la ricerca sugli embrioni. Allestì un improvvisato laboratorio nella cucina di casa.
La vita però si faceva ogni giorno più dura e la famiglia decise il trasferimento ad Asti. C’era un legame importante. In Valle San Pietro, sulle colline a Sud Ovest della città, in direzione della vecchia strada per Alba, sorge Villa Basinetto, una bella costruzione d’epoca, circondata da un parco. È dei Montalcini, facoltosa famiglia astigiana di cambiavalute, che fino al 1938 aveva una banca In via Cavour. Le leggi razziali avevano obbligato anche loro a ritirarsi ufficialmente dagli affari. Da Torino arrivano i parenti. Rita ha poco più di trent’anni e non si separa dai suoi strumenti di ricerca. Oltre al microscopio, una piccola incubatrice con termostato, vetrini, ampolle, reagenti.
Vicino a villa Basinetto c’è una casa da affittare. È una di proprietà di Francesco Agnelli, macellaio con negozio nel centro storico di Asti. Il popolare «Cicu» accetta l’offerta e affitta alcune camere della casa ai torinesi, da suddividere con altri sfollati. In una stanza del primo piano la giovane Rita installa il suo “laboratorio” che per funzionare, superate le difficoltà causata dalle interruzioni dell’energia elettrica, ha però bisogno di uova. A Rita bastano pochi giorni per conoscere i contadini della zona. “Quante frittate facevamo ogni giorno al termine degli esperimenti” ricordò con un sorriso la neo premio Nobel, quando nel maggio del 1987, tornò ad Asti per ricevere dal sindaco Giorgio Galvagno la cittadinanza onoraria della città, votata all’unanimità dal Consiglio comunale. Questa delle uova è una curiosità contenuta anche nell’autobiografia “Elogio dell’imperfezione”.
In quel giorno di festa astigiana la concittadina onoraria aggiunse ai cronisti un tocco in più, con precisa memoria: “In quella casa di collina c’erano anche altre famiglie. Ricordo un ragazzetto con un grammofono, figlio di un fascista convinto, che suonava tutto il giorno dischi di canzoni del regime. In particolare “Faccetta nera”. A loro non diedi mai le mie frittate e non mi pento di averli lasciati con l’acquolina in bocca”. Ad Asti arriva anche Mariuccia, la giovane fidanzata del fratello Gino. Decisero di sposarsi e scelsero una data fatidica: 8 settembe 1943. Il breve viaggio di nozze fu interrotto, la famiglia si ritrovò in Valle San Pietro dove era arrivata anche l’altra sorella Anna, da tutti conosciuta come Nina. Dopo l’armistizio si temevano le reazioni dei tedeschi. È la realtà fu peggio delle più cupe previsioni.
Con la Repubblica sociale di Salò iniziarono le deportazioni degli ebrei verso i campi di sterminio. Rita smise di andare in treno a Torino per incontrare compagni di università. Di notte, con la mamma e le sorelle, salivano sulla collina più alta a vedere l’angosciante riverbero dei bombardamenti sul capoluogo piemontese . Per evitare di finire nelle maglie dei rastrellamenti Rita si era procurata a Torino dei documenti d’identità falsi. La mamma e le due sorelle gemelle presero il cognome Lupani, il fratello Gino e la moglie Mariuccia, Locatelli. Giorni di angoscia. Fallì un tentativo di fuga in Svizzera. Ci riuscì solo Nina con la sua famiglia. Altri ebrei astigiani si rifugiarono sulle montagne del Cuneese. Il fratello di mamma Adele trovò ospitalità in una clinica astigiana protetto da medici e suore e non fu mai “denunciato” nonostante la taglia che andava ai delatori. Rita e la famiglia decisero di tentare un viaggio verso Sud sperando intercettare il fronte che stava lentamente risalendo la penisola. Lasciò a Valle San Pietro i suoi amati strumenti di ricerca (che riuscirà poi a recuperare dopo la guerra) e partì con madre, sorella, fratello e cognata in treno e senza una destinazione precisa.
La fuga verso Firenze dopo l’8 settembre e il viaggio con Dulbecco
Gli avvenimenti incalzarono. Trovano ospitalità a Firenze. Nel settembre 1944 arrivò la liberazione della città toscana e Rita, come medico, entrò nel servizio sanitario alleato, curò sfollati e feriti di guerra. Solo nel maggio del 1945 riuscì a tornare ad Asti e poi a Torino, dove molti suoi amici erano reduci dalla lotta partigiana. Poteva iniziare una nuova vita. Rita Levi Montalcini si imbarcò il 19 settembre 1947 da Genova diretta in America sulla nave polacca “Sobieski”. Con lei anche Renato Dubecco. I due erano stati chiamati da università americane per sviluppare le loro ricerche che li porteranno entrambi al Nobel. Ma in quel giorno di settembre su quel ponte di nave non potevano saperlo.
Rita dopo studi in America e in Brasile tornò in Italia nel 1969 proseguendo studi e ricerche. Dal 2001 fu nominata senatore a vita. Non dimenticò quel “soggiorno astigiano” e rimase in contatto con i parenti che ancora vivono in città. Dopo la cittadinanza onoraria del 1987 e fu invitata al Palio del 2001 dal sindaco Florio. Brindò con gioia con “Asti spumante” alla festa dei suoi 100 anni. Il Basinetto è oggi diventato un suggestivo centro congressi, e la casa Agnelli è stata ristrutturata. Sono rimasti i grandi alberi del parco. Poche cascine della zona hanno ancora il pollaio e non c’è più la tenace donna in bicicletta che gira a cercare quelle uova… da Nobel.