I ricordi di un inviato speciale al seguito di quei matti della Saclà
Olivolì Olivolà… Oliva Saclà! .
Quando arrivava alla tv l’ora di Carosello, poco prima di mandare a nanna i bambini, milioni di italiani sentivano entrare nelle orecchie e poi nella mente questo motivetto (che in seguito abbiamo imparato a definire jingle…). Eravamo agli inizi degli anni Settanta, Minnie Minoprio canticchiava allegramente quella filastrocca, mentre sulle pagine sportive dei giornali emergevano le imprese di un gruppo di ragazzoni con la scritta Saclà sulla maglia.
È la pubblicità, bellezza, si potrebbe dire. Fatta prima sui teleschermi e poi sui giornali, passando dalle palestre (poi Palazzetti dello Sport) dove si giocava a pallacanestro (anzi, a basket). Ma che cosa voleva dire il nome Saclà? Lo sapevano in pochi, e solo ad Asti, dato che a quei tempi non c’era internet per avere la risposta dell’acronimo che è Società-Anonima-Commercio-Lavorazione-Alimentari. L’accento sulla a finale venne dopo e solo per ragioni pubblicitarie.
Il signor Secondo Ercole, detto Pinin, non poteva immaginare nel 1939, quando fondò la sua impresa, che una trentina d’anni dopo avrebbe sentito gridare da migliaia di voci «Saclà-Saclà» per accompagnare parabole e rimbalzi di quel pallone arancione. In poco tempo, dal 1968 al 1972, si è compiuta la favola della Saclà-basket, di una squadra capace di salire in 5 anni dalla serie D alla serie A, di arrivare subito dopo a girare l’Europa per giocare la Coppa delle Coppe. Una marcia trionfale pagata col forzato trasferimento da Asti a Torino per la necessità di un palcoscenico più ampio di quello dell’impianto di via Gerbi.
Un’epopea incancellabile che ha avuto tre protagonisti. Beppe De Stefano, astigiano doc, che sui banchi del ginnasio aveva per compagno Carlo Ercole, figlio di Pinin e futuro presidente e sponsor del club. I due costruirono il miracolo sportivo con enormi dosi di passione, competenza, tenacia. Ma anche di vino. Perché le bottiglie (ottime e abbondanti) hanno sempre accompagnato il loro cammino, regalando un carburante emotivo fondamentale a tutta la squadra.
Le trasferte con ritorno enologico finivano alla Grotta
Il vino come segreto vincente per degli sportivi? Ebbene sì. Il sudore in palestra, la concentrazione in partita, certo. Ma poi tutti a tavola, soprattutto a “La Grotta”, per festeggiare vittorie e compleanni o per cancellare il magone delle sconfitte. E quando si andava in trasferta col pullman da certe zone di tornava sempre con damigiane di vino acquistato collettivamente: soprattutto il Soave, delizioso bianco veneto, che una volta finì in parte sprecato all’arrivo ad Asti, per una damigiana mal piazzata vicino alla porta del pullman e clamorosamente caduta e frantumata.
E da Caserta si rientrava con scatoloni di mozzarella di bufala… Una festa anche per noi giornalisti al seguito. Ma l’allenatore sapeva, può chiedersi qualcuno? Non solo sapeva ma partecipava e organizzava, dava l’esempio. Era Lajos Toth, meravigliosa persona, ungherese giramondo, prima gran giocatore in patria e a Varese poi acuto condottiero della Saclà in campo (in serie D) e in panchina a guidare la squadra. Innamorato di Asti, del Piemonte, dei suoi vini e dei suoi cibi, decise di stabilirsi in una cascina nel Monferrato, a Conzano, con moglie, figlio e genitori arrivati dall’Ungheria. Allevava anche qualche maiale per fare in casa deliziose salsicce magiare, made in Piemonte. Ercole-De Stefano-Toth.
Questo trio realizzò il miracolo Saclà. Oggi il primo (presidente) sta spesso in Sardegna e ha lasciato la conduzione dell’azienda alla nuova generazione, il secondo (general manager) vive quasi sempre a Venezia. So che quando si ritrovano ricordano di quei tempi tanti dettagli sulle partite e anche sui vini che accompagnarono quelle vittorie (Barbera d’Asti Viarengo, Nebbiolo di Vezza, Brut riserva for England Contratto…). E non manca un brindisi speciale dedicato a Lajos Toth, che troppo presto li ha lasciati senza la sua meravigliosa compagnia. Protagonisti del miracolo furono naturalmente anche i giocatori. Ricordo Caglieris, il piccolo grande Charly, Merlati, il gigante barbuto, De Simone, “oriundo” argentino.
Tre che ho ritrovato pochi mesi fa ad Asti, per una serata “amarcord” del Panathlon, dove con loro ho rivissuto le mie emozioni di quando seguivo da giornalista de La Stampa la Saclà in Italia e all’estero. Oggi Charly è di casa a Loano e fa l’insegnante Isef, Alberto Merlati dirige una importante agenzia pubblicitaria a Milano, l’altro Alberto è titolare di una stazione di servizio a Cantù. E il loro legame con Asti, 40 anni dopo, resta fortissimo. Basta entrare al “Cocchi”, passeggiare in corso Alfieri. O per Caglieris passare da Castello d’Annone dove finì addirittura in cella, essendo anche un militare (aviere) oltre che cestista. I doveri della divisa erano pochi, per lui come per il suo compagno di squadra Bruno Riva. Ma riuscirono entrambi a farsi punire con qualche giorno di cella di rigore per via dei capelli lunghi. Saltarono qualche allenamento, ma non la partita della domenica (vinta) e la cena successiva.