Il territorio punteggiato da importanti ritrovamenti fossili
Una volta c’era il mare, lo sanno tutti. Ce ne ricordiamo quando negli anni si sono ritrovati scheletri di grandi cetacei e decine di migliaia di resti fossili di conchiglie. La zona di Valle Andona e Valle Botto, alle porte di Asti verso Torino, è tra le più ricche e conosciute dagli appassionati. I primi ricercatori francesi la frequentavano già nel Settecento. Nelle pareti sabbiose di quelle colline affiorano strati impressionanti di conchiglie fossili. Chi sa leggerli ne ricava un racconto straordinario dell’evoluzione della vita sul nostro pianeta. È un sito di ricerca unico, finalmente inserito in un Parco paleontologico astigiano, finanziato dalla Regione. Oggi ci sono percorsi guidati e possibilità di vedere da vicino le stratificazioni di conchiglie fossili percorrendo vallette verdi lungo suggestivi camminamenti. E ci sono stati nei decenni scorsi ritrovamenti importanti anche a Vigliano, San Marzanotto, Camerano Casasco, Portacomaro, Chiusano, Settime e in decine di altri siti che testimoniano come il mare che copriva le nostre colline fosse popolato di grandi pesci, cetacei, anfibi.
Sono stati ritrovamenti spesso casuali: lo scavo di un acquedotto, lo scasso di una vigna, la fondazione di una casa. La terra restituisce la memoria del mare. Dai tre ai cinque milioni di anni fa, le acque marine coprivano completamente tutto ciò che sarebbe diventato, attraverso le trasformazioni geologiche, la Pianura padana e la cerchia di colline del Monferrato potevano apparire come un arcipelago con i soli bricchi più alti emersi. L’Astigiano sommerso, secondo le ricerche, era una zona di acque non troppo profonde, un clima e un ambiente che oggi definiremmo tropicali. La storia e le cronache di quel mondo le conserva la terra che, ogni tanto, ce le restituisce, stupendoci. Vale la pena parlarne, conoscere e far conoscere questi nostri tesori non più nascosti. All’interno di queste rocce sono talvolta presenti i resti fossili di organismi del passato, che si sono conservati per milioni di anni. Tale patrimonio paleontologico rappresenta una delle caratteristiche più intrinseche e descrittive della storia della formazione di un territorio. È questa identità, ben marcata da una specificità geo-paleontologica in modo esemplare in Piemonte e in particolare nell’Astigiano e in Monferrato, radicata nelle origini più antiche della storia del luogo che bisogna far emergere e conoscere maggiormente, anche collegando “in rete” questi aspetti con altri riflessi dal patrimonio storico, sociale, economico e culturale, che hanno sempre trovato le radici e le espressioni basilari nel paesaggio fisico. Oggi si assiste a nuovi e più elevati bisogni, che paradossalmente sono i più naturali e primordiali: aria, sole, paesaggio, silenzio, piacere emozionale; anche gli aspetti geo-paleontologici dell’Astigiano e del Monferrato rientrano nella definizione più ampia di “Geodiversità” e costituiscono elementi forti troppo a lungo trascurati e scarsamente conosciuti, soprattutto dal punto di vista turistico-culturale. In questo contesto scientifico-culturale s’inserisce l’attività dell’Ente Parco Paleontologico Astigiano nelle aree protette gestite e in generale sul territorio astigiano, con la propria finalità di salvaguardia di eccellenze naturalistiche e soprattutto paleontologiche, che si integra con la funzione di divulgarne la conoscenza. A tutto questo si aggiunge il Museo Paleontologico Territoriale dell’Astigiano, già in parte realizzato in Asti nel complesso del Michelerio che garantisce finalmente una struttura prestigiosa e arricchisce in maniera specifica ed esclusiva la proposta museale astigiana.
Si ringrazia per la collaborazione Piero Damarco, conservatore del museo paleontologico territoriale dell’astigiano e la geologa Alessandra Fassio.
Le Schede
Al Michelerio tesori d’arte nella Chiesa del Gesù e l’acquario preistorico
Pippo Sacco
La recente apertura delle sale ipogee del Museo Paleontologico sono un altro passo significativo verso il totale riutilizzo del complesso dell’ex Michelerio. Poi toccherà alla chiesa del Gesù, la cui facciata prospetta su via Carducci. È previsto che la chiesa ospiti le bacheche con altri importanti reperti: sarà la sala principale del Museo Paleontologico e si presenterà con un santuario delle balene fossili, un unicum al mondo. Le attuali sale didattiche del piano terreno saranno destinate a magazzini del Parco Paleontologico Astigiano, i cui uffici hanno sede al secondo piano del Michelerio. Sarà quindi completata – grazie a finanziamenti dal Pisu e dall’“Art Bonus” – la rivitalizzazione del complesso di edifici dell’ex Michelerio, che si estendeva su tutto l’isolato tra corso Alfieri, via Varrone, via Carducci e via Caracciolo. La fondazione del complesso risale al 1524, per volontà della nobile famiglia dei Guttuari, su progetto di Vincenzo Seregno, ingegnere della Fabbrica del Duomo di Milano. Negli anni successivi donazioni e lasciti arricchirono il monastero delle monache Clarisse Osservanti. In particolare, il canonico della cattedrale Alfonso Asinari nel 1612 per disposizione testamentaria commissionò le pitture della cappella della chiesa dedicata alla Natività del Signore. Nella seconda metà del ’700 l’edificio fu ampliato dall’architetto Giovanni Maria Molino, senza alterare le forme cinquecentesche del loggiato del cortile. Quest’ultimo a due ordini di arcate compartite da pilastri è considerato, insieme al chiostro dei canonici Lateranensi di S. Maria Nuova (cortile dell’ex ospedale), il capolavoro dell’architettura astigiana del ’500. Della chiesa del Gesù rimangono visibili da Via Carducci l’abside e la facciata in cotto a due ordini sovrapposti ritmati da lesene, coronate dal frontone triangolare. L’interno a fine ’800 fu diviso da una soletta che creò un piano superiore, destinato a camerata dei ragazzi del Michelerio. Dieci anni fa, demolita la soletta, è tornato in piena vista il grande affresco di Gian Carlo Aliberti raffigurante la Gloria del Paradiso. Nel 1802, con la soppressione dei monasteri imposta dai francesi, il complesso passò al demanio nazionale. Dopo anni di abbandono, nel 1862, grazie alla munificenza di Clara Michelerio che l’acquistò, diventò sede dell’Opera Pia Michelerio, istituita per accogliere gli orfani di Asti e del circondario e insegnare loro un mestiere. Dagli Anni ’50 si ridussero le attività. Con l’inattività dell’Opera Pia nel 1971 vennero affittati i laboratori, mentre nella manica di via Varrone negli Anni ’70 e ’80 fu attiva l’arazzeria di Vittoria Montalbano, con la direzione artistica di Valerio Miroglio. Nel 1992 l’immobile, ormai in condizioni di abbandono e degrado, fu acquistato dall’Agenzia Territoriale della Casa che poco dopo trasferì i suoi uffici da corso Einaudi all’angolo di via Varrone con via Carducci, dove fu abbattuto l’alto muro e resa visibile la facciata della chiesa del Gesù. Tutto il primo piano del Michelerio è oggi occupato da studi professionali e da altre attività, mentre tra corso Alfieri e via Varrone nel 2004 si è insediato un ristorante cinese e sono stati realizzati alloggi di edilizia convenzionata. Il cortile con loggiato del Michelerio ospita d’estate il cinema all’aperto e decine di altri eventi.
Il mito dei Celacanti, storia di passione e burocrazia tra le Comore, Torino e Asti
Gi. Fi.
Il museo astigiano si candida per ospitare un raro reperto marino
Dal fondo di un gorgo eterno. Di ere, di milioni di anni. Arrivano in superficie. Appaiono.Mostri e divinità. Poesie e racconti. Miti e leggende. Come la Medusa e le Gorgoni che impietriscono chi si ferma. Come la melodia e la grazia delle Sirene: immagini e suoni. Come il mistero impossibile della Chimera, la capra, il leone e il serpente. O come il Liocorno fatato dei Sumeri. Ali, creste, rostri, artigli e denti. Antichissime maschere. Se appaiono, se sono apparse, è perché l’uomo le ha viste, ha voluto o dovuto a tutti i costi vederle. E le ha raccontate. Ci hanno poi pensato le Fedi e la Scienza a studiarle, a domarle, a scomporne e ricomporne le membra. Con l’andare del tempo e del mondo, però, un incontro con loro s’è fatto sempre più raro. Ma impossibile no. Ecco una storia che può dimostrarlo. È la storia di un pesce, la cui famiglia (Celacantidi) si fa risalire a 350 milioni di anni fa e che si riteneva scomparso, estinto, nel gran subbuglio che inghiottì i dinosauri. Fino a che, nel dicembre del 1938 un esemplare finì nelle trappole di una barca da pesca, lungo le coste del Sud Africa. Ha un nome, una suggestione e una specie di musica fiabesca: Celacanto. Da quel giorno il pesce divenne famoso e ricercato. C’era perfino un compenso per chi lo avesse pescato. E pensare che prima di allora, tra i pescatori, la sua cattura era considerata una rogna: per le sue carni poco mangiabili, per la corazza di spine che tagliavano le reti. Si pensava che il Celacanto fosse la testimonianza ancora vivente di una delle tappe più misteriose ed affascinanti nella storia dei vertebrati: la transumanza dal mare alla conquista della terra ferma. Fu anche individuata una nuova colonia di Celacanti nelle acque dell’arcipelago delle Comore (Madagascar). Proprio alle Comore entrò in scena, negli anni ’70, il padre astigiano dei celacanti di Italia: Erik Domini. Erik era ginecologo, inviato laggiù in missione dal governo italiano. E laggiù fu ginecologo e medico e si trovò ad assistere ad una delle repliche del deliquio post coloniale. Quelle piccole o grandi farse-tragedie, fatte di tiranni improvvisati, di mercenari europei, di colpi di Stato. Soprattutto di soprusi, sofferenze per la povera gente. Erik fu con la gente: a curarla, ricucirla, ospitarla nel suo ambulatorio. Alle Comore non dimenticarono il medico italiano che li aveva aiutati, rappezzati e salvati. Per gratitudine, gli offrirono onorificenze e attestati; poi la promessa di due celacanti. Così Erik venne in Piemonte e subito prese contatto con la Regione il Museo delle Scienze di Torino per destinarvi i preziosi reperti. I preparativi per l’accoglienza – tecnici e legali – durarono un anno: notaio, nave per il trasporto, teche per accogliere. I pesci, intanto, attendevano nelle ghiacciaie di un Hotel delle isole Comore. Tornato laggiù per recuperare il dono, Erik trovò la sorpresa: i Celacanti pescati erano quattro non due; segno di una riconoscenza doppia. Seguì un trasporto non semplice fino allo sbarco a Marsiglia dove il carico eccezionale venne accolto da dirigenti e politici della Regione Piemonte e da esperti del Museo di Torino. Le emozioni sulle banchine del porto francese lasciavano intuire un futuro importante e un brillante destino per i cosiddetti “fossili viventi”: dibattiti e studi, ancora ricerche. A Torino i reperti ebbero temporanea luce. Una mostra per l’esemplare più bello nel 1980; a seguire qualche altra sporadica apparizione negli spazi del museo. Niente di più. Dei quattro, per volontà di Domini, uno venne dato a Trieste, la sua città natale. Dal 1981 ha un posto di rilievo nelle sale del museo triestino. A Torino, invece, sugli altri tre scese il silenzio, con motivazioni poco plausibili e contorte vicende burocratiche internazionali. Per diradare le nebbie, Erik Domini ha fatto richiesta di poter esporre almeno uno dei “suoi” Celacanti al museo paleontologico di Asti. Come andrà a finire? Si userà il buon senso per sdoganare i protagonisti di una storia che, forse con il difetto di un timbro o di un bollo, è tutta alla luce del sole; o ancora una volta l’austera lettura di carte bollate sacrificherà un patrimonio scientifico unico in Italia e rarissimo nel mondo e la possibilità che anche Asti accolga uno di quei pesci fossili così preziosi e misteriosi?
Parla il papà astigiano dei celacanti
Come è arrivato ai Celacanti? «Nel 1975 feci parte di una Missione sanitaria inviata dal Governo italiano alle isole Comore, nel quadro di una cooperazione sanitaria fra i due Paesi. Quando ci arrivai, mi trovai nel vivo di un colpo di Stato: su quasi tutto l’arcipelago aveva perso il potere Alì Soilihi, un tirannello ambizioso sostenuto da mercenari francesi. Diciamola così: Soilihi aveva fatto le scuole alte, all’Istituto di Agricoltura tropicale di Parigi ove era stato, tra l’altro, “compagno di banco” di un certo Pol Pot cambogiano. – fa una pausa allusiva – … che doveva avergli trasmesso qualcosa. Doveva avergli fatto copiare i compiti”. “Nel disegno politico di Alì per le Comore c’era, infatti, la missione di far nascere una società nuova, su basi egualitarie, senza classi sociali, senza religioni; con parificazione dei sessi e nessun rispetto per i costumi e le tradizioni locali».
E la gente del posto? «Con i mesi il malcontento crebbe, soprattutto quando il governo rivoluzionario pretese di tirare in ballo le donne: le avrebbe volute senza velo e a spazzare le strade. Figurarsi! La prima rivolta avvenne in un villaggio di pescatori, Mitsamiouli. Il golpista intervenne con veemenza. La conseguenza fu che, nel nostro ospedale, per giorni, ci fu un via vai di pickup stracarichi di cadaveri e di feriti. Con il prof. Camilli, direttore del presidio, ci prodigammo, curando chi si poteva e poi facendoli fuggire al sicuro».
Come andò a finire? «Il colpo di Stato si sconfisse da solo. Ali Soilihi venne spodestato e ucciso dai suoi stessi giannizzeri, quei mercenari francesi che l’avevano sostenuto. Tornò il governo legittimo della Repubblica federale e tornò, come capo religioso, il principe islamico Said Hussein che, per le cure prestate al suo popolo e alla sua stessa famiglia, dimostrò di volermi bene come a un figlio adottivo».
Ma i celecanti? «Beh, poi tornai in Italia per fine missione. E in Italia, dopo poco, fui raggiunto dalla notizia che, per riconoscenza, il governo delle Comore e il Principe avevano deciso di insignirmi di molti riconoscimenti e a conoscenza del mio interesse per la scienza, avevano concordato di pescare per me alcuni celacanti. La lettera parlava di due esemplari, ma quando tornai alle Comore per recuperare il dono scoprii che nel cassone frigorifero che li conteneva i celacanti erano quattro. Li portammo, via nave, a Marsiglia e poi a Torino. Era un regalo straordinario, una ricchezza scientifica enorme». Sono passati quasi 50 anni. La nuova sede del museo di Paleontologia di Asti potrebbe e vorrebbe ospitare ed esporre almeno un esemplare di quei pesci pescati per riconoscenza e donati a Erik Domini. Una storia che merita di essere conosciuta.
CELACANTO PESCE FOSSILE VIVENTE RIEMERSO NEL 1938
L’importanza scientifica della scoperta: le pinne predisposte a diventare arti
Nel 1938 avvenne la straordinaria scoperta di uno strano pesce che fu riconosciuto come appartenente alla famiglia dei Celacantidi, un gruppo che si riteneva estinto nel Cretaceo, cioè più di sessanta milioni di anni fa. Sono l’unica specie sopravvissuta di un gruppo zoologico che si è evoluto indipendentemente, distaccandosi dagli altri pesci molti milioni di anni fa. La prima cattura (22 dicembre 1938) si deve a una pescata fatta con rete a strascico a 40 metri di profondità al largo della foce del fiume Chalumna, in Sud Africa. Il comandante del motopeschereccio, capitano Gisen, accortosi dell’insolito esemplare (lungo 150 cm) al suo rientro a terra lo portò a miss Courtenay-Latimer, conservatrice del museo locale, la quale scrisse all’ittiologo prof. J.L.B. Smith di Grahastown, inviandogli una foto dell’animale. Il prof. Smith, intuita l’importanza della scoperta, battezzò quel pesce con il nome di Latimeria Chalumae per ricordare tanto la scopritrice che il luogo di cattura. Il secondo esemplare, della lunghezza di 1,60 e del peso di 45 kg., fu catturato il 2 dicembre 1952 a 200 metri di profondità nei pressi dell’isola di Anjouan (arcipelago delle Comore). Altre catture avvennero tra i 100 e i 400 metri di profondità e tutte nei mari delle Comore. Solo nel 1997 lo studioso delle barriere coralline Mark Erdmann con la moglie Arnaz Metha individuarono, in modo del tutto casuale, una nuova colonia di Celacanti in Indonesia. Il Celacanto era sconosciuto fino al 1938 al mondo scientifico. I pescatori indigeni delle Isole lo conoscevano da sempre con il nome di Kombessa. Essi ne utilizzavano soprattutto le squame ruvide e coperte di dentini cutanei, per usarle come carta vetrata. Poco commestibili le carni. Il Celacanto misura in età adulta fino a 1,80 m. di lunghezza per un peso che può superare i 300 chili. Il colore dell’animale vivo è un grigio blu sul quale spiccano macchie irregolari più chiare; questa tinta cambia rapidamente dopo la morte, virando al bruno-marrone. La caratteristica più saliente del Celacanto consiste nel fatto che le pinne pettorali, anali e dorsale posteriore non partono direttamente dal corpo, ma sono innestate su monconi provvisti di scheletro e di muscolatura; questo può essere interpretato come forma di passaggio tra una pinna normale e un arto di un primitivo animale terrestre. La coda, vista di profilo, presenta un prolungamento assiale e inoltre non è ben distinta dal resto del corpo, non essendo segnata da un restringimento. Il cranio è costituito da due pezzi articolati tra loro. Pur essendo pesce osseo, ha la spina dorsale interamente composta da un’asta larga, robusta e cartilagine, fatto che presenta una notevole primitività nel campo dei vertebrati. Il cuore è molto più semplice di quello degli altri pesci; i reni, anziché trovarsi sotto la spina dorsale, sono situati nel fondo dell’addome, praticamente congiunti a formare un organo singolo, fenomeno questo unico nella scala zoologica. Lo stomaco è costituito da una sacca piuttosto primitiva e l’intestino è molto simile a quello dei Selaci e di altri pesci primitivi. Forse la caratteristica più sorprendente del Celacanto è la vescica natatoria: è rivestita da squame ossee che le conferiscono una certa rigidità, pertanto non può funzionare come organo idrostatico né da polmone primitivo, come in un primo tempo si era ipotizzato. Ricerche sviluppate negli Anni ’70 hanno confermato che la specie è ovovivipara, in una femmina dissezionata sono stati trovati embrioni di 30 cm.