Per i piemontesi di Monferrato e Langa il richiamo del mare si annida in ancestrali ere paleontologiche, tanto da riemergere, di tanto in tanto, tra le prosciugate righe di Pavese e le note di Paolo Conte. Per Mino (Gelsomino) Rosso, nato a Castagnole Monferrato nel 1904, lo stupore della conoscenza è l’esistenza stessa: nel 1926 plasma nel gesso “corpi plastici” che ripropongono la ricerca simultanea della vita moderna, del nuovo gusto estetico d’avanguardia, rivalutando l’aspirazione originaria di Boccioni alla scultura “in movimento”.
Con Tullio D’Albisola, a Chiavari (1931), Mino Rosso espone sculture insolite, superando l’inclinazione ai primitivi coltivata dai cubisti, tentando la compenetrazione di figura e ambiente, alla ricerca di una struttura architettonica, permeata di realtà e natura. La sua sensibilità segreta sa individuare ciottoli sul greto del Po, cogliere pietre dalle forme erose, macerarle negli acidi fino a ritrovare il verde sorgivo, modellare argille, plasmare legni, stagliare bassorilievi. Accanto a Fillìa, Ugo Pozzo, Oriani, Alimandi e Diulgheroff, a Torino frequenta la cerchia della seconda generazione futurista, esponendo nelle rassegne itineranti e soggiornando a Parigi, ove operano Severini e Prampolini.
Dalle partecipazioni alla Biennale di Venezia (1928-1940) alla Quadriennale romana (1935), Mino Rosso rielabora con autonomia la lezione futurista del primo Novecento, approfondendo le soluzioni dei sovietici Zadkine e Archipenko: la sintesi geometrica dei primi bronzi gradualmente pare solidificarsi organicamente. I suoi Nuotatori in gara, esposti a Roma nel 1933 (e in numerose altre mostre a Torino e all’estero), anticipano e attraggono le generazioni degli anni Cinquanta, le tendenze d’astrazione espressionista e le esperienze gestuali, da Mastroianni a Somaini. La pittura affiora in maturità, alle soglie degli anni Quaranta e nel decennio Cinquanta, quando Mino Rosso lascia trasparire dal disegno la prospettiva interiore delle cose, della natura, della realtà, non più costrette da linee e piani, ma lievemente increspate su superfici monocrome, come impronte lasciate sul foglio dal fiore essiccato. La pittura di Mino Rosso fluisce dal ricordo, immagini dell’infanzia, fantasiosa e irrequieta, momenti mai dimenticati, confidati agli amici del caffè “Patria”, la sera, prima di tornare allo studio.
Scrive Giovanni Arpino su Il Giorno del 20 ottobre 1963: «Un giorno, quando tutti avranno motori e asfalti e la casa e il frigo e la bignola della domenica, allora ciascuno dovrà ritrovare il suo sentiero nel bosco, da solo. Sarà difficile, perché è più difficile resistere e capire quando c’è il benessere che in tempi di miseria, ma bisognerà farlo. Ciascuno dovrà scoprire la sua passeggiata personale, i suoi pensieri solitari per quel sentiero nel bosco, rivivere magari la bellezza di torcersi una caviglia, legarla con un fazzoletto o scoprire un fungo. Allora, quando ci sarà ordine dappertutto e l’uomo sarà in pari, allora sì che ciascuno dovrà rimettersi alla ricerca del suo mistero, piccolo o grande, e ritrovare gli accordi del cuore».