Sono le 5,30 del 13 marzo 1991, un mercoledì, fa freddo. La città sta ancora dormendo quando il treno speciale 29702, proveniente da Brindisi, si ferma sul binario 1 della stazione. Il convoglio trasporta, secondo i dati ufficiali, 814 cittadini albanesi fuggiti dal “Paese delle aquile”: un’ondata della marea che è arrivata qualche giorno prima. Il 7 marzo, sulle coste pugliesi erano apparse vecchie carrette del mare cariche all’inverosimile di gente che voleva toccare con mano i sogni dell’Occidente sbirciati alla televisione sui canali Rai, proibiti dal regime comunista in disfacimento, guidato per decenni dal dittatore Enver Hoxha. Una fuga collettiva prorompente e inarrestabile: l’inizio, 25 anni fa, della dolorosa odissea di profughi che ancora oggi insanguina il Mediterraneo e il Sud dell’Europa.
La sistemazione nella caserma Colli di Felizzano. Ne erano attesi 50, arrivarono a centinaia
«L’Astigiano da oggi ha un paese in più», titolava La Stampa sull’edizione del 14 marzo 1991. La Provincia aveva predisposto per i profughi 50 posti a Villa Badoglio di San Marzanotto. Il governo ne fece trasferire ad Asti, con sole 24 ore di preavviso, quasi venti volte tanto. Si era in piena emergenza e dopo le prime sistemazioni in Puglia e nelle altre regioni del Sud, toccò al Nord accogliere i profughi. Asti aveva una caserma ancora funzionante e attrezzata e fu scelta. Gli albanesi di quel convoglio della speranza in maggioranza sono uomini (il 70%), età media 24 anni, il più “vecchio” ne dichiara 40. Hanno viaggiato per 15, interminabili, ore. Sono sfiniti. Il treno viene spostato su un binario morto accanto a via Artom.
A sovrintendere alle operazioni ci sono 120 uomini, volontari di Croce Rossa e Verde, agenti, carabinieri, i fanti del battaglione Alfonsine giunti da Alessandria. È stato allestito un campo di accoglienza. Mezz’ora dopo l’arrivo si aprono le porte delle carrozze. Gli albanesi iniziano a scendere portando le loro povere cose: sacchi neri della spazzatura stipati di oggetti e vestiario, borse di plastica, vecchi passeggini: sopra non ci stanno i bimbi, ma altre masserizie. I neon del cavalcaferrovia e i fari degli autocarri illuminano lo scalo e la luce fa sembrare ancora più pallida e sofferente questa umanità dolente in attesa di venire caricata sui camion militari. Destinazione la caserma Colli di Felizzano, di corso Alfieri, dove sono ancora presenti 200 fanti del Guastalla, il battaglione che è destinato a lasciare per sempre la sede militare in fase di dismissione. Gli albanesi sono giovani e spaesati, ma dopo i primi momenti non mancano di manifestare la loro gioia per essere arrivati a questa nuova tappa della loro fuga verso l’Occidente: indossano jeans, maglioni e giubbotti, anche le donne sono giovani, i capelli in disordine, le scarpe da ginnastica sulle calze nere di nylon. Un ragazzo scende a fatica dal treno abbracciando una gigantesca radio stereo, acquistata pochi giorni prima al porto di Brindisi.
E i bambini? Se ne contano 70, uno di quattro mesi ha la febbre alta, viene subito portato in ospedale. Un secondo soffre per una colica ed è ricoverato anche lui. Asti sta vivendo settimane difficili. I giornali si riempiono di fatti di cronaca: lo scandalo Rapisarda ha decapitato i vertici della Cassa di Risparmio di Asti. I carabinieri hanno fermato i presunti autori del duplice inquietante omicidio di Castelnuovo Calcea in cui hanno trovato la morte due donne, Giovanna Barbero e Maria Teresa Bonaventura. Ma ci sono anche 600 famiglie che vivono con il fiato sospeso per la pesante crisi che ha colpito la Weber, fabbrica di carburatori di corso Alessandria: è annunciato uno sciopero generale per il 3 aprile.
L’arrivo degli albanesi è vissuto tra curiosità e timori. La Lega Nord non ha dubbi e lancia strali all’indirizzo di Roma: «Il governo ha pensato bene di chiamarci ad una gara di solidarietà verso gli albanesi, quando è il nostro territorio ad aver bisogno di attenzioni». Pure l’ex Pci, da poco divenuto Pds, non è tenero: «La scelta di Asti è stata fatta senza alcuna valutazione dei problemi già drammatici della città». La Dc scansa le polemiche e invita a non lasciarsi andare ad atteggiamenti di indifferenza. Il sindaco socialista Giorgio Galvagno assicura che Asti non farà mancare aiuti agli albanesi, ma se la prende con la Capitale dove il suo partito, il Psi, governa con Dc, Psdi, Pri e Pli: è il pentapartito guidato da Giulio Andreotti. «Siamo stati avvisati quando il treno dei profughi aveva già lasciato la Puglia, non si possono trattare le persone come pacchi postali». E avverte: «I problemi per la nostra città devono ancora arrivare. Quando sarà terminato il momento in cui tutti fanno passerella parlando di solidarietà, il Comune si troverà da solo a fronteggiare la situazione». Torniamo alla mattina del 13 marzo: i profughi vengono scaricati dai camion alla caserma Guastalla e portati nella palestra dove oggi si trova il “Palafreezer” per i controlli sanitari e l’identificazione. Questa, per ora, sarà la loro nuova casa.
Liberi di uscire con rientro previsto alle 23, ma parecchi si dileguano
La certezza sui numeri comincia a vacillare: gli uomini del Guastalla censiscono 730 arrivi e non 814. Qualcuno lungo il viaggio in treno attraverso la penisola ha preferito dileguarsi. Si stabilisce che gli albanesi potranno uscire dalla caserma, ma il rientro è fissato alle 23, come per i militari in libera uscita. Il bollettino medico è rassicurante. Ai giornalisti il presidente dell’Usl di Asti, la democristiana Bianca Dessimone, precisa «che non è stata riscontrata alcuna malattia infettiva. Ci sono invece casi di scabbia». Si provvede a disinfestare il cortile della caserma, gli abiti e le persone. Tra le donne giunte con il convoglio nessuna risulta in stato interessante. Più difficile conoscere con esattezza nome e cognome dei profughi: la metà degli albanesi, spiegano le autorità, è sprovvista di qualsiasi documento. Ci sono gruppi che arrivano da Durazzo, altri da Scutari. Molti invece sono soli. Il venerdì, due giorni dopo l’arrivo ad Asti, nel primo giorno in cui gli albanesi possono lasciare la caserma e girare per la città, in cinquanta invece di fare rientro alla Guastalla entro le 11 di sera tagliano la corda: spariti.
Raccolta di fondi e atti di solidarietà
C’è chi, al contrario, dà una mano in caserma ai volontari e ai soldati: «Fortunatamente abbiamo donne e giovani che ci aiutano nei lavori di pulizia e riordino – sottolinea in quei giorni il tenente colonnello Simeone Visconti della Brigata Cremona – Teniamo conto che noi militari siamo anche impegnati nel presidio di obiettivi strategici in seguito alla crisi del Golfo. Sarebbero dovute arrivare delle reclute di rinforzo, ma sono state dirottate a Diano Castello». E gli astigiani? In città ora si sente parlare anche un’altra lingua: sotto i portici di piazza Alfieri e lungo il corso i profughi, mentre passeggiano, si riconoscono a prima vista. Molti ingannano il tempo giocando a pallone nel vasto cortile della caserma. Il clima di solidarietà è testimoniato da più fatti. Specchio dei Tempi avvia una sottoscrizione nazionale tra i lettori della Stampa che raccoglie e distribuisce decine di milioni di lire, altrettanto fanno Caritas e Croce Rossa, si aprono conti correnti per raccogliere fondi. L’avvertenza è non consegnare “denaro a pioggia” per non creare tensioni, invidie, violenze interne ai vari gruppi che si stanno organizzando per parentele e aree di origine. Ma arriveranno anche settimane difficili; maggio è un mese cruciale. Il 30 aprile si scioglie, dopo 335 anni, il 4° fanteria Guastalla; la bandiera del battaglione prende la strada di Roma, in corso Alfieri rimane un nucleo di militari per garantire assistenza ai profughi, il cui numero si è nel frattempo ridotto a poco più di 600.
Tensioni per risse, e c’è anche una carica notturna della polizia
Comincia il balletto delle cifre: la Regione prevede che ne restino in città 270. «Non se ne parla», mette le mani avanti il sindaco Galvagno: «Asti ne può ospitare un centinaio, non uno di più». Anche i paesi, inizialmente, non sono troppo collaborativi.
Il caso Asti finisce in tv a “Samarcanda” di Michele Santoro
Accade anche un episodio che lascerà un segno nei rapporti tra la città e quegli ospiti giunti da oltre Adriatico. Nella notte tra venerdì 9 e sabato 10 maggio un centinaio di albanesi, alloggiati in caserma, inscena un sit-in in piazza Alfieri per chiedere la “restituzione” di due connazionali arrestati dai carabinieri perché coinvolti in una rissa. Per sciogliere la protesta si ricorre a una carica della polizia in tenuta antisommosa. C’è tensione. Il commento del questore di allora, Ettore D’Auria, è tranciante: «Siamo di fronte ad una ribellione ad ogni forma di vivere civile. C’è da parte di molti albanesi la volontà di non riconoscersi nelle leggi italiane». L’eco delle tensioni si spinge lontano, sino agli studi della trasmissione Samarcanda, condotta da Michele Santoro, che il 15 maggio dedica al “caso Asti” parte di una puntata. Vi sono però anche situazioni incoraggianti: numerosi profughi cercano lavoro, alcuni lo trovano, soprattutto nell’edilizia che ha fame di mano d’opera. I giornali raccontano, per esempio, di Kacjolino Zefis, 25 anni: un amico gli ha garantito un lavoro come panettiere. Ma Zefi, in Albania, giocava a calcio nello Scutari, squadra campione del suo Paese, e vorrebbe continuare anche qui. Il football gli manca.
Arriva il ministro Margherita Boniver. La caserma si svuota dopo 4 mesi
Intanto un primo incontro tra Regione, Provincia, Comune per decidere quanti profughi dovranno restare nell’Astigiano, porta a un nulla di fatto. Il sindaco va a bussare alla porta del ministro per l’Immigrazione, la bionda socialista Margherita Boniver, una delle fedelissime di Craxi, che il 17 maggio compie una visita lampo in città annunciando: «Entro fine mese lasceranno Asti 400 profughi». Però maggio trascorre senza che nulla accada. Sui giornali rimbalza la notizia che una cinquantina di albanesi che hanno commesso reati saranno allontanati. In quelle settimane sono 10 i profughi autori di risse e violenze a venire espulsi: accade a metà giugno, quando a dispetto della previsioni del ministro si è più o meno al punto di partenza. Il piano di trasferimento va a rilento, “strozzato” da adempimenti complessi, da comunità insofferenti o prive di spazi per l’accoglienza. Per vedere i primi albanesi con la valigia destinazione Torino e il Cuneese, bisognerà attendere fine giugno. Il 28 giugno 1991 lasciano la caserma di Asti a gruppi destinazione: Savigliano, Racconigi, Saluzzo, Alba e Mondovì. Altri 21 il 7 luglio saranno portati a Saluzzo. Ne restarono nell’Astigiano 101 così suddivisi: 55 ad Asti, 7 a Canelli, 7 a Nizza, 5 a San Damiano, 4 a Costigliole, 3 a Villanova, 3 a Moncalvo, 3 a Castagnole Lanze, due ciascuno a Castelnuovo Don Bosco, Villafranca, Castell’Alfero, Mombercelli, Isola, Incisa, Montegrosso (totale 46). Le operazioni di partenza furono coordinate dal prefetto Alberto Sabatino e dal colonnello Antonio Fabbricatore della Cremona. La caserma si svuotò definitivamente e iniziò il lungo iter burocratico e progettuale per destinarla ad altri utilizzi: comando della Guardia di Finanza, sede universitaria, Uffici della Motorizzazione, Palafreezer, parcheggi. Una vasta parte è ancora inutilizzata. Il piazzale dove gli albanesi giocavano a pallone è stato intitolato a Fabrizio De André, cantautore e poeta.
Quattro storie di chi ha messo radici
Alessandro Sacco
C’erano anche loro su quel treno del 14 marzo del 1991. Dopo i giorni in caserma sono rimasti ad Asti. A volte per volontà, a volte per caso. Sono passati 25 anni: una vita, figli, lavoro, ansie, come tutti. Queste sono quattro esemplari piccole/grandi storie.
Linda e Shpetim vent’anni a “Riàsch”
Originari di Durazzo, sono arrivati ad Asti anche Shpetim Huso e sua moglie Linda Gjuzi. Trenta anni lui, ventidue lei. «Sono venuta per amore, seguendo Sphetim. Quei giorni in caserma non sono stati per niente felici: piangevo, non ci volevo stare – ricorda Linda. Fortunatamente mio marito conosceva già un po’ l’italiano perché aveva fatto un corso in Albania. Ci aiutava a capire. È stata dura ambientarsi. È difficile conquistare la fiducia degli astigiani, ma una volta che la ottieni, non la perdi». Shpetim trovò lavoro da Rasero Tende e ci lavora tuttora. Sono stati a Torino e lui viaggiava, poi due mesi al campeggio di Valmanera. Dall’ottobre del 1991 trovano casa a Revigliasco (“Riàsch”, come dice ironicamente Linda, in piemontese con accento albanese), paese che li ha “adottati”. Dal 2011 sono tornati ad Asti. Nel 1992 nacque Mars, che oggi studia Relazioni Internazionali all’Università di Bologna. Linda ha aperto nel 2004 una lavanderia in strada Valmanera. Dal 2005 sono cittadini italiani.
Vendo verdura in piazza grazie a Franco
Martino Bashaj, 48 anni, non dimentica gli aiuti che ha ricevuto quando ne aveva ventitre per “inventarsi” una nuova vita ad Asti. «Dopo essere stato in caserma, mi sono trasferito per un po’ di tempo a Savigliano, dove ero ospitato in un albergo. Ritornato ad Asti ho conosciuto una persona che si è rivelata un grande amico e mi ha aiutato, dandomi un lavoro. Franco Torre: ha un banco al mercato di piazza del Palio, dove vende frutta e verdura. Da allora lavoro con lui, non solo ad Asti, ma anche ai mercati di Casale Monferrato e Moncalvo». Nel 1992, Martino torna in Albania e conosce Amazona Hajdaraj che diventerà sua moglie. Amazona ora lavora in uno studio di commercialista. Scrive poesie e romanzi. Ha vinto premi letterari. È iscritta a Scienze Politiche dell’Amministrazione all’Università di Torino. Hanno due figlie, nate entrambe ad Asti. Grecya, che ha 23 anni, ha aperto da poco tempo in via Borelli il negozio “La Gresia” dove vende frutta, verdura e pane. Alissa, che è nata nel 2003, va a scuola: frequenta la seconda media.
Dalla cucina della caserma a una pizzeria tutta sua
«Oggi non rifarei più quel viaggio di venticinque anni fa. Anche se ho passato momenti difficili, adesso posso dire di aver realizzato un sogno». Taulant Filja, è conosciuto come Landi, ripensando alla sua esperienza nella città che ha raggiunto quando aveva poco più di diciassette anni. «Cercavamo democrazia e libertà così ho seguito gli altri, anche se ero in una buona situazione famigliare: mio padre era dentista, primario all’ospedale militare di Tirana, mia madre insegnante elementare e io l’unico figlio». In caserma Landi lavora alle cucine. Resta nel settore. Trova un posto alla pizzeria Francese per cinque anni, grazie all’interessamento di don Mignatta, allora parroco di San Secondo. Dopo altri quattro anni alla pizzeria Capri e sette ai Toscanacci, nel 2007 ha aperto in piazza Leonardo da Vinci un suo locale che ha chiamato “Pizzalandia”, ispirandosi al suo soprannome. Nel 1999 è stato raggiunto da Gerta, diventata sua moglie e collaboratrice in pizzeria: hanno avuto Elia di 15 anni e Gioele di 5. «Ho trascorso 25 anni qui e 17 in Albania: ormai sono più legato ad Asti che alla mia terra di origine».
L’attore, il Magopovero e la fuga dall’alluvione
Hasan Bulcari oggi lavora come elettricista e installatore di impianti elettronici. Arriva ad Asti con la “prima ondata”, a 31 anni. Aveva esperienze di attore al teatro di Elbasan, la sua città di origine, al centro dell’Albania. «Grazie all’avvocato Occhionero sono entrato in contatto con la compagnia del Magopovero. Sono stato fortunato a incontrare persone meravigliose come Maurizio Agostinetto, Luciano Nattino, Antonio Catalano e Lorenza Zambon – ricorda Hasan –. Ho iniziato a lavorare con una cooperativa che si occupava di allestimenti, scenografie teatrali e impianti elettrici». Dopo alcuni anni, nel 2001, ha avviato la sua attività autonoma, mantenendo viva la passione per il teatro con gli spettacoli dell’associazione Asso-Albania. Nel 1993 ha sposato Samira, laurea in ingegneria meccanica. Il primo novembre 1994 è nato loro figlio Aleandro (oggi studente al terzo anno di ingegneria informatica). «Lo portammo a casa dalla maternità il 4 novembre e avevamo un alloggio in corso Savona. Nella notte il Tanaro venne fuori. Siamo scappati con la Renault 5 con lui a bordo. Ci hanno aiutato. Non ci siamo più lasciati sradicare».