sabato 27 Luglio, 2024
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Tesori nascosti

L’epico trasloco dell’altare di Revigliasco

Nel 1805 il trasferimento dalla chiesa di San Giuseppe ad Asti

 

Una notte del 1805 una strana processione percorse sotto la luna la strada che dal rione San Rocco, alla periferia sud ovest di Asti, esce dalla città, risale lungo la valle del Tanaro fino al paese di Revigliasco. Grandi carri trainati da buoi percorsero lentamente quella decina di chilometri dello stradone che supera il Borbore e porta ad Antignano, San Martino Alfieri e da lì ad Alba.

Quei carri avevano un carico straordinario adagiato su uno strato di paglia e assicurato da grosse corde e una destinazione precisa: la chiesa parrocchiale di Revigliasco, il paese delle ciliegie.

Poco dopo il tramonto erano stati caricati grandi e pesantissimi pezzi di marmo, finemente lavorati per dare vita a un trasloco eccezionale.

Il trasferimento dell’intero altare maggiore della chiesa di San Giuseppe a opera della comunità del paese di Revigliasco, guidata dal parroco.

 

Il viaggio delle tre grandi statue in marmo bianco

 

I volti delle tre grandi statue in marmo bianco, San Giuseppe, San Antonio da Padova e San Barnaba, parevano guardare il cielo stellato attonite e curiose di quel viaggio fuori le mura. Di questo misterioso trasloco avvenuto oltre duecento anni fa, si è persa la memoria, ma resta certamente un’impresa epica, considerando i tempi e i mezzi di allora.

Se oggi all’interno della chiesa parrocchiale di Revigliasco intitolata ai Santi Martino, Luca e Anna c’è una delle opera più interessanti dal punto di vista architettonico e scultoreo di tutto il territorio piemontese, si deve alla tenacia dei revigliaschesi di allora.

Ma che cosa era successo? Chi aveva consentito questo trasporto eccezionale e perché?

 

Gli editti napoleonici svuotano i monasteri e spogliano le chiese

 

Siamo nel 1805. Dopo la Rivoluzione francese Napoleone, che è diventato imperatore, dispone la secolarizzazione di molti beni ecclesiastici e lo scioglimento di numerosi ordini religiosi. L’Impero ha bisogno di fare cassa e mette in vendita chiese e immobili.

Gli editti napoleonici sono applicati anche nell’ex Regno di Sardegna, suddiviso in dipartimenti. Asti e il suo territorio rientrano in quello di Marengo, un nome che celebra la battaglia del 1800 vinta dall’esercito francese, condotto dal giovane generale Bonaparte.

Nel 1802 la secolarizzazione comporta ad Asti anche la chiusura del piccolo monastero dell’ordine dei Carmelitani Scalzi e della annessa chiesa di San Giuseppe (l’attuale Centro Giraudi, ribattezzato Spazio Kor dopo la trasformazione in spazio teatrale).

L’edificio che nei secoli era stato arricchito da opere

La facciata della chiesa di San Giuseppe che faceva parte del Monastero dei Carmelitani Scalzi. L’edificio fu spogliato di ogni arredo religioso e il grande altare trasferito con decine di carri nella chiesa di Revigliasco (a destra) a dieci chilometri di distanza marmoree e pittoriche viene spogliato. Soppresso l’ordine e sconsacrata la chiesa, i beni e le opere al suo interno sono smantellate e disperse, in parte in altri edifici di culto astigiani, quali la Cattedrale, in parte vanno a privati con vendite all’incanto.

Monsignor Gattinara ne raccolse un numero cospicuo. Ad esempio, la preziosa pala di Sant’Anna tra San Carlo Borromeo e Santa Cristina che, dopo varie vicissitudini, è oggi custodita a palazzo Mazzetti.

Di tutte le opere, quella senza dubbio più interessante è proprio l’altare maggiore di San Giuseppe, opera che richiama altari di fama notissima in tutto il territorio italiano.

Si tratta infatti di un grande altare di oltre 10 metri a ribalta, ovvero non uno dei soliti altari che siamo abituati a vedere, con la mensa e la pala sul retro, bensì un altare dallo sviluppo sia orizzontale sia verticale, che, grazie al maestoso colonnato, si apre come un palcoscenico agli occhi dei fedeli mostrando i suoi attori principali: le tre grandi statue di santi in finissimo marmo bianco.

Lo studio di queste sculture giganti, alte ciascuna più di due metri, che, come già detto, rappresentano San Barnaba, San Giuseppe e Sant’Antonio da Padova, ha dimostrato che sono di fattura differente tra loro.

San Giuseppe e San Barnaba sono caratterizzati da un’attenta resa del dettaglio: nelle capigliature e nelle barbe realizzate a cesello, nei volti con occhi grandi e mandorlati e fronti rugose, nelle mani e nei piedi in cui sono evidenti le venature. Entrambi gli abiti, fissati in vita da un ampio nodo, sono caratterizzati da un panneggio fitto di pieghe ed effetti chiaroscurali sui busti, che si allarga e si addolcisce scendendo sulle gambe.

Quella di Sant’Antonio da Padova si differenzia dalle due statue precedenti: i capelli, se pur ricci, volgono verso l’alto in modo ordinato e compatto; il volto del santo, visibilmente più giovane, è caratterizzato da un modellato liscio e privo di rughe, sopracciglia leggermente inarcate, occhi con un gonfiore non propriamente adatto a un giovane, naso allungato e importante e labbra minute semi aperte; la mano, delicatamente appoggiata al cuore, è anche questa ben levigata e morbida. Il panneggio è qui più ampio nella parte superiore del corpo e non fedele all’anatomia; le maniche del saio sembrano infatti seguire movimenti propri, gonfiandosi molto rispetto all’esile corpo del Santo. La parte inferiore del vestito scende invece con pieghe sottili ma, anche in questo caso, non emerge nulla dell’anatomia sottostante, tranne i piedi, decentrati rispetto al saio.

 

La facciata di San Giuseppe disegnata dall’Incisa

Opera del 1707 Non è certo il nome dello scultore

 

Sappiamo che l’altare maggiore e le statue furono realizzati a partire dal 1707 per volere del conte dei Roero Bartolomeo Trotti e sotto disegno del “marmoraro” luganese Francesco

Aprile, ma non è stato possibile risalire con certezza al nome dell’autore o meglio, agli autori delle tre statue.

Francesco Aprile, incaricato di reperire i marmi, assemblare i disegni, contattare gli scalpellini e dirigere i lavori, potrebbe non essersi anche occupato della realizzazione delle sculture o, perlomeno, non abbiamo documenti che ne attestino l’incarico. Egli rappresentava la figura dell’artista- architetto settecentesco a tutto tondo, ovvero era colui che amministrava il lavoro, anche se lo eseguiva raramente di propria mano.

Per ipotizzare gli autori il confronto sicuramente meglio riuscito è quello della statua di Sant’Antonio da Padova con le opere di Carlo Tantardini, scultore originario di Lecco e per anni impegnato alle committenze Reali di Torino. La statua di Sant’Antonio da Padova può essere confrontata non solo con le sculture marmoree o in stucco dell’autore, ma anche con le sue composizioni in terracotta che permettono, grazie alla duttilità del materiale, un’accentuazione del suo stile particolare.

Il grande altare sistemato nell’abside della parrocchia di Revigliasco

A risaltare sono due elementi: la fisionomia dalla delicatezza affilata del giovane volto del Santo e la realizzazione del panneggio soprattutto nella parte superiore dell’opera.

Tutte queste caratteristiche sono evidenti in numerose opere dello scultore.

In caso di conferma di tale ipotesi, l’altare acquisterebbe ulteriore valore e potrebbe inserirsi nel teatro di opere tantardiniane che arricchiscono le chiese e i palazzi del Piemonte e della Liguria. Oltre ai tre colossi in marmo, l’opera colpisce per la quantità di marmi policromi utilizzati.

 

Il colonnato e l’effetto policromo di marmi di diversa origine

 

La varietà dei toni e dei colori è sorprendente. Non si tratta solo di pietre piemontesi ma ci sono marmi provenienti da varie regioni italiane ed estere: il rosso di Francia, il giallo di Verona, il verde di Susa, il nero di Como si mischiano tra di loro, creando un’armonia di contrasti ed equilibri che la accomunano ai maggiori altari in marmi policromi romani.

Delle otto colonne sei sono in marmo rosso di Francia e due in pietra di Gassino. Esse terminano con capitelli in marmo bianco che sorreggono il grande piano attico, costituito da frontone e timpano decorati da figure angeliche e cornucopie, affiancati da due putti marmorei.

Questa ricercatezza ovviamente richiese un dispiego di energia e denaro importante.

Si reperisce dagli atti infatti che solo per la realizzazione dell’altare Francesco Aprile stilò un costo di 9340 lire. Altri 6000 ducatoni servirono a completare parte dell’altare e furono ottenuti dal ricavato di un intero taglio di bosco di Valleandona e da alcuni censi della Reggia Ducale di Milano. Se fin qua la vita dell’altare può essere relativamente ricostruita, nonostante le grandi lacune dovute ad atti mancanti, il mistero si infittisce e si arriva al 1805.

Il grande altare sistemato nell’abside della parrocchia di Revigliasco

Nell’anno del trasloco Bonaparte e il papa Pio VII erano passati da Asti

 

Sarà un caso ma in quell’anno, esattamente il 29 aprile (o meglio fiorile secondo il calendario rivoluzionario adottato dai francesi) il Bonaparte passa da Asti diretto a Milano per l’incoronazione a viceré d’Italia del figliastro Eugenio. Le cronache dell’Incisa e dell’Arri (vedi Astigiani n.6 del dicembre 2013) narrano della galoppata che il condottiero corso fece su un cavallo bianco lungo le vie della città e del discorso che tenne ai sindaci: «Basta ruberie o vi taglio il collo».

Due giorni prima era passato, sempre da Asti, anche il papa Pio VII, di ritorno da Parigi dove aveva dovuto assistere all’incoronazione a imperatore del Bonaparte.

In questa matassa di avvenimenti non è facile trovare il filo che porta, proprio in quell’anno, al trasloco dell’altare dalla chiesa di San Giuseppe alla parrocchiale di Revigliasco.

Chi avrà interceduto per spostare quell’opera? Basta la buona volontà di un solo parroco di campagna?

Resta il fascino del racconto di quel trasloco notturno dell’altare da Asti a Revigliasco e del suo collocamento all’interno della nuova sede.

Una scelta non facile con i mezzi di allora: pensare di smontare tonnellate di marmo, caricarlo con cura su carri, arrivare a Revigliasco, percorrendo la ripida salita che porta al paese, scaricare i marmi con attenzione a non rovinare le statue, entrare in chiesa, rimontare l’altare e adattarlo alla nuova collocazione fu un lavoro faticoso e impegnativo che la leggenda vuole sia stato fatto in una sola notte. Certo è che l’altare è stato adattato rispetto alla sua posa originaria e che, seppur arricchendo la parrocchiale di Revigliasco, risulta incastonato nella zona absidale della chiesa, come se fosse compresso. La comunità revigliaschese, molto legata all’opera, è stata però in grado di renderla propria, valorizzandola e curandola in tutti questi decenni.

Lo studio dell’altare così com’è oggi collocato svela più di una sorpresa. L’opera risulta essere stata tagliata ai lati per consentirne l’inserimento e, mentre i gradoni e le balaustre sono gli originali della chiesa di San Giuseppe, la mensa, interamente in marmi piemontesi e dalle tinte più tenui, è stata realizzata sul posto dopo lo spostamento a Revigliasco. Resta un mistero nel mistero. Come è stato possibile far entrare l’altare, pur smontato in molti pezzi, all’interno delle chiesa? La risposta sta nell’abile uso di funi, carrucole e pulegge e nella probabile apertura del soffitto della chiesa per farvi calare alcune parti.

C’è ancora uno spuntone di aggancio sul retro di San Giuseppe.

Un grande cartiglio superiore in cima all’altare consacra l’avvenimento. La frase latina riporta: «Munificentia imperii habitas aram sanctorq statua ex marmore praestantibus d d Iosepho et Anna loci patrona/ Ioseph Maria Bertolottus rovigliasci par praepositus erigebat anno MDCCCV».

La penultima riga risulta cancellata e difficilmente decifrabile, probabilmente modificata al momento del trasferimento. Giuseppe Maria Bertolotti risulterebbe quindi il fautore e il parroco committente dell’altare e colui che, tramite “la munificenza” dell’impero, si è occupato della sua ricostruzione all’interno della Chiesa nel 1805. È stata quindi cancellata ogni traccia della collocazione originaria e la riga finale probabilmente citava la data di costruzione dell’altare, oppure qualche altra indicazione che è poi stata abrasa.

Le statue calate dal soffitto e la sorpresa del bastone di San Giuseppe

San Giuseppe con il bastone in legno che ha sostituito quello originario in argento, dello scultore Carlo Tantardini

 

L’ultima curiosità dell’altare è il bastone che tiene in mano San Giuseppe: in origine doveva essere forse d’argento, e invece, seppur al primo impatto e da lontano risulti originale, non è altro che un manico di scopa, che qualcuno ha sapientemente dipinto e ricollocato nella mano del Santo. Nella confusione del trasloco qualcuno avrà approfittato di un attimo di distrazione del Santo?

 

 

L'AUTRICE DELL'ARTICOLO

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