La Luisa d’Ast è un dramma in dialetto piemontese, in tre atti in versi endecasillabi e un prologo, probabilmente aggiunto dopo la prima rappresentazione, ambientato nei terribili e gloriosi giorni della Repubblica Astese del luglio del 1797. A rappresentare per la prima volta la Luisa nel 1872 a Torino fu la compagnia di Tancredi Milone, allievo di Giovanni Toselli, fondatore del teatro dialettale piemontese, e di Enrico Gemelli (lo stesso che all’età di 73 anni fu chiamato da Giovanni Pastrone a interpretare il personaggio di Archimede in Cabiria e che successivamente fece parte del cast de La guerra e il sogno di Momo di Segundo de Chonon e Giovanni Pastrone). Ben poche delle opere dell’autore Mario Leoni sono state pubblicate, restando sovente i copioni allo stato di fogli manoscritti per il suggeritore. Per la Luisa il caso ha voluto che Giuseppe Sticca, uno dei redattori della rivista Torino, si appassionasse ai suoi lavori e riuscisse a farsi prestare le note per il suggeritore dalla vedova, tre anni dopo la morte dello scrittore, avvenuta nel 1931. Dopo un lungo e impegnativo lavoro di revisione, Sticca pubblicò la Luisa d’Ast sul numero di giugno 1934 della rivista Torino. L’autore si ispirò alla vibrante Repubblica d’Asti dell’anno 1797. Relazione dei fatti di Carlo Grandi astese che l’avvocato e giornalista astigiano scrisse e pubblicò nel 1850.
Di che cosa tratta la Luisa d’Ast? Del dramma privato della famiglia Arò che si compie negli stessi giorni dell’effimera Repubblica. I personaggi sono cinque: l’avvocato Secondo Arò (Secundin), suo padre (March), il Marchese di Frinco, il tintore Lorenzo (Lorens), uno dei giovani rivoluzionari, e ovviamente Luisa, moglie dell’avvocato Arò che all’epoca dei fatti è prossima a diventare madre. La scena si apre quando tutto è praticamente ormai perduto per i rivoluzionari e Secondo Arò, che riceve la notizia da Lorens che il Marchese di Frinco è entrato in città alla guida di duecento paisàn, attende in compagnia del padre di essere arrestato. A metà del primo atto compare Luisa che è la figura dominante di tutta la vicenda anche quando non è in scena. Una volta in prigione, Secondo Arò viene indotto dal Marchese di Frinco, che gli prospetta la possibilità di uscire salvo dalla vicenda e di riunirsi alla moglie, a firmare una carta di abiura. Cosa che non servirà a salvargli la vita, così come non otterrà alcun risultato il tentativo del Marchese di indurre Luisa a concedersi a lui, in cambio della vita del marito. Luisa, vera eroina della storia scritta da Leoni, rifiuta e verrà a sapere della tragica sorte del marito nelle ultime battute del dramma. È dunque dal punto di vista della famiglia Arò che si percepisce il senso della tumultuosa vicenda della Repubblica Astese. Nella realtà storica, Luisa d’Ast è Clara Morata, figlia del comandante delle milizie del Reggimento Provinciale di Asti. Clara e la sorella Teresa sposano due giovani di spicco della società astigiana di fine settecento, Secondo Arò e Giovanni Maria de Rolandis. Francesco Secondo Arò è figlio del medico Marco Antonio, personaggio importante della vita cittadina, professore di chirurgia dell’Accademia Reale di Torino, medico personale del vescovo Caissotti. L’amico compagno di studi e di nozze Giovanni Maria de Rolandis, castellalferese, è figlio del medico Giuseppe Maria e fratello di Giovanni Battista, artefice dell’insurrezione bolognese del 1794. L’avvocato Serafino Grassi, coetaneo e amico di Arò e De Rolandis, viene chiamato a celebrare il doppio matrimonio l’11 settembre 1792. La sedicenne Clara e il ventiduenne Francesco Secondo si sposano molto giovani quindi e danno subito alla luce un figlio maschio che muore prematuramente. Nei giorni della Rivoluzione Astese, Clara è incinta di una figlia che nascerà un mese dopo la tragica fine del padre. La notizia della morte è tenuta segreta per molto tempo alla giovane moglie e i parenti tutti le creano intorno una barriera. La barriera difensiva si rendeva necessaria poiché sulla figura dell’Arò – che al momento della rivoluzione si era caricato di tutte le responsabilità della neonata repubblica costituita la notte tra il 27 e il 28 luglio 1797 assumendone la presidenza e condividendone le sorti fino alla fucilazione del 2 agosto – si accanivano ormai le ingiurie popolari. Basti ricordare che la leggenda vuole che l’Arò, il mattino stesso del supplizio, avesse chiesto pubblicamente perdono della minaccia che in un impeto di esaltazione egli avrebbe scagliato contro il proprio nascituro. L’abate Incisa, facendosi eco della voce popolare, racconta che «l’avvocato Arò avrebbe detto a Clara che egli intendeva chiamare col nome di Bruto il nascituro, qualora questi fosse stato un maschio, e ciò per consacrarlo alla memoria del celebre Bruto che entrò nella congiura contro Cesare per la libertà di Roma, ma che se ella per disavventura avesse dato alla luce una femmina egli gliel’avrebbe strangolata davanti agli occhi». Il disprezzo popolare si era compiaciuto anche della vista dei condannati alla fucilazione in piazza d’Armi, di là dai bastioni, la mattina del 2 agosto, e dei loro cadaveri esposti fino a sera sulla piazza e quindi sepolti “more pauperum” nel cimitero del Santo. Va ricordato che il governo francese di occupazione il 29 febbraio del 1799 riconobbe a Clara Morata dignità e onore di patriota come vedova di un eroe. Ma con la Restaurazione tutto venne nuovamente cancellato e della vedova Arò si ritroveranno tracce solo nel 1834, quando dovette subire la vendita di edifici di sua proprietà a copertura di debiti. Una lettura teatralizzata del dramma è stata portata in scena al ristorante Tambass di Rocca d’Arazzo durante la cena del 30 novembre da Fabio Fassio, Elena Romano, Giulio Berruquier e Pierluigi Berta. Sarà replicata, sempre al Tambass, durante la cena di venerdì 30 gennaio prossimo.
La Scheda