Giuseppe Veglio
8 settembre 1922-20 marzo 2014
Medico
Tornerò a percorrere la strada in salita che dal cuore della città porta alle vecchie mura, ritrovando i miei passi, incrociando forse persone distratte, che non mi riconosceranno. E sarà bene così, perché più leggero sarà il mio cammino, senza il dovere dei saluti, persa ormai l’abitudine a quel «buona sera, dottore», incrociato tante volte. Quante volte ho risposto con un sorriso, quel mio sorriso un po’ schivo, che celava il bisogno di discrezione, la mia riservatezza. Così, fino agli ultimi giorni, al momento dell’addio, con la richiesta insistita di passare sottovoce parola, di lasciarmi allontanare nel silenzio di un ricordo intenso e discreto, appunto, senza voler frugare, come spesso si fa, anche per affetto, nei ricordi miei e di chi mi ha amato. Sarà in una sera di stelle e passerò accanto agli amici del “mio” Lions, quando si attarderanno nello spiazzo buio, dopo una serata, per terminare una conversazione da ore iniziata. Forse, penseranno che sia l’aria della notte a sfiorarli, mentre sarò io. «C’ero, questa sera c’ero anch’io», dirò loro in un soffio, guardandoli, impeccabile come sempre, con il mio papillon e quel sorriso, forse, malinconicamente ironico. Non mi sentiranno, ma non importa: io, che fui fra i soci fondatori del Club, li avrò rivisti tutti, scorgendo anche qualche volto nuovo fra quelli degli amici e colleghi di un tempo. Sarà nel silenzio della foglia tenera che si tende da una piantina in un orto, l’orgoglio del mio tempo libero. Sarà in quel fragile ciclico rinascere il mio addio. Anzi, il mio arrivederci.
Aldo Cavagnero
3 dicembre 1942-8 aprile 2014
Cuoco e ristoratore
L’avevano detto, i medici, che l’ultimo traguardo non era lontano, ma non pensavo così vicino. Ho avuto appena il tempo di mettere a punto il menu di mezzogiorno che già me ne andavo in ospedale guidando per l’ultima volta la mia macchina. Andavo un’altra volta in salita e non potevo non pensare a quella scala – gradini rigorosamente di marmo – che nel vecchio Salera portava al piano del ristorante e della cucina. Per andare ai tavoli andavi dritto, passando davanti all’ufficio in cui Joselito provava accordi piuttosto di compilare la dulurusa, entravi nel grande salone. Io, invece, da quel giovane apprendista che ero, in una delle cucine più famose e prestigiose del vecchio Piemonte, svoltavo a destra e imparavo da gente che badava al sodo, non sapeva che cosa fossero le rivisitazioni, e faceva cose più difficili come fossero la normalità. Senza falsa modestia, credo di aver preso il meglio da quei signori e così sono salito un’altra volta per andare a guidare la cucina del nuovo Salera. E ancora salendo, sono arrivato a Castiglione. Per trent’anni un nido per me e la mia famiglia, tanto che “di Castiglione” era quasi diventato un attributo nobiliare. Il mio orgoglio è però quello di non aver mai mollato sull’autenticità della cucina piemontese, tra i pochi a proporre ancora la selvaggina. La mia lepre credo se la ricorderanno in molti. E anche la finanziera continua a vivere nelle mani di Milena al Ricetto di Portacomaro.
Domenico “Mingo” Chiodo
27 giugno 1926-18 maggio 2014
Assicuratore e musicista jazz
Ho vissuto sulla retta via, sempre tenendo rigorosamente la destra. Ho conservato l’indole del toscanaccio anche ad Asti dove ho fatto l’assicuratore, avendo radici a Genova dove ho conosciuto e mi sono innamorato del jazz. Ho vissuto con quella musica nelle orecchie e riesco ancora a fischiettare all’incontrario qualsiasi brano scritto da Ellington o da Carmichael. Se venite a trovarmi, non voglio fiori né preghiere. Portate un giradischi e fate girare Stardust.
Giovanni Bosia
22 aprile 1924-22 maggio 2014
Partigiano e dirigente d’azienda
Mio padre se n’è andato presto, sotto l’occhio vigile di mia madre sono diventato ragioniere. Ma fu la guerra a strapparmi dal lavoro nell’azienda di famiglia: calzato il cappello da bersagliere, marciai fino in Russia e conobbi gli orrori di quell’impresa disperata. Tornato a casa, i repubblichini volevano arruolare noi del 1924. Io mi chiamo Giovanni Libero Bosia, e quel “Libero” l’ho sbattuto in faccia ai fascisti. Nemmeno mia madre si è lasciata intimorire da loro, quando l’hanno trattenuta nel Seminario insieme a tanti altri famigliari dei renitenti alla leva. Ho lasciato Asti e sono diventato partigiano garibaldino, appena a sud del Tanaro. Dopo quel 25 aprile ho lavorato duro, ma non ho dimenticato. Ho scritto molto sulla guerra e sulla mia esperienza da partigiano. Ho spiegato ai giovani perché noi giovani in quegli anni avevamo combattuto e creduto nella libertà, la nostra e la loro. Avevo il cappello da bersagliere pronto per il giorno in cui le fanfare si sarebbero date appuntamento nella mia città. Ma non sono mai stato uno che si abbatte: il raduno lo vivrò lo stesso, chiamando da quassù la carica dei bersaglieri.