Cesarìn attaccò dal coro il suo Magnificat tonante di ogni domenica quando, dalla porta di fondo, quasi in punta di piedi, entrarono alla spicciolata i giovani, facendo voltare le poche donne, e qualche uomo, che assistevano ai vespri domenicali. Ci fu incertezza generale nel versetto di risposta, che uscì stentato e a più voci discordi.
Cesarìn, che da dietro l’altare non aveva visto nulla, riprese quasi stizzito mandando la voce a riempire ogni angolo della chiesa, fintanto che le finestre tintinnarono. «Venitemi dietro!» – sembrava voler dire con l’imperiosità del canto, di cui pochi potevano sostenere la potenza.
Di là, nella navata, le donne si erano ricomposte e rispondevano ormai nella normalità del loro tono querulo e lamentoso, che qualche sporadica voce maschile rinforzava. Chi non si riprendeva era l’arciprete che, salito sul pulpito per la dottrina festiva, guardava con un certo disagio quelle inaspettate figure irrequiete e colorate tra i tranquilli e monocromi fedeli di sempre. Nella sua esposizione andò in confusione, non riuscì chiaro come le altre volte, non aveva pronte le applicazioni pratiche per un’età che da tempo non vedeva nei banchi la domenica pomeriggio. Fece qualche improvvisazione azzardata e chiuse prima.
Poi tutto avvenne come sempre. Indossò il piviale, intonò il Tota pulchra es Maria, poi il Tantum ergo, diede la benedizione e infine con l’Andrò a vederla un dì scappò in sacrestia…
Il nuovo curato, dal sorriso che sapeva di timidezza, dalla tenda del coro aveva guardato, anche lui stranito, quella platea che si era mossa e ricomposta in pochi minuti, cambiando però la solita geografia della chiesa.
Era arrivato da pochi mesi in parrocchia, nei primi giorni delle vacanze d’agosto del 1967. L’estate era stata un disastro: il paese sembrava un deserto, per lui ancora troppo giovane, che arrivava da una vivace parrocchia di città. Riuscì a conoscere i ragazzi solo in settembre. Vestiva in borghese, andava al bar – al bar? – e fumava anche, e troppo.
«Ecco che, appena venuto meno l’obbligo della talare, i preti sono come gli altri. A-i soma!…» dicevano dietro i pilastri dei portici le donne devote.
I primi ad andargli dietro furono i ventenni, incantati da quell’essere fuori le righe, da quel viso aperto che dava fiducia, da quel non chiedere mai, da quel permettere a tutti di usare del suo. Aveva una Cinquecento bianca, d’occasione, che lasciava sempre aperta, disponibile per chi aveva fame di libertà, soprattutto la domenica pomeriggio anziché le funzioni del vespro, in cinque, con le ragazze strette sul sedile dietro. Uno poi gliel’aveva lasciata nel fango, una sera di pioggia che si era appartato nei prati con la morosa.
Un giorno l’arciprete glielo aveva detto, facendosi forza, perché un po’ timido anche lui: «Insomma, cosa dirà la gente?». Lui lo aveva ripetuto ai suoi giovani, non proprio così, ma: «E se veniste anche voi al vespro la domenica? Il parroco ne sarebbe contento!». Da qui l’insolita, ma unica, partecipazione ai vespri del pomeriggio festivo. Tutti avevano subito capito che non era il caso di insistere: al parroco non piacevano le forzature; figurarsi a lui! Al poco popolo, e anziano, che ancora partecipava con i canti in latino sarebbe stato come se glieli volessero portare via quei vespri che sapevano di antico, di loro giovinezza. Ognuno si riprese la propria libertà.
Tutti i giorni un’idea nuova che buttava lì a maturare. Le recite con seguito di folle entusiaste; i cinema con dibattito, nei quali si scontravano, fino a tardi la notte, i moschettieri della regina contro le guardie del cardinale, nella convinzione tutti di interpretare il mondo; perfino le visite ai detenuti in carcere.
«Come?… andate alle Nuove? Mah!», bofonchiavano le persone serie.
Poi le gite in montagna sulla neve e quel primo campeggio al mare, nell’estate del ’68, ragazzi e ragazze insieme. Non pareva vero: sembrava di essere in un film.
Erano partiti di notte dal cortile di Carlo con i mezzi più diversi: sull’auto del papà, sulla Vespa, sul motorino, qualcuno in treno, e la sua Cinquecento bianca ad aprire il corteo, schiacciata a terra dall’armamentario di cucina altissimo e pesante sul tettuccio. Arrancarono per sette ore e più per i tornanti di Langa e poi oltre Ceva, perdendo e ritrovando la strada. Giunsero con il sole di mezzogiorno e finalmente incontrarono, qualcuno per la prima volta, il blu dell’acqua appena increspata.
Fu un successo da stordire. Di giorno a giocare sulla sabbia sporca di catrame, a buttare in acqua le ragazze per la prima volta in bikini, a tentare di nuotare. La sera, prima di cena, la Messa tra le tende e le donne in costume da bagno, che, a disagio, fuggirono a coprirsi la prima volta, per tornare poi compunte e vestite ogni giorno, con i bambini, talvolta con i mariti. Di notte andava il mangiadischi a manetta, per attirare le straniere, più libere e disinvolte delle nostre, con le quali si parlava a gesti. Li spostarono presto in un angolo tutto per loro, dopo che i campeggiatori presero a lamentarsi. Al ritorno avevano amici dappertutto.
Sembrò che dovesse durare per sempre: nacquero amori e promesse di matrimonio, si spezzarono legami, si ricomposero, si pianse, si sperò, si ricominciò, tra quinte di teatri, tra gite domenicali, tra aule universitarie e accese discussioni nel bar di Vigìn, o serate in auto a parlarsi addosso.
Il punto di riferimento rimaneva comunque don Antonio, così si chiamava, che li aspettava fino a tardi con la sigaretta in bocca, desideroso quanto loro di compagnia, di affetto, di confidenze.
Un giorno disse che partiva per l’Africa. Lo guardarono a bocca aperta e non capirono. Dov’era l’Africa? E perché? Non potevano credere che finisse così. Le ragazze piansero e si disperarono.
In tanti lo accompagnarono a Torino un mattino presto di fine luglio, passando da casa sua a prendere i genitori per portarli all’aeroporto a veder partire il loro figliolo. Il papà stette da solo, in disparte, frastornato dalla confusione, toccandosi gli occhi ogni tanto. Lo salutammo sulla pista. Dalla scaletta ci fece ancora un cenno col braccio e buttò la sigaretta. Se ne andò, con quel curato, una stagione incredibile. Con lui avevamo scoperto il mondo.
Gli scrissero e qualcuno andò a trovarlo fin laggiù, portando piantine di vite e di fragole, come lui aveva chiesto. Vennero a sapere che, appena arrivato, era stato aggredito e ripulito di ogni suo avere. Lui rideva a raccontarlo, con la più naturale noncuranza.
Tornò da Hirè, Costa d’Avorio, quando i suoi ragazzi erano ormai adulti con mogli, mariti, figli e una professione. Era malato al cuore, ma dopo l’operazione sembrava si stesse riprendendo.
Gli diedero una piccola parrocchia sulle colline del moscato; sopra la porta d’ingresso della chiesa fece collocare una copertura in legno come di capanna africana, con la voglia tutti i giorni di tornare laggiù. Lo vedevi dagli occhi scuri, dolcissimi, persi. I capelli, radi, non erano ancora bianchi, portava grossi occhiali su un viso piccolo e il sorriso gli scopriva i denti rovinati dal fumo e dall’Africa.
Era di nuovo estate, un 22 di luglio, quando ripartì un’altra volta. Non vide il camion che gli veniva contro sulla statale, nella canicola di mezzogiorno. Aveva poco più di cinquant’anni.
Gli amici di un tempo si ritrovarono al suo funerale, forse per l’ultima volta, portandosi dietro i figli già grandi, che guardavano stupiti e increduli i lucciconi sulle guance dei padri e delle madri. Stavolta piangevano anche gli uomini, insieme alle donne.
Quando arrivò la notizia a Hirè, ai margini della foresta, davanti alla chiesa e alla maternità, che aveva costruito con le mani sue e con quelle di confratelli e di suore, danzarono un giorno intero i suoi giovani e le sue donne di laggiù, avvolti nei camicioni colorati, con i passi che lui aveva imparato e che talvolta mostrava di saper fare. Attorno al piccolo monumento di pietra con la sua foto lo chiamarono un giorno e una notte al rullo dei tamburi. Erano venuti da lontano, dalla brousse e dalla foresta, con i figli e le provviste.
Passo talvolta in bicicletta sulla salita che corre accanto al cimitero del suo paese. Non scendo mai a trovarlo, ma gli urlo al volo un saluto. Una sera, che andavo per paesi a distribuire i manifesti del nostro cineforum, ne affissi uno sulla porta d’ingresso. Erano più di quarant’anni che avevamo iniziato insieme a fare i cinema con dibattito e non avevamo ancora smesso. Volevo che lui lo sapesse.
Don Antonio Gariglio nacque a Pralormo il 13 febbraio 1938; fu il vice di Don Gino Bosticco alla Torretta di Asti fino al 1967; rimase a San Damiano nella parrocchia di San Vincenzo dall’estate del 1967 all’estate del 1969; la sua Africa terminò nel 1987; si scontrò con la morte il 22 luglio 1991 sulla strada verso casa.
Era parroco alla Piana del Salto di Calosso.