Raro trovare in un libro “scientifico”, chè tale è questo, una prefazione così sintetica e completa. Che nessuno cada nell’errore di tralasciare la prefazione per la curiosità di tuffarsi subito in un testo ricchissimo che è, insieme, la piacevolissima scoperta di un “mondo”, un mondo piccolo che va da corso Torino a San Pietro, e al contempo un mondo grande di cultura, di relazioni, di lavoro, di divertimento, un mondo che si distingue da tutti gli altri, in definitiva unico. La prefazione ci dice proprio di che mondo si tratta, che linguaggio è il gergo: il gergo è una lingua, anzi un’antilingua usata da categorie sociali definite marginali, con una valenza di contrapposizione alla lingua della società istituzionale, che esprime una controcultura di opposizione e di resistenza rispetto alle norme. È l’esigenza di un “parlare nascosto” che sottolinea l’appartenenza a un gruppo. Dopo aver letto la prefazione, ci si addentra nel testo vero e proprio, che è suddiviso in 14 capitoli elencati in ordine alfabetico che indicano le categorie: alimentazione, amore, corpo umano ecc. e sottocapitoli che rendono semplice e facile la lettura, grazie anche alla scelta di utilizzare un vocabolario il più possibile vicino a quello italiano.
Alla fine una raccolta di detti e proverbi, modi di dire, elenco di aggettivi. Il libro è frutto di un lavoro certosino, appassionato e intelligente. Scrive Pippo Sacco nella prefazione: «…per un’operazione di salvataggio della memoria e della cultura locale nasce questo lavoro […] non solo per consegnare agli studiosi una documentazione importante, ma soprattutto per richiamare dal silenzio una storia minore e per riscattare a una giusta dignità le migliaia e migliaia di lavoratori che l’hanno usato. In un sistema sociale ed economico imperniato sui privilegi delle classi più abbienti, il gergo consentiva ai più umili di rivalersi esprimendosi con un fraseggio esclusivo, che permetteva loro di sentenziare impunemente giudizi tranchants ed opinioni trasgressive al riparo della segretezza di un codice linguistico non compreso da chi non faceva parte di quella élite.» Dalle parole dello stesso Pippo Sacco si capisce bene che il volume non entra nella schiera qualche volta triste dei volumi “nostalgici”, ma costituisce veramente un’importante pietra della storia linguistica di Asti, che non c’era. Lo arricchiscono godibilissimi disegni di Paolo Fresu, che accompagnano con delicatezza attraverso il viaggio delle parole degli uomini e delle donne astigiani. Il gergo è scomparso dalla fine degli anni ’50 con la scomparsa degli ultimi astigiani “puri”, con la contaminazione conseguente alle immigrazioni dalle altre regioni (Veneto, dopo l’alluvione del Polesine, Meridione), con la progressiva e forte scolarizzazione e il conseguente apprendimento della lingua italiana, elemento aggregante e unificante. Il titolo.
La bùla di còj è Asti: così è stata sempre chiamata, una conca fra le colline (bùla), a vocazione prettamente agricola di còj, dei cavoli, appunto.