sabato 27 Luglio, 2024
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Imparare l’inglese nella California dei figli dei fiori

Agosto ’72, una futura insegnante tra “capelloni” e abitudini yankee
Franca Valente, partita a vent'anni per studiare l'inglese negli Stati Uniti e tornata a casa carica di esperienze e ricordi.

Se vuoi leggere un romanzo in inglese, Amazon te lo recapita a casa in due giorni.

Un film di Hollywood in lingua originale?

Basta un clic su Netflix. Oggi l’accesso a contenuti in lingua è immediato, ma le cose non erano altrettanto facili per chi ha iniziato a studiare l’inglese qualche decennio fa.

I film in versione originale erano proiettati in rari cinema nelle grandi città, e per trovare testi in lingua occorreva entrare nella libreria Luxemburg di Torino.

C’era solo una strada per imparare davvero: salire su un aereo e vivere un periodo dove l’inglese fosse l’unica lingua parlata. Nell’estate del 1972 avevo appena concluso il mio primo anno di università. A Torino il corso di Lingue e letterature straniere era nato da poco.

Al Classico Alfieri avevo studiato inglese per i due anni del ginnasio, il che era più o meno tutto quello che sapevo. Con l’idea di cambiare prospettive e la necessità di imparare la lingua, decisi di partire per l’America. Era il paese che avevamo visto al cinema, ma era anche il paese delle battaglie civili di Kennedy e Martin Luther King, degli estremismi di Malcolm X e delle Pantere Nere.

Attraverso alcuni conoscenti presi contatto con una famiglia di origine italiana a San Jose in California, che accettò di ospitarmi per tutto il mese di agosto. Non mi ero mai allontanata troppo dal Piemonte, al massimo qualche puntata in Francia e Svizzera. E ora a vent’anni stavo per prendere il mio primo volo. Ricordo ancora l’emozione quando mi trovai di fronte l’enorme Boeing 747 della TWA.

 

“I miei ospiti sorpresi mi chiesero se in Italia avessimo la luce elettrica”

 

In barca nella baia di San Francisco prima di una battuta di pesca

 

Il primo ricordo che conservo degli Stati Uniti è il sorvolo delle Montagne rocciose. All’aeroporto di San Francisco mi aspettava la famiglia, rimasero sorpresi nel vedere arrivare una ragazza italiana con jeans a zampa d’elefante e t-shirt. Rimasti ancora alle immagini del dopoguerra, forse aspettavano una giovane donna vestita di nero. D’altra parte mi chiesero anche se dove vivevo io ci fosse la luce elettrica. Appena messo piede in casa, mi offrirono un bicchierone di whisky sour che mi fece girare la testa. In compenso mi sciolse la lingua e il mio inglese fu subito più fluido.

Si chiamavano John e Caroline. Lui era un idraulico, lei la tipica moglie americana. Cocktail a parte, mi accolsero calorosamente. La loro quotidianità per me era il set di un film con Doris Day: la villetta di periferia, il giardino, l’angolo bar, il barbecue. Conobbi anche la madre di John, una vedova originaria di Scandeluzza. Era felice di parlare in italiano e ricordo la sua collezione di vinili di Frank Sinatra. E poi c’erano anche i due figli della coppia, due ragazzi che mi aiutarono a mettermi a mio agio con l’inglese. L’impatto con la lingua parlata non fu facile, non capivo tutto quello che dicevano. Ma mi misi d’impegno e presi l’abitudine di segnare su un notes le frasi idiomatiche. Non seguii corsi, ma imparai il più possibile da quel mese alla scoperta dell’America.

Sentivo parlare, mentre ero lì, degli scontri a San Jose tra Pantere Nere e bianchi. In città vidi le manifestazioni contro la guerra in Vietnam, che sarebbe terminata solo tre anni più tardi. Andai al cinema a vedere Il Padrino, comprai anche il libro. Tra l’altro, proprio in quel periodo diedero alle fiamme alcune librerie che vendevano copie del romanzo di Mario Puzo.

 

Gli hippy nei negozi di dischi e il rito della spesa in auto al supermercato

 

 

In auto sentivamo la radio che passava rock, ma spesso i miei ospiti cambiavano stazione perché non apprezzavano molto il genere. Eppure l’onda hippy era al suo massimo. A San Jose e San Francisco c’erano numerosi negozi di musica tenuti da autentici “capelloni”, dove si trovavano i vinili di Deep Purple, Pink Floyd, Doors, Rolling Stones. Gli anni Settanta sono entrati nell’immaginario collettivo come il periodo delle esperienze allucinogene e dell’amore libero. Gli unici accenni che vidi di tutto questo furono i primi topless in spiaggia. Ma in California quello dei figli dei fiori era un modo di vivere diffuso, e c’erano davvero persone con i fiori nei capelli, portati lunghi sulla schiena.

Ad Asti i ragazzi portavano al massimo i capelli a mezzo collo, mentre gli hippy mi apparivano come personaggi al di là di ogni stravaganza vista fino ad allora. John e Caroline erano tutto l’opposto. Conobbi allora per la prima volta quelle che solo anni più tardi diventarono consuetudini anche per noi italiani. Il cibo spazzatura era una realtà già allora. Io venivo da una famiglia piemontese che curava molto la cucina, tutto mi sembrava poco attraente e soprattutto disordinato. John, Caroline e i loro figli mangiavano a orari del tutto casuali. Rimasi colpita anche dal loro modo di fare acquisti. Conobbi da vicino il consumismo e 46 anni fa, sperimentai il rito collettivo di riempire l’auto di articoli dozzinali ai grandi magazzini. Certamente, nelle grandi città italiane esisteva La Rinascente e ad Asti c’era l’Upim, ma noi astigiani eravamo ancora abituati alla bottega che vendeva solo specifici prodotti. In quel mese viaggiammo moltissimo nei dintorni: pescammo salmoni nella baia – non ho mai più assaggiato dei salmoni così buoni! – e andammo a Yosemite, di cui ricordo i panorami vastissimi. Parlando di vino, ed essendo loro di origine piemontese, mi proposero di vedere la loro Asti.

Fino ad allora avevo ignorato l’esistenza di un posto che si chiamava come la mia città. Visitammo una grande cantina piena di turisti e scoprii che Asti era il posto più visitato in California dopo Disney Land. Assaggiai la loro barbera, ricordo che la trovai molto diversa dalla nostra. L’agosto del ‘72 passò in fretta. Salutai John, Caroline e il resto della famiglia. Ci scrivemmo di tanto in tanto, ma non li vidi mai più. Al ritorno in Italia mi resi conto che il mio inglese era molto migliorato. Continuai a vivere un po’ come se fossi in America abbonandomi alla rivista Time, mi innamorai della loro letteratura e per questo Fernanda Pivano divenne uno dei miei miti. Ho insegnato inglese per quarant’anni, e se ho trasmesso questa passione ai miei studenti lo devo anche a quell’indimenticabile estate in California.

L'AUTRICE DELL'ARTICOLO

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