Anche ad Asti si è vissuta una stagione di scherzi, paradossi, provocazioni
Chi erano i goliardi? Coloro che sono sotto i cinquant’anni probabilmente lo ignorano. Anche ad Asti, pur non essendo stata sede universitaria, visse lo spirito goliardico, con i suoi riti, il linguaggio sboccato, il latino maccheronico, la voglia di ridere e scherzare, i veglioni e le feste. Non si badava a quello che oggi definiremmo “politicamente corretto”, in un clima di “nonnismo” imperante e di sempre viva allusione sessuale, con una presenza di adepti quasi esclusivamente maschile. Gli studenti universitari, sulla lontana e lunga scia dei clerices vagantes medievali, conducevano vita allegra, scanzonata, senza troppi pensieri “seri”, ma dediti al divertimento e a scherzi boccacceschi. Spirito goliardico che si rifà al Carpe diem di oraziana memoria e ai versi di Lorenzo il Magnifico («Quant’è bella giovinezza/che si fugge tuttavia/chi vuol essere lieto sia/del doman non v’è certezza») e che è perfettamente espresso in uno dei più famosi canti goliardici, datato 1781, divenuto inno internazionale della goliardia, che nelle sue prime strofe così recita :
Gaudeamus igitur juvenes
dum sumus.
Post iucundam iuventutem
Post molestam senectutem
Nos habebit humus.
Vita nostra brevis est,
brevi finietur.
Venit mors velociter
Rapit nos atrociter
Nemini parcetur.
L’esortazione è un invito a godersela fintanto che si è giovani poiché, dopo l’allegra gioventù e la scomoda vecchiaia, ci riceverà la terra. La nostra vita è breve e presto finirà; la morte arriva velocemente e ci porta via atrocemente senza risparmiare nessuno. Ma lo stesso spirito materialista e libertino si ritrova già nei Carmina Burana del XIII sec. Quanto di questo spirito goliardico sia rimasto nel procedere degli anni è difficile dire. Nelle città di più antica tradizione universitaria ci sono segni di rinnovata goliardia e si mettono ancora in scena spettacoli. Ad Asti, invece, finì tutto con il post ’68, dopo circa un quarto di secolo di vita attiva. La goliardia fu di fatto spazzata dal vento della contestazione e relegata tra le cose del passato. Anche l’allargamento dell’accesso alle varie facoltà a tutti i diplomati, fino ad allora limitato solo a chi proveniva dai licei, contribuì a disperdere lo spirito goliardico, che trovava humus nelle conventicole e in giri di amicizie piuttosto stretti.
La memoria degli ultimi goliardi
Non è facile ricostruire fatti e misfatti della goliardia astigiana, ma con l’aiuto di alcuni di buona memoria qualche importante pezzo si è potuto mettere insieme. Pur tuttavia sono rimaste immagini e memorie di chi oggi, con qualche decennio di anni in più, non dimentica quella stagione. E per questo ringrazio il dott. Beppe De Stefano (Pater Calissuarius I), il dott. Giorgio Pronzato (Pater Laserta), l’avv. Giancarlo Caracciolo (Pater Bandosus) e coloro che hanno accresciuto il mio archivio fotografico come il dott. Mario Zarrella, l’avv. Maria Bagnadentro, Pepe Goria, Pino Gammino e il Priore mio predecessore Aiace De Benedictis (Pater Rivarum Borboris). In un articolo del Cittadino del 1954 si legge che Beppe De Stefano (sì, proprio lui, il grande Bepi, che fu l’artefice dei successi del basket astigiano prima, e poi torinese e trevigiano) venne eletto Priore della Gran Natta e lui fu il decimo Priore. Si deduce che la Gran Natta, organo esecutivo del M.O.N.A. (Magnus Ordo Nattarum Astensis) ebbe origine nell’immediato dopoguerra e i padri fondatori furono personaggi come Gianni Ligotti (futuro medico) che diventò pure Pontifex Maximus a Torino, la massima autorità regionale, Lorenzo “Bursùn” Bagnadentro (ingegnere), Francesco Nela (avvocato), Franco Boccalatte (medico), Filippo Ferrero (professore), il dott. Eugenio Flora e qualcun altro di cui si sono perdute le tracce. Negli anni immediatamente successivi, come annota il prof. Venanzio Malfatto nel suo libro Asti, testimonianze di ieri…, aderirono nuove e attivissime leve come il dott. Beppe De Stefano, l’avv. Piero Bagnadentro (Bursunèt), l’avv. Gigi Gambino, il medico Silvio Fiora, il dott. Gian Mario Molino, il chimico Giuseppe Bosco, l’avv. Gianfranco Valente, il prof. Sergio Duce, il dott. Luciano Bassignana, il dentista Marcello Goria, l’avv. Giancarlo Caracciolo e tutti coloro che sono raffigurati nella foto di gruppo del 1957. La goliardia era esistita anche nei decenni precedenti e dopo vent’anni di irreggimentazione nel GUF di ispirazione fascista e strettamente legato al regime, con la fine della guerra i giovani universitari ebbero una liberatoria esplosione di vita che si manifestò nelle feriae matricularum. Le feste delle matricole. Non c’è da stupirsi che l’anno di rifondazione della goliardia sia stato proprio il 1945: dopo gli anni bui e dolorosi del secondo conflitto mondiale, la gente aveva voglia di divertirsi.
Dopo la guerra il movimento goliardico riprese vita
E a quei tempi il modo più immediato per divertirsi erano i balli, le feste, i veglioni. Un modo “legale” e consolidato per potersi avvicinare, parlarsi, socializzare tra i sessi, allora molto più divisi.
A novembre all’apertura dell’anno accademico c’era il veglione delle matricole
Aprirono, o riaprirono, negli anni vecchie sale da ballo e si organizzarono veglioni, i più famosi dei quali furono il veglione dell’Asti Spumante (più d’élite), quello dello Sport (più popolare) che si tenevano al Teatro Alfieri e poi il veglione delle matricole al Winter Garden, nelle cantine sotto il bar Roma (che occupava i locali degli odierni Eataly, Prenatal e Bottega Verde). Il Winter Garden fu la sala da ballo più chic della città, sotto la lunga gestione, dal 1948 al 1967, di Renato Scarzella. Poi, quando la licenza del locale passò ad altra mano, gli ultimi tre veglioni delle matricole si svolsero all’Hotel Salera.
La parata per le vie del centro
Come ricorda il dott. Giorgio Pronzato, tra il 1953 e 1956 (ma anche negli anni successivi) c’era la tradizionale sfilata per le vie del centro di una decina di matricole mascherate da frati cappuccini e salmodianti irrispettose litanie, preceduti in un paio d’occasioni dai futuri avvocati Gigi Gambino e Piero Bagnadentro, in divisa di agenti di una improbabile polizia con giaccone di cuoio, casco, occhialoni, fischietto e paletta; il primo alla guida e l’altro sul sidecar di una scoppiettante Zundapp della Wermacht, recuperata chissà come. Sui lati della strada la gente assisteva divertita. Quando il corteo giungeva in piazza Alfieri avveniva il classico processo con l’“impiccagione” delle foetentissimae matriculae al monumento del sommo trageda. Il clou delle feriae matricularum era il veglione che si teneva in novembre con l’apertura dell’anno accademico ed era il primo in città. E pure le orchestre dal vivo (prima quella dell’alessandrino Pautré e poi di Pino e gli Alfieri, che suonò nell’ultimo decennio) se la cavavano molto bene. La frequentazione era in massima parte studentesca da parte maschile, mentre il pubblico femminile era più variegato, con la malcelata speranza, da parte delle fanciulle e delle loro madri, di trovare uno buon “partito”. La costante era sempre la stessa: le ragazze erano accompagnate da uno stuolo di madri, zie e sorelle maggiori con ruolo di osservatrici, consigliere e custodi della loro “virtù”. Le sfilate goliardiche erano soggette a permesso della Questura, quasi che potessero essere potenzialmente sediziose. E pure il veglione era controllato dalle forze dell’ordine. In realtà non accadde mai nulla di sconveniente e i poliziotti di servizio chiudevano benevolmente un occhio (anche tutt’e due).
Si organizzavano le feriae matricularum
La preparazione al veglione era molto scrupolosa per far sì che le feriae matricuralum riuscissero al meglio. Il quartier generale fu per i primi vent’anni il bar Lupi di corso Dante, gestito da certo Ghersi, e poi negli Anni ’60 e ’70 da Dario Bordero con la sorella Olga che sapevano parlare francese e pretendevano l’accento sulla “o” finale del loro cognome in quanto reduci dalla Francia dov’erano emigrati. Questo era il luogo di riunione dei “lupini” dove, agli studenti, si mescolavano anche personaggi di varia estrazione sociale e non studenti come Domenico “Mingo” Chiodo, assicuratore genovese, suonatore di clarino e grande jazzofilo il quale sosteneva di saper fischiare un qualsiasi motivo al contrario; ci passava pure Giorgio Griffa (il sig. Waya), e qualche capatina la faceva anche Paolo Conte, ancora liceale, con il fratello Giorgio, dalla vicina abitazione, prima ancora di entrare in un gruppo di “lupini” amanti del jazz (sotto la guida di Mingo Chiodo), di cui facevano parte altri goliardi come Beppe Scialuga detto Cicalino, Giorgio Pronzato, Dodi Bocco e Gianluigi Bravo. Le serate si trascorrevano, invece, alla Petrolcaltex (poi diventata La Grotta), dove si facevano mangiate colossali di lumache alla parigina fino alle ore piccole. Capitava spesso che qualche avventore facesse poi una capatina dalla siora Rita (siamo prima del 1958) nella casa chiusa di via Arò 20, dove oggi c’è l’ingresso dell’oratorio di Santa Maria Nuova. Poi, con il cambio generazionale e la mutazione dei tempi, il luogo di incontro per eccellenza fu il bar Cocchi, destinato a diventare in seguito il centro nevralgico della vita sociale cittadina. Le riunioni, invece, si tenevano presso qualche piola doc, in particolare nell’Antica Locanda del Popolo di via Garibaldi, gestita da Bino Freilino, diventata poi Il Vicoletto, mentre ora è una banca. La goliardia, che aveva il suo momento top con il veglione, finì praticamente nel 1970, ma lo spirito goliardico continuò per anni al bar Cocchi e al suo mitico “angolo dei fessi”, fino al 31 luglio 1986 quando i bravi gestori Mini Sardi e Beppe Lovisone cedettero l’attività. Poi, fu tutta un’altra cosa. L’organizzazione delle feriae matricularum, preceduta dall’elezione annuale del Priore che, con i suoi consiglieri (i “venerabili cardinali”), dava gli input necessari, consisteva in varie fasi: prima di tutto la questua, poi gli scherzi a danno delle foetentissime matriculae che per poter vivere “tranquille” dovevano munirsi del classico “papiro”, un foglio di carta pieno zeppo di disegni osceni e scurrilità di ogni genere. A dir la verità, però, non ci furono mai vessazioni tali da oltrepassare il lecito consentito. Si cercava, piuttosto, di giungere a un gentleman agreement per la riuscita delle feste. Infine, si decidevano le gags da rappresentare durante il veglione.
Nel 1966 furono messe in palio anche serenate d’amore
Quello della questua era compito affidato alle matricole e ai “famelici fagioli”. Consisteva nel fare il giro degli esercizi commerciali per raccogliere quanto più si poteva, sia per “fare cassa”, sia per avere regali da mettere in palio durante la veglia. Soprattutto si cercava di raccogliere il maggior numero di bottiglie di vino, Asti Spumante e altra roba mangereccia. Si ricorda che qualche commerciante si dimostrava piuttosto rancino, altri erano generosi, come Aldo Giordanino che offriva due Polentine alle mandorle formato maxi, su cui il pasticciere scriveva, con la sua chiara e inimitabile grafia, “Omaggio per la goliardia”. Il consumo delle polentine era, ovviamente, riservato agli anziani. Nella settimana precedente il veglione il battage pubblicitario era forte, supportato anche dai giornali locali. Si faceva un po’ di tutto: matricole vestite da uomini-sandwich in giro per le vie del centro e altre messe in vetrina nei negozi in corso Alfieri di Spinnler (oggi Tally Weil) e Truffa (oggi parte del bar Cocchi). Poi ancora le sfilate delle matricole (maschi) vestite con il saio penitenziale (alla cui confezione concorrevano le matricole femmine) che si concludeva con il loro processo. Un anno, era il 1956, ci fu da parte dei goliardi il (finto) rapimento di Gianduia e Giacometta portati in Comune per la richiesta del riscatto e qualche anno dopo venne rapito il barcaiolo Rocca, restituito poi in cambio di una cena.
Nel 1964 i goliardi, travestiti da vigili urbani, dirigono il traffico davanti al bar Cocchi
Un altro avvenimento memorabile risale al 1964 quando i goliardi, travestiti da vigili urbani (con vere divise fornite dal padre del Priore Giancarlo Fassone), si misero a dirigere il traffico per una mezz’ora davanti al bar Cocchi. A un certo punto arrivò dalla sommità di corso Dante Gianni Bossotti in divisa militare a bordo di una motocicletta da paracadutista. Successe un pandemonio, con finte telecamere che riprendevano la scena, mentre Bossotti (s)regolava il traffico e le matricole pulivano i lunotti delle auto con le scope di saggina. Ma nessuno se ne ebbe a male. Nel 1966, tra le varie altre cose, furono venduti un certo numero di biglietti a parecchie ragazze le quali concorrevano così all’estrazione di una serenata notturna cantata da Pino Gammino e accompagnata alla chitarra da Gianni Bogliano. Va da sé che le vincitrici erano tutte molto belle e/o fidanzate degli organizzatori. Il momento clou che concludeva l’iter delle feste era, ovviamente, il veglione. L’anno che toccò al sottoscritto fare il Priore col nome di Pater Defensor Virginum (siamo sempre nel 1966), pochi mesi dopo l’uscita del film L’Armata Brancaleone, venni portato nella sala del Winter Garden dentro una bara attorniata dalle matricole piangenti; poi, quando il sarcofago fu scoperchiato, feci lo stesso gesto di Vittorio Gassman: gomito piegato e… zac. Non nego che quei pochi minuti rinchiuso mi inquietarono parecchio. Lo stesso anno, al Politeama, un gruppo di goliardi da me capeggiato, “dialogò”, tra la sorpresa degli spettatori, con il grande comico Fanfulla che recitò pure nel Satyricon di Fellini.
L’elezione della miss
Il gran finale del veglione era il momento dell’estrazione dei premi, l’elezione della miss, l’intonazione dei canti, la recita dei misteri e delle giaculatorie (quattr e dui ses, ses e dui ött… scorreggiava sora Rosa, sora Rosa scorreggiava…) con la solenne benedizione da parte del Priore. A quel punto Mario Patritti eseguiva qualche accordo di piano in tonalità minore mentre il Priore leggeva la formula di rito; quindi seguiva la classica Bimbe belle con Pino Gammino che aiutava a mantenere l’intonazione. Così, di anno in anno, nel mese di novembre si consumavano le feriae matricularum. Un po’ di allegria e poi di nuovo sotto con gli esami. Sì, perché, nonostante le apparenze, quasi tutti quei goliardi casinisti finirono poi per laurearsi guadagnandosi considerazione nella propria professione. Finisce qui questo mio excursus sulla festa delle matricole, così come l’ho vissuta io, e come ho potuto ricostruirla. Mi sia concesso in chiusura di esternare un caro ricordo a un personaggio che da poco non c’è più: l’ing. Giancarlo Fassone (Pater Fornicator), il Priore che mi “battezzò” quand’ero matricola.
FELUCHE, PIUME E GRADI GOLIARDICI
Le feluche: ogni facoltà un colore
Uno dei tratti distintivi dei goliardi, oltre al saio penitenziale indossato dalle matricole e i mantelli in raso rosso riservato ai “cardinali”, erano le feluche: il tipico cappello a punta che ricorda quello di Robin Hood, il cui uso risale alla fine dell’800 con un colore diverso per ogni facoltà. C’è da dire che i colori variavano in parte a seconda delle facoltà frequentate e quelli di Asti, simili a quelli di Torino, erano:
BIANCO: Lettere e Filosofia.
NERO: Ingegneria, Architettura.
BLU: Giurisprudenza, Scienze politiche.
VERDE: Matematica, Fisica, Scienze naturali, Biologia.
ROSSO: Medicina, Farmacia, Veterinaria.
GRANATA: Magistero.
GRIGIO: Economia e Commercio.
Le feluche, inoltre, erano abbellite da ogni sorta di ninnoli e pendagli e più ce n’erano e più erano strani, più la feluca era ammirata. Esisteva, poi, un regolamento variabile da un Ateneo all’altro sul numero di pendagli da apporre sulla feluca e su quanto potessero pendere. Ai laureandi, infine, era concesso di fregiarsi di una frangia dorata da apporsi su un lato della feluca.
I gradi
Al primo e più infimo grado c’erano le “foetentissimae matriculae”, studenti al primo anno, definite “minus quam merdam”. Al secondo anno si diventava “famelici phaseoli”, fagioli famelici perché era giunto il momento, in una sorta di nonnismo, di far subire alla matricole gli scherzi di cui essi fagioli erano stati vittime l’annata precedente. Al terzo anno si diventava “venerabili anziani ”. Poi c’erano i “magnifici laureandi” e infine i “siderei extracursus”, studenti fuori corso che non avevano completato il piano di studi negli anni prescritti e avevano anche decine di bolli, ovvero anni di iscrizione sul libretto, e per questo godevano di massimo rispetto. Tra gli anziani si sceglievano quelli destinati a gestire per quell’anno tutta l’attività goliardica, i quali diventavano “cardinali” e potevano fregiarsi, sulla feluca, di una piuma di struzzo rossa. Sempre all’interno del comitato cardinalizio, si eleggeva il Priore il quale, come massima autorità goliardica cittadina, aveva come segno distintivo una piuma di struzzo bianca da aggiungersi a quella rossa di “cardinale”.
Il Nattale raccoglieva importanti e scanzonate espressioni
Il Nattale, detto anche Cessale, era il libro sacro dei goliardi religiosamente conservato dal Priore in carica e passato al Priore successivo. Era un’opera d’arte con frontespizio rigido in cui compariva al centro un tappo (la natta) tagliato longitudinalmente e circondato da una raggera di fiammiferi usati. Le pagine di carta “a mano” raccoglievano tutte le più importanti e scanzonate espressioni della creatività goliardica come le varie leggi (legge di Gay Lussac, legge di Giovenale, legge di Allara, legge del menga ecc.), i codicilli, i misteri (mistero della sfinge, mistero della biscia, mistero di Vanchiglia, mistero di Porta Palazzo), le litanie (quattr e dui ses, ses e dui ött) e i canti, per terminare con la formula della solenne benedizione, rigorosamente in latino maccheronico, con cui si concludeva la serata del veglionissimo delle matricole.
La benedizione solenne
Purtroppo, nell’ultimo veglione il Nattale fu sottratto da uno sconosciuto, quell’importante cimelio andò perduto e con esso la memoria storica di venticinque anni di goliardia. Gli strumenti “sacri”, manco a dirlo, erano del tutto particolari: un pitale in cui c’era “l’acqua santa” (acqua santa? macché, a volte anche liquido organico) e come aspersorio un semplice manico per la tazza del water. Momento clou del veglione, dopo l’elezione della miss, era appunto la solenne benedizione, con il Priore in atteggiamento ieratico e circondato dai cardinali, mentre le matricole, coperte dal saio, stavano inginocchiate a capo chino. Si faceva silenzio nella sala. Il pianista attaccava alcuni accordi di sapore sacro e il Priore recitava la formula di rito: “Nos Pater (nome del Priore in carica) digito in ano immisso, terque quaterque testiculis tactis, palleggiatoque augello, pilis usque ad effusionem sanguinis detractis, benedicimus vos, goliardos et filisteos in nomine Bacci, Tabacci et Veneris…Socmel… E poi il gran finale tenuto lungo per quanto fiato aveva il Priore che cominciava con m e finiva con a. Applausi scroscianti e conclusione con “Bimbe belle”, un classico delle canzoni goliardiche.