In un’epoca in cui da un lato è più che mai sentito il richiamo della tradizione, e dall’altro è in voga l’associazionismo spontaneo, non stupisce di scoprire che esiste, da metà degli Anni Novanta, l’“Associazione culturale Polentari d’Italia”, con tanto di statuto, direttivo e raduni degli associati.
La geografia dei “polentari”, delle polente e dei polentoni tocca parecchie regioni, compresa la Sardegna. Molte di queste sagre, animate da attive Pro loco, sono di nascita relativamente recente (prima metà del Novecento), ma più d’una vanta origini antiche, collocabili intorno alla metà del Cinquecento. Così è per il territorio della Langa astigiana, con una breve incursione nell’Alessandrino, dove di Polentoni tradizionali se ne contano ben cinque: quelli di Bubbio, Cassinasco, Monastero, Ponti e Roccaverano. Tanto che sono stati “codificati” come i “Polentoni della Valle Bormida”. Costanti nel tempo, queste ricorrenze si sono arricchite di cortei storici sempre più filologici (rimarchevole la ricostruzione d’epoca fatta a Bubbio), di mercatini che offrono prodotti locali e di eventi collaterali: spettaccoli musicali e teatrali, mostre fotografiche e pittoriche e persino visite guidate con tanto di navette messe a disposizione dagli organizzatori.
Perché i paesi dei Polentoni sono proprio belli e ci sono un sacco di cose da vedere, oltre, naturalmente, il paesaggio, che inasprisce le dolci ondulazioni collinari tipiche del Monferrato con crinali più aguzzi, calanchi, estese zone boschive, pascoli in cui, più in basso, si aprono macchie fitte di noccioleti. A movimentare l’orizzonte, borghi di case in pietra, arroccati a grappolo su di un’altura o racchiusi, come Monastero Xxx Il polentone di Monastero Bormida aveva colpito anche l’immaginazione degli illustratori della Domenica del Corriere.
Qui una prima pagina del 1937 Bormida, attorno ad un poderoso castello quadrangolare di origine altomedievale. E poi torri di avvistamento, ruderi possenti di fortificazioni, campanili e ponti romanici, interni barocchi in alcune chiese mentre in altre si squadernano cicli di affreschi gotici. Persino una parrocchiale cinquecentesca, quella di Roccaverano, il cui disegno è attribuibile al Bramante.
Ma torniamo ai Polentoni. Lo spazio temporale in cui si svolgono le manifestazioni è abbastanza ristretto, almeno per quanto riguarda le prime tre versioni, un periodo che comprende il Carnevale e la Quaresima. Apre la rassegna, la penultima domenica di Carnevale, il comune di Ponti (immortalato, tra l’altro, nel 1957 da Mario Soldati), seguito una settimana dopo – la seconda domenica di marzo – da quello di Monastero Bormida e, a poco più di un mese, da quello di Bubbio (prima domenica dopo Pasqua). Più spostati in avanti il Polentone di Cassinasco (seconda domenica di maggio) e ultimo quello di Roccaverano, la prima domenica di giugno.
L’origine di queste festose rievocazioni, in generale, va collocata sullo sfondo di quei periodi di miseria endemica che, negli inverni particolarmente rigidi, si poteva mutare in carestia. Altro costume di cui tenere conto è il percorso itinerante digruppi di calderai che passavano di paese in paese per stagnare pentole, paioli e caldaie, infreddoliti e affamati loro stessi. Forse non era neppure estraneo lo spirito carnascialesco in cui, risorse permettendo, ci si poteva abbandonare alla festa e allo scialo, magari concedendosi una spanna di salsiccia (servita, infatti, nella manifestazione di Monastero).
Che le prescrizioni alimentari quaresimali, poi, fossero incidenti lo può dimostrare il fatto che un accompagnamento classico della polenta fosse, è lo è tuttora, il merluzzo, un “mangiare di magro” diffuso presso i popolani piemontesi, oppure la frittata, per lo più di cipolle. Ogni paese metteva in piazza quello che aveva: ci piace immaginare i contadini che recavano fiaschi del loro vinello un po’ asprigno o le massaie che portavano nelle falde del grembiule delle uova o qualche formaggetta di capra.
Non è un caso che il Polentone di Roccaverano sia accompagnato proprio da quest’ultima, un cacio confezionato da sempre su questa Langa e oggi diventato la splendida Robiola di Roccaverano Dop. Da questa realtà si è partiti per creare una ricostruzione semi-leggendaria che lega la nascita dei Polentoni a un atto di generosità operato dal Signore locale (un del Carretto o un della Rovere, a seconda dei casi) nei confronti della popolazione e dei calderai stremati dalla fame e dal rigido inverno. Il Signore, impietosito, fece dono ai calderai, in cambio della riparazione (per qualcuno costruzione) di un enorme paiolo in rame, di numerosi sacchi di farina di mais con i quali si fece cuocere una gigantesca polenta in grado di sfamare tutti i presenti.
Ma poco importano i particolari. Quel che oggi si perpetua è la cottura di una polenta di dimensioni inaudite: a partire dal mattino un esercito di cuochi rimesta circa dieci quintali di farina (negli ultimi tempi a Monastero si è andati ben oltre) in un pentolone che a sua volta pesa più di due quintali. E oltre tremila uova vanno a finire nella frittata di cipolle. Inutile dire che la generica farina del passato è oggi spesso sostituita con quella di mais ottofile e il vinello di un tempo dalle migliori produzioni della zona. Un’ottima maniera per far conoscere il territorio, in tutti suoi aspetti.