Ho capito che era un genio per tre gnocchi. Primi anni Novanta, vivevamo ancora entrambi nella Milano da bere. Ci si incontrava spesso a notte inoltrata, nel ristorante della compagna di un discografico. Giorgio mi salutava sempre allo stesso modo: «Sesso, bagna cauda e rock and roll», anche se sapevamo entrambi che per raggiungere il primo elemento bisognava corteggiare il terzo e scansare il secondo.

Quella sera al tavolo con noi c’era Aleandro Baldi, che da lì a poco avrebbe vinto Sanremo anche se i voti davano ragione a Signor tenente (il festival è l’unico luogo dove la matematica è un’opinione). Baldi ordinò gnocchi al sugo. Quando ne rimasero tre, cominciò a dare forchettate a vuoto. Il rumore ripetitivo della posata sul piatto generava imbarazzo. Scese il silenzio.
Fu allora che Giorgio disse, allegro: «Ma che cazzo fai? Sei cieco?». Baldi scoppiò a ridere, trascinando l’intera tavolata. Questo era Giorgio Faletti. Poteva dire qualsiasi cosa, anche la più terribile, riuscendo sempre a far ridere. Era come un folletto a cui perdonavi tutto. Quando si trovava in difficoltà, gli bastava far ricorso a una battuta. Se capiva di avere forti probabilità di uscire sconfitto da una discussione con Roberta, spalancava gli occhi, roteava la testa, dava una boccata alla sigaretta elettronica e poi diceva: «Robi, anche solo statisticamente non è possibile che io abbia sempre torto». Ridevamo tutti e via, ancora una volta aveva vinto lui.

Di Roberta dava una definizione fulminante: «L’unica donna al mondo che pensa che la casa sia una dépendance della lavanderia». Era il modo che aveva il comico per raccontare la grandezza di chi organizzava tutto con naturalezza assoluta. Una mattina, per dirne una, mi sveglio nella loro casa dell’Elba e scendo in cucina per il caffè. Sono le nove. Roberta è già lì. Dice: «Mi sono svegliata presto e ho preparato un po’ di cose». Apro il frigo: insalata russa, prosciutto in gelatina, budino per mio figlio. Alle nove del mattino.
Giorgio. Con lui, ogni giornata era uno spettacolo.
Una volta, in un ristorante di Milano dove fanno la cotoletta più buona del pianeta, uscendo ha visto che in una sala c’era uno chef molto compreso nel suo ruolo che teneva un corso di cucina. Giorgio lo ha osservato per un minuto, poi si è buttato su di lui improvvisandone la parodia. La gente rideva fino alle lacrime, lo chef avrebbe voluto ucciderlo. Sapeva imitare chiunque, perché di chiunque percepiva immediatamente il tic, la stranezza, i modi di dire. La sua parodia dell’amico comune Gianni Miroglio era semplicemente straordinaria. Entrava nella mia macchina, la vedeva sporca e diceva: «Ogni volta che entro qui devo poi andare a fare il richiamo dell’antitetanica».

Era maniaco della puntualità, fino all’eccesso.
Arrivava puntualmente in anticipo, pur sapendo che così facendo avrebbe aspettato i ritardatari e i puntuali. Stranissimo, per un artista. Si concedeva con la medesima intensità a una firma del Corriere della Sera come a un anonimo redattore del Gazzettino della Val Brembana. Diceva sempre: «Ricordati che le persone che incontri quando sali sono le stesse che incontri quando scendi», come a dire: se te la tiri te la faranno pagare. Lo hanno capito i media e soprattutto la gente, la sua gente, gli astigiani come noi. Lo si è visto ai funerali, alla camera ardente.
Non era perfetto, questo no: tifava Juve. In cucina lasciava senza parole. Diceva: «Dai, ti preparo un piatto al volo» e in pochi minuti sfornava vermicelli cacio e pepe al cacao amaro intinti nel tè al bergamotto. Quasi irritante. Sapeva cucinare, far ridere e piangere, dipingere, cantare, scrivere canzoni, racconti e romanzi, correre i rally. Andava a dormire che gli mancava il verso di un brano: «Mi verrà domani», diceva.

Lo incontravamo la sera dopo: «Ti è venuto quel verso che ti mancava?». «Sì, ma senti questa». E faceva ascoltare un’altra canzone, scritta in nemmeno 24 ore. Forse è per questo che se n’è andato presto.
Persino gli dei si saranno indispettiti. Di tutte le sue grandezze, la più sublime è per me la sua disponibilità nel mostrarsi vulnerabile, fragile, incerto, quando la malinconia lo attraversava. Nessuna ansia da superuomo. Inteneriva la paura che lo aggrediva prima di salire sul palco, lui che sul palco era immenso. Antonio Ricci mi ha raccontato che il giorno prima di presentare Striscia la notizia, Giorgio si era fatto venire un ascesso psicosomatico che gli aveva gonfiato la faccia e che non aveva precedenti nella storia della medicina.

Gli piaceva citare un passaggio di Marigold Hotel, quando il proprietario dice: «Andrà tutto bene alla fine, e se non andasse tutto bene vuol dire che non è ancora la fine». Frase bellissima.
Purtroppo non è andata così.









