Era una sera di febbraio del 1959 quando 19 viticoltori si raccolsero a Vinchio per dare vita alla cooperativa “Viticoltori Associati di Vinchio e Vaglio Serra”.
Agostino Bussi, Pietro Ratti, Pietro Giolito, Luigi Arione, Antonio Ratti, Maggiorino Encin, Pasquale Ratti, Giovanni Oldano, Pietro Arione, Domenico Zogo, Giuseppe Rupati, Innocenzo Picco, Pancrazio Boero, Paolo Rapetti, Piero “Pierino” Oldano, Secondo Villa, Antonio Cellino, Cesare Negro, Antonio Garberoglio: queste le firme in calce all’atto costitutivo del nuovo enopolio che aveva la caratteristica di nascere in perfetto equilibrio tra due paesi vicini, Vinchio e Vaglio Serra, e di voler superare diffidenze e campanilismi.
Tra i fondatori c’erano infatti il sindaco di Vinchio Agostino Bussi, che fu il primo presidente della cooperativa, e il suo omologo di Vaglio Serra Cesare Negro. A conferma che la nascita della cantina non interessava solo chi aveva vigne, va ricordato che tra i probiviri c’erano anche don Ugo Brondolo, parroco di Vinchio, e Vincenzo Verri, macellaio a Vaglio e padre dell’attuale sindaco del paese. Con loro Stefano Giolito, ufficiale postale e maestro di musica.
Una risposta al giogo del prezzo imposto dai mediatori di uve

Nel collegio sindacale Domenico Zogo, nonno dell’attuale sindaco di Vinchio, e Paolo Rapetti, classe 1925, mancato poco tempo fa a 94 anni, ultimo testimone di qualla stagione da pionieri.
La cooperazione vinicola ha una storia lunga e spessotormentata. La prima cantina sociale d’Italia era nata proprio in Piemonte, a Oleggio, nel 1891, e molte ne erano seguite nella prima metà del Novecento. (Vedi Astigiani n. 13, settembre 2015).
Poi il fenomeno, interrotto dal fascismo, era ripreso nel secondo dopoguerra quando si era fatta più forte la crisi del mondo agricolo e iniziava lo spopolamento massiccio delle campagne. Quei 19 tentavano di fare fronte comune per evitare speculazioni sulle uve coltivate nei loro piccoli vigneti. Tutti loro avevano una modesta produzione di vino, ma il grosso della vendemmia era affidata ai mediatori che lavoravano per conto delle aziende vinificatrici e imbottigliatrici di Nizza, Asti, Canelli. Arrivavano a comperare uve da Torino, Alba e anche da più lontano, considerando la fama della Barbera di queste colline, ma il prezzo era sempre dettato da fattori esterni e i contadini lo dovevano accettare se non volevano tenersi i grappoli nelle bigonce.
Capitale sociale di 19 mila lire e responsabilità dei soci in solido

A molti non restava che “piazzare” al più presto le uve sul mercatoa prezzi spesso poco remunerativi. La cantina sociale era anche un modo per avere più tempo per commerciare il vino, tempo significativamente più lungo rispetto a quello che avevano avuto f ino a quel momento, con la necessità di vendere le uve subito dopo la vendemmia. Ma servivano mezzi finanziari. Ogni sottoscrittore versò mille lire: il capitale sociale iniziale ammontava a 19.000 lire complessive.
Da diversi punti di vista,l’impegno che i soci fondatori stavano prendendo sulle proprie spalle era però molto più oneroso. Tanto per iniziare, la condizione posta dalle banche era che la cooperativa fosse a responsabilità illimitata: ognuno dei sottoscrittori avrebbe risposto con l’intero patrimonio della propria azienda in caso di debiti o dissesti finanziari.
Quell’atto coraggioso era destinato a segnare per i decenni a venire la realtà delle comunità locali, caratterizzandone il tessuto economico. C’era la questione della sede e si scelse di far sorgere la cantina nella valle al confine esatto tra i due comuni di Vinchio e Vaglio Serra. Una scelta che si è dimostra vincente.
L’accordo era assistito, soprattutto all’inizio, da un apparato di vincoli e di garanzie reciproche, come l’alternanza alle cariche di presidente e vicepresidente per rappresentanti di Vinchio e Vaglio e l’obbligo di firme congiunte. Controlli nei vigneti nel 1989. Da sinistra il direttore Giancarlo Cellino, Enzo Gallesio, l’enologo Giuliano Noè e lo storico vinchiese Franco Laiolo agricola».
La cantina fu costruita in tempi record: fu ultimata nell’estate del 1959, mentre già i mosti fermentavano nelle vasche. I soci non si erano risparmiati e avevano lavorato per trasportare i mattoni per edificare la cantina anche durante la raccolta delle uve. «Adesso questo campanilismo fa sorridere – spiega Lorenzo Giordano, presidente della cooperativa dal 2001 – ma all’epoca il fattore logistico era cruciale: Vinchio, Vaglio e anche la piccola frazione di Noche volevano una cantina facilmente raggiungibile per il conferimento delle uve, che avveniva con carri trainati da buoi, mucche o cavalli.
La scelta della vallata, crocevia tra zone vitivinicole di pregio, metteva tutti d’accordo e si rivelò assai felice anche per i successivi ampliamenti che avrebbero interessato la cantina negli anni: non sarebbe mai stato possibile fare un piano di ampliamento simile in collina».
Lo statuto, all’articolo 3, esplicitava gli scopi e l’indirizzo della società mutualistica: oltre alla «vinificazione in comune delle uve raccolte su fondi posseduti a qualunque titolo dai soci, di vino di diverse qualità con metodi moderni e razionali», si intendeva «promuovere il progresso tecnico ed economico dell’agricoltura locale in ogni suo aspetto od attività, allo scopo di migliorare le condizioni sociali ed economiche, non solo dei soci, ma dell’intera popolazione agricola.
La cantina fu costruita in tempi record: fu ultimata nell’estate del 1959, mentre già i mosti fermentavano nelle vasche. I soci non si erano risparmiati e avevano lavorato per trasportare i mattoni per edificare la cantina anche durante la raccolta delle uve.
Due anni dopo, nel 1961, ai soci fu chiesto uno sforzo ulteriore: nei primi tempi lo statuto aveva consentito di conferire l’80% della produzione escluso solamente il fabbisogno familiare, ma dopo un’infuocata assemblea si decise di non far sfuggire alla cooperativa le uve migliori e puntare all’innalzamento della qualità, chiedendo di conferire il 100% della produzione. Seguirono ottime vendemmie, come quella del 1964, quando le code per il conferimento raggiungevano il chilometro nelle strade davanti alla cantina.
Non mancarono neanche i problemi, come il tracollo della Consociazione Cantine Sociali Asti Nord che raggruppava numerose realtà con un centro di imbottigliamento unico: una struttura deficitaria che fu commissariata con un passivo di oltre un miliardo di lire. Amministratori e probiviri della Cantina di Vinchio e Vaglio tennero la barra dritta e traghettarono la compagine fuori dallo spettro della crisi.
Negli Anni Settanta, il collegio sindacale decise la riforma del dividendo cheportò ad applicare sulle uve barbera uno scalare migliorativo per ogni grado zuccherino superiore alla media, ottimizzando così la selezione del raccolto e la qualità del prodotto. La scelta ebbe successo: nuovi soci si unirono alla cooperativa e la Regione finanzio il necessario ampliamento e il rinnovamento delle attrezzarure.
Nel 1987 con la consulenza dell’enologo Noè parte il progetto Vigne Vecchie

Nel 1985 la Cantina sociale abbandonò la formula della responsabilità illimitata dei soci per passare a quella della responsabilità limitata; nello stesso anno, l’enologo Giuliano Noè iniziò a collaborare con la cooperativa. Nicese, con un cognome che pareva destinarlo a quel mestiere, Noè fu il vero “acquisto” vincente della cantina.
Sempre attorno alla metà degli Anni Ottanta, sullo sfondo del cupo scandalo nazionale del vino al metanolo, iniziò a delinearsi il progetto delle “Vigne Vecchie”, che nacque ufficialmente nel 1987. L’alchimia professionale tra il direttore dell’epoca, Giancarlo Cellino, il presidente Ezio Gallesio e l’enologo Noè, fece emergere questa idea per l’epoca innovativa e coraggiosa: i vigneti furono individuati e catalogati personalmente da Noè, a Monte dell’Olmo quello dei fratelli Boero e altri vigneti storici di Vinchio e Vaglio Serra, esposizioni ideali, grappoli magri, numerosi e maturi, acini sani, zuccherini, forti.
La selezione delle uve nelle vigne più vecchie – oltre mezzo secolo – e con le migliori giaciture, la raccolta in piccole cassette forate da 20 chilogrammi fornite direttamente dalla Cantina e ispezionate accuratamente al momento del conferimento, la vinificazione in botti di acciaio inossidabile, la maturazione in barrique di rovere francese da 225 litri e poi in bottiglia, hanno dato vita a quella che Carlo Petrini ha definito la “madre di tutte le Barbere” (Vini d’Italia, 2004).
«“Vigne Vecchie” ci ha consentito di salvaguardare i vigneti storici, dalla resa quantitativamente scarsa ma qualitativamente altissima, destinati all’abbandono. Cerchiamo vigne in cui la gramigna sia vista con occhio benevolo…» scrisse Cellino ai soci. «E qualcuno commentò che volevamo premiare i pelandroni! Ne è nato invece un vino talmente particolare che la prima annata uscì come “vino rosso da tavola”, perché avevamo il timore che le commissioni non lo accettassero come Barbera d’Asti» ricorda Giordano.
Quella scelta portò anche allo sviluppo delle linee di imbottigliamento della cantina, che fino ad allora vendeva la maggior parte dei suoi vini sfusi o in damigiane.
Cresce la coscienza ambientale e nasce il “percorso dei nidi” caro a Davide Lajolo

Altro vino di punta della Cantina è il “Seivigne Insynthesis”, una Barbera d’Asti superselezionata da 15,5 gradi che si affianca al Nizza docg e all’altra ampia gamma di vini.
Oggi il grande ruolo di presidio che la Cantina sociale svolge sul territorio, si è rafforzato anche con iniziative collaterali: insieme alle amministrazioni comunali dei due paesi e al Parco Paleontologico Astigiano è nato in questi mesi il percorso “I nidi di Vinchio e Vaglio Serra”. Un tracciato che dalla collina soprastante la Cantina raggiunge i confini della riserva della Val Sarmassa.
Lungo il percorso sono state posizionate tre strutture, “I Nidi”, in onore al termine con cui lo scrittore, giornalista e politico Davide Lajolo indicava il suo paese natale, Vinchio. Chi percorre il sentiero dei nidi trova anche una barca, a ricordo di quando queste colline erano coperte dal mare i cui sedimenti sabbiosi hanno reso i terreni così adatti alla coltivazione della vite.
«La tutela del territorio è la ragione di fondo per cui la Cantina è nata ormai 60 anni fa – spiega Giordano. La produzione di vinopreserva il tessuto economico locale, evitando lo spopolamento delle nostre campagne, e oggi più che mai l’economia enoturistica è una leva fondamentale per questo territorio […] La nostra enoteca, che abbiamo rimesso a nuovo sei anni fa, ha un database di circa 35mila clienti. Significa che sono tantissime le persone che passano da noi ad acquistare del vino, ma anche i turisti – un 20 per cento di stranieri – che chiedono consigli per sapere dove mangiare, dove dormire, cosa fare. C’è sempre un grande passaggio: fino a 350 persone al giorno».
I festeggiamenti per i 60 anni sono stati sobri, com’è nello stile della Cantina. Giuliano Noè è andato in pensione ma ha voluto regalare i preziosi macchinari del suo laboratorio d’analisi alla Cantina, che li ha sistemati e li userà ancora. Il grande cortile si prepara ad accogliere i trattori con le bigonce cariche di grappoli. La storia continua.




