Ditemi il titolo di un brano e io ve lo fischio all’incontrario”. È la sfida che Domenico “Mingo” Chiodo, 86 anni, ha lanciato per anni a coloro che si credevano esperti di jazz. Per musicisti e musicofili liguri e piemontesi è rimasto “il Duca”, titolo che si era guadagnato in gioventù per il vestire elegante e lo stile raffinato e anche per il modo eccellente di suonare il clarinetto.
Il jazz ha colorato la vita di Mingo. Negli anni Quaranta, subito dopo la guerra, faceva parte di formazioni che si esibivano a Genova e a Torino, come la Gate Avenue Strawhatters, dispensatrice del più puro stile dixieland e con la quale, nel ’51, partecipò al Terzo Festival Nazionale del Jazz, svoltosi a Milano. Ricorda Mingo: «Nella nostra sede genovese, vicino al porto veniva ad ascoltarci anche Adriano Mazzoletti. Aveva ancora i calzoni corti». Quel ragazzo, in seguito, allievo di Testoni e Polillo, divenne uno dei più autorevoli storici italiani del jazz.
Mingo Chiodo approdò ad Asti con la famiglia (suo padre era un funzionario dello Stato) agli inizi degli anni Cinquanta e cominciò a lavorare come assicuratore. Nell’ambiente dei musicisti astigiani ben presto si venne a sapere del suo arrivo e un gruppo di ragazzi che suonava all’Astense Club, in via Hope, lo elesse a sua guida musicale, uno che ne sapeva più di tutti.
Di quel periodo ha scritto Paolo Conte: «Sarà stato il 1952… Ci chiamavamo Original Barrelhouse Jazz Band ed eravamo degli emeriti dilettanti, nessuno studio, nessuna tecnica, solo passione e cultura fatta sui dischi… Cominciarono così due anni di insegnamenti empirici, ripetuti quotidianamente, che consistevano nel camminare per corso Dante e corso Alfieri in fila per quattro, producendo ciascuno un suono con la bocca per imparare ritmi e contrappunti (tu fai “blum”, tu fai “plick, plick”, tu fai “zum, zum”, tu fai “rad rad”). Così passavano i pomeriggi il guru e i suoi adoranti allievi. Lui parlava poco di sé e si manteneva avvolto nel mistero. Ogni tanto qualche concetto di vita che ci spalancava orizzonti, tipo: “C’è più violenza in una cambiale in protesto, che in un pugno in faccia… Non avevamo più i nostri nomi, ma soltanto soprannomi: Mistinguett, Canadese, Faina, Cicciolo ecc.».
Riandando ai ricordi di quel tempo, Mingo deve compiere uno sforzo di memoria: «Forse fu Beppe Scialuga a chiedermi di andarli ad ascoltare per la prima volta. O, forse, Piero Gasparini. Ci andai e oltre a loro due trovai Paolo Conte al trombone. E se non sbaglio, Gian Luigi Bravo al pianoforte». Certe foto ingiallite testimoniano di quegli incontri.
La cosa certa è che intorno a quel gruppo giravano altri musicisti alle prime armi: Silvio Donalisio, Pier Eugenio Fea, Gino Basso (fratello del già famoso Gianni), Giuliano Ponte, Gigi Caramagna, Gian Carlo Occhiena, Carlo Guerriero, Freddy Mancini, Dodi Bocco, Cin Coggiola. Ogni tanto si aggregava un veterano, Cicci Adriano.
Musica, passioni e una gran voglia di uscire dalla monotona vita di provincia. Musicalmente colto, Domenico “Mingo” Chiodo ha lavorato per la Rai a trasmissioni radiofoniche proprio con Adriano Mazzoletti, realizzando testi, sceneggiature e biografie sui grandi del jazz. Per la sua attività di critico e divulgatore, negli anni Sessanta ricevette, a Helsinki, un premio al Jazz Contest organizzato dall’Unione Europea di Radiodiffusione. Mingo è un tipo schivo e modesto, si è sempre considerato “un entusiasta consumatore di jazz”. E aggiunge: «Non mi piacciono mondanità e consumismo. Per me la musica è un fatto naturale ed intimo; aggregante in modo sano: è un linguaggio che arricchisce spiritualmente. Per questo mi piace condividerla con gli amici».
E con gli amici ha condiviso anche il piacere della lettura e ogni volta che ha comprato un libro, dopo averlo letto lo ha sempre regalato a qualcuno. Lui non ha il senso del possesso, ma alcuni autori li ha tenuti perché, dice, gli fanno compagnia. Tra questi Gadda, Bulgakov, Orwell e Primo Levi.